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Politica: Giù le mani dalla Banca Nazionale Svizzera

La Banca Nazionale svizzera (BNS) questa settimana è stata oggetto di molta attenzione da parte della stampa. Vediamo perché.
La settimana si è aperta con la notizia che la BNS ha deciso di aumentare il tasso delle riserve minime obbligatorie dal 2.5% al 4% delle passività delle banche e di considerare tutti i depositi della clientela in questo calcolo. Ma andiamo con ordine. La riserva obbligatoria è un deposito in contanti che le banche secondarie devono tenere presso la banca centrale. Questa riserva è proporzionale ai depositi della clientela. Questa specie di “conto corrente” che le banche hanno presso le banche centrali serve a poter soddisfare la domanda dei clienti che vogliono ritirare immediatamente i loro contanti. Diciamo che è una sorta di garanzia per i clienti. In effetti, magari non tutti sanno che i contanti che noi depositiamo presso le banche vengono prestati ad altri oppure investiti. La conseguenza è che se tutti noi volessimo ritirare nello stesso momento i nostri averi, questo genererebbe la famosa corsa agli sportelli e quindi il crollo del sistema bancario. Ma la riserva obbligatoria ha anche un’altra funzione, quella di ridurre di un po’ la quantità di moneta che circola nel sistema. Se c’è meno moneta, ci sarà meno domanda e questo potrebbe far abbassare i prezzi. Ricordiamo che l’inflazione in Svizzera appare sotto controllo, ma che è sempre meglio non abbassare la guardia visto anche che la stessa Banca nazionale è stata l’unica Banca centrale a ridurre i tassi di interesse qualche settimana fa. Questa misura di aumento del tasso di riserva obbligatoria potrebbe quindi compensare un po’ questa decisione.
Qualche giorno dopo, la BNS ha annunciato un utile di 58,8 miliardi di franchi nel primo trimestre di quest’anno. Sicuramente questa è una buona notizia, soprattutto se la paragoniamo alle perdite realizzate negli ultimi due anni. Il buon risultato dipende principalmente (ca. 52 miliardi) dai guadagni fatti sulle valute estere che hanno acquisito forza rispetto al franco svizzero. Per semplificare, avendo noi tanta moneta estera, abbiamo guadagnato dal suo rafforzamento. All’aumento del valore dell’oro dobbiamo altri 9 miliardi di franchi di guadagno (in parte ridotti dalle perdite sugli investimenti in franchi svizzeri). Questa buona notizia non deve però far venire l’acquolina in bocca ai cantoni: affinché ci sia distribuzione di un utile, il risultato annuale dovrà essere superiore ai 65 miliardi. E data l’incertezza che regna in questo momento, meglio essere prudenti e non contabilizzare queste possibili entrate nei conti cantonali.
Infine ieri, venerdì 26 aprile, si è tenuta l’assemblea generale della BNS. In questo appuntamento, la presidente Barbara Janom Steiner, ha ricordato che il compito della BNS è quello di garantire la stabilità dei prezzi e non quello di realizzare utili da usare per assolvere i compiti che spettano alla politica. Quindi niente versamenti per la politica climatica o quella sociale.
Ricordiamo che l’indipendenza e l’autonomia della politica monetaria da quella fiscale è stata fino ad oggi una delle fonti più sicure del nostro benessere. Vediamo di non buttare via tutto.

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La crisi mondiale si fa sentire anche in Svizzera

I dati appena pubblicati sul commercio estero della Svizzera riferiscono di un primo trimestre di quest’anno non troppo entusiasmante. Le esportazioni hanno superato di poco i 64 miliardi di franchi mentre le importazioni si aggirano attorno ai 55,5 miliardi. Rispetto al trimestre precedente entrambi i flussi nominali, ossia i valori in franchi senza considerare l’effetto dell’inflazione, mostrano una riduzione, rispettivamente del -0.8% e del -1.9%. La situazione migliora un po’ se si va a guardare il dato in termini reali, quindi tenendo conto dell’effetto dei prezzi: in questo caso le esportazioni segnano + 0.6% e le importazioni una riduzione di “solo” -0.2%. La differenza tra esportazioni e importazioni, quindi il saldo della bilancia commerciale, chiude con una eccedenza di 8,6 miliardi di franchi.
Attenzione però, questo dato potrebbe indurci in errore. In effetti dobbiamo sempre ricordare che la Svizzera è un paese esportatore netto nonostante tre caratteristiche particolari. La prima è che la nostra nazione è piccola e questo significa che ha poca manodopera e anche poco territorio a disposizione per produrre. Nonostante ciò riusciamo a creare di più di quello che consumiamo e quindi a vendere all’estero. La seconda caratteristica è che la nostra nazione non dispone di una storia di industria pesante. Detto altrimenti non abbiamo un’industria automobilistica storica come la Germania e neppure cantieri navali come l’Italia. Infine, la terza caratteristica è che a differenza di altri paesi noi non abbiamo grandi risorse di materie prime. Questo implica che per poter produrre e vendere all’estero abbiamo bisogno di importare materie prime e prodotti semilavorati a cui aggiungeremo valore aggiunto con la nostra produzione. È proprio per questa ragione che quando le importazioni si riducono dobbiamo essere piuttosto cauti perché questo potrebbe significare che le nostre aziende esportatrici stanno vivendo un calo negli ordini e per questa ragione non comprano dall’estero. Ancora una volta comprendiamo quanto sia importante analizzare i dati economici aldilà dei semplici numeri.
In generale vediamo che la maggioranza dei settori economici ha visto le sue esportazioni ridursi. In particolare hanno sofferto il settore legato alla gioielleria, l’orologeria e gli strumenti di precisione. Anche il settore dei prodotti chimici e farmaceutici, punta di diamante delle nostre esportazioni, è rimasto pressoché stabile. Per quanto riguarda i mercati segnaliamo un certo rallentamento nelle vendite verso l’Asia (in particolare Singapore), un leggero aumento verso l’America del Nord e una certa stabilità verso l’Unione Europea. In questo caso, vediamo che purtroppo la maggioranza dei paesi (inclusi i nostri principali partner commerciali, Germania e Italia) mostra una riduzione degli acquisti, compensati in grande parte dall’aumento avvenuto con la Slovenia.
Naturalmente sappiamo che queste dinamiche dipendono fortemente dalla situazione internazionale, situazione internazionale che con l’allargarsi del conflitto Israelo-Palestinese non potrà far altro che peggiorare.

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Ticino: sempre più poveri e infelici

I fatti sono testardi.
Denuncio da tempo la situazione economica del nostro cantone e il generale e graduale impoverimento. E per questo sono spesso etichettata come disfattista o populista. La mia colpa? Ingigantire fenomeni “tutto sommato contenuti” se non addirittura, disturbare il manovratore.
Sfortunatamente, un’altra volta “cassandra” ha ragione. Vediamoli, questi fatti.
Il tasso di povertà in Ticino (2022) è del 12.8%, quattro punti sopra quello svizzero (8.2%). I ticinesi che non guadagnano abbastanza per vivere sono quasi 45 mila. Questi poveri (chiamiamoli con il loro nome!) vivono con al massimo 2’248 franchi al mese se sono soli o 4’010 franchi per due adulti con due bambini. Per darvi una misura ulteriore del problema, i ticinesi in Svizzera sono circa il 4%. I poveri ticinesi sono invece il 6.4%. rispetto ai poveri in Svizzera.
E la situazione è peggiorata rispetto all’anno prima, quando i poveri in Ticino erano 3’400 in meno.
Il nostro “povero” cantone vince anche la poco invidiabile classifica dei working poor, ossia coloro che pur avendo un lavoro non riescono a guadagnare abbastanza: sono oltre 7’000 persone. Il nostro tasso è del 5% contro una media nazionale del 3.8%. Siamo sul podio anche qui, ahimé.
Siamo al primo posto in Svizzera anche per il rischio di povertà. Mediamente a livello nazionale una persona su sette guadagna meno del 60% del reddito mediano, in Ticino siamo a più di una persona su cinque.
Se consideriamo il rischio di povertà a un livello ancora più precario, ossia le persone che guadagnano meno della metà del salario mediano, scopriamo che queste sono ben il 13.5% dei cittadini del Cantone (a livello nazionale la percentuale è del 9.2%). E questo numero di persone è aumentato di novemila unità dal 2021 al 2022: oggi sono quasi 47 mila.
Non è per niente un fenomeno “tutto sommato contenuto”.
Dietro queste cifre e percentuali, ci sono persone con le loro difficoltà quotidiane per vivere: persone che non si possono permettere una spesa imprevista, non possono (mai!) andare in vacanza, hanno arretrati di pagamenti, non possono comperare mobili nuovi. Tutte le cose che per il resto della popolazione sono acquisite, scontate, per questa gente sono un lusso inarrivabile.
E oltre questi dati, comincia ad emergere una rottura del tessuto sociale: in Ticino le persone che dichiarano di poter contare in caso di bisogno sull’aiuto morale, materiale o finanziario di terzi sono meno della media svizzera. Non siamo “solo” più poveri, siamo anche più soli.
Il Ticino è la regione svizzera dove più persone dichiarano di non sentirsi mai felici, sono insoddisfatte della propria situazione finanziaria, faticano a mettere soldi da parte e a sbarcare il lunario.
E non a caso il Ticino è anche il Cantone svizzero con il grado più basso di fiducia nelle istituzioni politiche. Triste, preoccupante. Ma non sorprendente.
È, come dicono gli americani, un incidente ferroviario al rallentatore. In passato la classe politica poteva far finta di non vedere la crisi, proprio per il suo procedere graduale. Ora questo treno sta accelerando e le conseguenze del problema, e della sua negazione a livello politico istituzionale, stanno per piombarci addosso in tutta la loro gravità.
L’inazione su questi temi non è più ormai una mancanza minore: è una colpa grave nei confronti dei nostri concittadini.

Pubblicato da diversi portali: TIO, Ticinonews, ETiCinforma

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Salari in Ticino: tutti giù per terra

In Ticino, per molti il sogno di una vita migliore si sta dissolvendo come neve al sole. Lo suggeriscono i dati sui salari pubblicati dall’ufficio federale di statistica. Queste cifre confermano una tendenza che denunciamo da tempo. La teoria economica, con le sue promesse di prosperità legata alla crescita, sembra beffarsi di noi, lasciandoci a mani vuote. Un lieve aumento dei salari rispetto al 2020? Una misera consolazione, quando si scopre che i redditi più alti hanno subito tagli drastici. Un vero e proprio schiaffo per chi ha sempre dato il massimo, tra questi i residenti svizzeri che sono i più colpiti da questa diminuzione.

Non siamo di fronte a una semplice battuta d’arresto, ma a quella che potrebbe diventare, se non si fa nulla, una vera e propria emergenza sociale: nemmeno i salari dei lavoratori più qualificati, come chi ha una formazione superiore, sono al sicuro. I settori che annunciano aumenti sono pochissimi, ad es. la ristorazione, la maggior parte invece lamenta diminuzioni importanti dei salari. In generale, vediamo i salari scendere nelle attività manifatturiere, nei servizi finanziari e assicurativi, nelle attività legali e in quelle legate alla contabilità, nelle professioni tecniche e scientifiche e in quelle della sanità e socialità.

E poi c’è la favola della riduzione del divario salariale tra uomini e donne. La beffa oltre al danno: in realtà, si tratta di un’uguaglianza al ribasso, dove tutti perdono, senza eccezioni. Il differenziale si rimpicciolisce non tanto perché le donne guadagnano di più, quanto perché gli uomini guadagnano di meno. Questa parità al ribasso non è quella che vogliamo.

Forse adesso che la crisi tocca anche i lavoratori più “fortunati” che dovrebbero essere i meglio rappresentati politicamente, i partiti storici finalmente si decideranno a fare qualcosa in difesa dei nostri salari.

Ma data la paralisi politica degli ultimi anni, ci vorrebbe un miracolo. Si potrebbe cominciare smettendo di negare la gravità della situazione con narrazioni di comodo. Il Ticino ha un problema di salari che adesso tocca anche i lavoratori meglio qualificati. La classe politica deve smetterla di guardare dall’altra parte. I nostri concittadini meritano di meglio.

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Pensiamo ad una nuova AVS

Il popolo svizzero è stato chiaro: vuole la tredicesima AVS e non vuole lavorare un anno di più. Almeno non per il momento. Le ragioni per l’esito di questa votazione possono essere molteplici, e forse alla fine non hanno neppure una grande importanza.
Ora bisogna capire come finanziare questa ulteriore indennità. Il primo pilastro è basato su un sistema a ripartizione: le persone che lavorano attualmente pagano le pensioni delle persone che non sono più attive. Esiste un piccolo fondo di compensazione che deve essere almeno pari a un anno di contributi erogati (ca. 45-55 miliardi di franchi). In questo caso quindi il sistema si fonda sulla solidarietà: dai giovani agli anziani, dagli attivi ai pensionati, dai sani ai malati e dai “fortunati” alle vedove e agli orfani.
Se si considera il sistema attuale le soluzioni non sono molte: aumentare i contributi sul lavoro, aumentare la quota che versa la Confederazione o aumentare direttamente l’imposta sul valore aggiunto o la tassa sulle case da gioco o la loro quota. Tutte queste misure però comportano una riduzione del potere d’acquisto per la fascia toccata o la rinuncia ad altri compiti (nel caso dell’aumento della quota parte della Confederazione). Soluzioni che paradossalmente potrebbero esercitare l’effetto contrario della nuova politica pubblica: per esempio aumentare l’IVA significa rendere più povere le persone meno abbienti.
Per questo bisogna avere coraggio e ripensare i nostri sistemi sociali e previdenziali. E bisogna farlo guardando alla società tra vent’anni e non più a quella del 1950, quando è stata istituita l’AVS. Questa riflessione deve essere fatta subito cogliendo l’occasione data da questa votazione. Purtroppo gli scontri generazionali iniziano a farsi sentire e potrebbero mettere in pericolo la coesione della nostra società. Pensiamo ai premi cassa malati e alla colpevolizzazione degli anziani, ritenuti da alcuni i responsabili perché vanno nelle case per anziani o hanno bisogno di aiuti a domicilio. In maniera ripensabile, oggi questi costi rientrano anche nelle spese di malattia. Ma l’invecchiamento non è una malattia, l’invecchiamento è il decorso della vita.
A partire da queste riflessioni dobbiamo avere il coraggio di pensare una nuova assicurazione sociale che tenga conto del decorso della vita. L’uscita dal mercato del lavoro dovrà essere considerato il punto di svolta per creare nuovi strumenti che diano le giuste risposte ai bisogni che nascono da quel momento e che trovino i giusti finanziamenti. Smettiamola con i cerotti e troviamo il coraggio di salvaguardare la pace intergenerazionale che è una delle componenti più importanti delle nostre società. Per farlo dobbiamo studiare una nuova assicurazione sociale.

Pubblciato da L’Osservatore, 09.03.2024

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Ticino terra di bassa salari… per sempre?

Intervista pubblicata da Il Federalista, 01.03.2024 e ripresa da Liberatv, che ringraziamo

Manodopera a basso costo, croce e delizia dell’economia ticinese?
“Il fatto di ricorrere a manodopera a basso costo, spesso anche qualificata, è stato da sempre uno dei nostri vantaggi competitivi. Questo ha portato a sviluppare un tessuto di industrie (rispetto per esempio alla Svizzera interna, dove occorreva competere sulla qualità e non tanto sul prezzo) che vengono definite “intensive di lavoro” anziché “intensive di capitale”. È così mancata tutta quella fase di competizione basata sul progresso tecnologico, sull’innovazione. Quindi, il nostro tessuto economico era già piuttosto fragile. Quello che poi è accaduto con gli accordi bilaterali è che non c’è stato più nemmeno un minimo di -se vogliamo- contenimento di un’economia che già andava nella direzione sbagliata. Ecco perché quelli che erano dei vantaggi competitivi che venivano messi a frutto in modo ragionevole sono diventati, purtroppo, la regola del gioco. Per cui ci ritroviamo oggi con un tessuto produttivo che potrebbe essere sicuramente più sano”.

Si riferisce in particolare alle aziende venute da fuori Cantone?
“Mi riferisco a quelle aziende che non sono in grado di versare dei salari per i residenti e che hanno esclusivamente manodopera non residente. Sebbene io non neghi che l’arrivo di alcune aziende che mettono a frutto giustamente i vantaggi competitivi che offre la Svizzera (con l’aggiunta del vantaggio competitivo geografico del Canton Ticino) abbia avuto aspetti positivi. Ma chiediamoci: è sano che siano qui se poi esercitano una pressione al ribasso su tutta l’economia?”.

Non solo sui salari bassi, a suo parere?
“Fino a qualche anno fa la pressione si esercitava sui bassi salari, adesso ormai riguarda i salari medi e medio alti. Questo vuol dire che la concorrenza non è più limitata esclusivamente alle realtà delle professioni per così dire “meno qualificate”, ma si sta portando anche su quelle più qualificate. E il fattore su cui si gioca rimane purtroppo ancora sempre il prezzo, quindi il salario. Sono convinta che i prossimi dati che usciranno lo confermeranno”.

Nella polemica in corso si rileva criticamente che l’afflusso di queste aziende sia in gran parte dovuto alle politiche economiche messe in atto in Ticino a partire dalla metà degli anni 90 e fino ai primi anni 2000, che puntavano su agevolazioni fiscali allo scopo di attirare le imprese, anche estere, sul nostro territorio. Condivide la critica?
“Le politiche economiche che si possono adottare non sono molte. Quindi, puntare il dito su scelte fatte in passato secondo me serve a poco. Quello che rincresce è che non si sia riusciti, una volta entrati in contatto con determinate aziende, a costruire un vero “tessuto industriale” sul territorio. Prendiamo il settore della moda. Anzitutto non si tratta di aziende arrivate qui solo grazie alle agevolazioni cantonali, ma anche grazie al contesto internazionale che inquadrava comunque la Svizzera come un Paese dove risparmiare fiscalmente in maniera assolutamente legale: è questo che ha portato alcuni grandi marchi a trasferirsi da noi. Il problema sta nel fatto che l’immobilismo del Cantone ha fatto sì che non si siano create delle condizioni e coltivate delle relazioni tali da mantenere queste aziende sul territorio anche una volta poi passati i periodi di agevolazioni fiscali che, secondo me, non sono tanto quelle cantonali bensì quelle a livello nazionale”.

Nel Cantone, quelle politiche furono promosse da Marina Masoni, nell’ambito del cosiddetto pacchetto delle “101 misure”. Alcuni dati statistici mostrano, tra il 1996 e il 2008, un costante miglioramento dei parametri economici cantonali, la cui crescita si è progressivamente attenuata in seguito.
“L’economia è fatta di talmente tanti fattori che individuare -togliendo tutto il contesto internazionale- quali siano stati i fattori che hanno portato a quei risultati è davvero molto difficile. Pur non condividendo molte di quelle 101 proposte, da un punto di vista economico, di una politica economica, devo riconoscere che purtroppo quello è stato l’ultimo periodo politico in cui ci sia stata quantomeno una strategia di sviluppo. Quantomeno c’era un’idea di che cosa si voleva fare, di che tipo di economia volevamo avere. Adesso è il vuoto, adesso in quel campo non c’è nulla”.

Accidenti, si tratta di incompetenza, di interessi o di cos’altro?
“Non incompetenza, neppure interessi, che è normale che vi siano, com’è legittimo che una parte della classe politica veda nel libero mercato portato all’estremo la soluzione a tutti i mali. Com’è chiaro che riflettere su quello che sarà il Canton Ticino fra 10 anni probabilmente elettoralmente non paga. Col massimo rispetto… però è chiaro che la politica di sviluppo economico e di sostegno all’economia, o lo stesso tema del lavoro, non siano una priorità di questo Governo, come non mi sembra lo sia stato dei Governi passati. Se non c’è la priorità del lavoro, tutto quello che riguarda l’economia viene meno”.

Lei dice spesso, l’ha detto più volte anche a noi del Federalista, che sarebbe ora, per uscire da questo circolo, di alzare i salari. Sarebbe ora che in Ticino ci fossero finalmente dei salari svizzeri. Ma quante aziende attive sul nostro territorio hanno veramente la possibilità di alzare i salari. E quali dovrebbero chiudere (cancellando posti di lavoro) se si volesse andare in quella direzione?
“Occorre essere anche un po’ coraggiosi. Essere coraggiosi vuol dire riconoscere che probabilmente ci sono delle aziende nel territorio – non abbiamo niente contro queste aziende – che di fatto, da un punto di vista -paradossalmente- dell’economia di mercato, non hanno ragione di stare qui. Cioè se un’azienda non fa utili tali da permetterle di pagare degli stipendi che consentano ai suoi dipendenti di risiedere nel Cantone, evidentemente non farà neppure dei grandi profitti: in termini di imposte lascerà poco o niente, generando però conseguenze negative, a cominciare dalla pressione sui salari, passando per il traffico ecc. Ecco, bisogna mettere sulla bilancia queste cose e avere il coraggio di dire che queste aziende non devono stare nel Canton Ticino. Insomma, se si versano salari italiani è buono e giusto che si operi in Italia”.

Ma come tutto ciò incide sul fatto che sempre più persone in Ticino chiedono aiuti sociali? Lo Stato sostiene i redditi bassi perché questo tipo di economia non riesce a pagare i propri collaboratori che risiedono in loco?
“La domanda è: vogliamo un Cantone-fabbrica? Quello che sta accadendo è che i giovani, quelli che finiscono di studiare qui, se ne vanno. I giovani che hanno studiato all’estero non rientrano. E questo significa che le famiglie le fanno fuori Cantone difficilmente rientreranno in Ticino. Siamo in una situazione nella quale un cinquantenne che perde un posto di lavoro non riesce a trovarlo e tanti iniziano a lavorare, ad esempio, due o tre giorni in Svizzera interna, mentre negli altri due fanno home office. In Ticino abbiamo gli anziani che non riescono più a vivere con la loro pensione, che iniziano a pensare di andarsene dal Ticino. Qui ci rimarranno solamente frontalieri, che vengono al mattino, lavorano e se ne vanno la sera? Il dramma di questo Cantone è questo”.

Cosa pensa dell’adeguamento delle aliquote fiscali per gli alti redditi? Un’inutile “regalo ai ricchi” o un modo sensato per non farli scappare?
“Non ho niente a priori contro la riduzione delle aliquote, quello che ho trovato sbagliato in questa decisione è la tempistica: cioè, in un momento così delicato per il Canton Ticino sono certa che queste persone ad alto reddito erano e sono disposte a veder posticipare questo tipo di misure di qualche anno. Per me il concetto è che lo Stato deve prendere le risorse ai cittadini nella minor misura possibile, ma che sia compatibile con i compiti che i cittadini decidono di fargli svolgere. Come sono disposta a scendere sulle aliquote, se si vogliono più compiti sono anche disposta ad aumentarle. Non ci sono tabù “fiscali”. Secondo me si dovevano mettere in atto tutte le altre tre misure e per quest’ultima attendere, quantomeno, la revisione dei conti dello Stato”.

Ci sarebbero altre “questioncine” in ballo, come quella della perequazione intercantonale o quella del “freno alla spesa”, ma ci fermiamo qui, perché i lettori hanno da leggere il prossimo contributo che offriamo loro quest’oggi, non meno importante a nostro avviso…
” … sulla perequazione (quei 3-400 milioni in più che dovrebbero arrivarci da Berna) mi lasci dire solo che forse non è un tema molto “sexy” da portare in campagna elettorale, perché è un tema tecnico. Ma mi sembra che quantomeno il Governo se ne stia occupando e anche i nostri deputati a Berna qualcosa stiano pensando di fare”.

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«Il Cantone lo ammette: i ticinesi hanno problemi di soldi»

Questa settimana riprendiamo l’intervista fatta qualche settimana fa da Patrick Mancini, che ringraziamo, in merito ai salari e all’occupazione in Ticino. Tema su cui torneremo nei prossimi giorni, visti i dati pubblicati di recente che mostrano un ulteriore peggioramento nella creazione di posti di lavoro. In aggiunta, le notizie delle chiusure di diverse aziende e dei loro licenziamenti, non fanno altro che peggiorare una situazione difficile.

Freno alla spesa in Italia, il Governo tentenna di fronte al sondaggio di Berna. L’economista Amalia Mirante: «Ora alziamo i salari».

BELLINZONA – Freno alla spesa oltre confine. Meglio andarci piano. Ed è meglio che per ora il valore della spesa da dichiarare non venga dimezzato (da 300 a 150 franchi). È in sintesi quanto emerge dalla risposta del Governo ticinese alla consultazione lanciata da Berna ai Cantoni. Il testo lascia perplessa Amalia Mirante, economista ed esponente del movimento Avanti con Ticino&Lavoro.

Il Governo ticinese temporeggia sulla proposta del Consiglio federale. Preoccupante?
«Io sono una grande sostenitrice del commercio locale. Va sostenuto in tutti i modi. Ma anche io sono contraria all’abbassamento della franchigia per chi fa la spesa in Italia. Principalmente perché ci sono famiglie ticinesi che purtroppo hanno davvero bisogno di fare la spesa oltre confine. È questo che mi preoccupa».

Il Governo nella sua lettera parla di un momento storico delicato. 
«Finalmente anche il Governo ammette che in Ticino ci sono problemi di reddito e di potere d’acquisto. E questi si sono ulteriormente aggravati negli ultimi anni».

Questa ammissione che valore ha?
«Dopo questa ammissione dovrà seguire per forza qualcosa di concreto. La popolazione è preoccupata e ha bisogno di segnali chiari e forti e di misure concrete da parte delle autorità. Le difficoltà sono note: redditi troppo bassi, mercato del lavoro sofferente, concorrenza fortissima generata dal frontalierato, giovani che non tornano dopo gli studi, persone che partono per sempre. La scelta volontaria di andare via è legittima. Diventa un problema quando non è più una scelta libera».

Domanda provocatoria: il Ticino a lungo andare rischia di diventare un posto in cui si nasce per poi partire? 
«La tendenza se non interveniamo è quella. Siamo confrontati con tantissimi giovani che se ne vanno e fanno famiglia altrove. Con decine di migliaia di frontalieri. Con anziani in pensione che fanno sempre più fatica e che iniziano a pensare di trasferirsi all’estero per vivere con un po’ più di tranquillità finanziaria».

Perché i politici non prendono misure concrete? 
«Purtroppo finora il lavoro non è stato la priorità del nostro Governo. Si accampano mille scuse per evitare di parlarne concretamente. Sappiamo tutti di non avere salari attrattivi. O di avere uffici regionali di collocamento da riformare. Vogliamo parlare della necessità di qualificare il personale residente con una vera politica di formazione continua? E gli apprendisti? Stato e aziende non sono sufficientemente in contatto. Eppure il Ticino è pieno di aziende brillanti che potrebbero emergere».

Riformuliamo la domanda: perché non si muovono le acque?
«In Parlamento si perde un sacco di tempo. I tempi di discussione sono troppo lunghi. Si passano giornate intere solo ad ascoltare le posizioni di vari partiti. Non c’è concretezza. E intanto poi salta fuori che il preventivo del Cantone è disastroso».

Torniamo ai commerci locali. Enzo Lucibello, presidente della DISTI, ha definito “uno schiaffo” la lettera del Governo.
«Lo ripeto: i commerci locali vanno sostenuti a spada tratta. Ma bisogna agire a vari livelli. Non creando inutili paletti a chi già sta male. I ticinesi devono avere salari dignitosi per potere spendere sul proprio territorio. Quello dei salari non è più un tema da posticipare». 

Intevista di Patrick Mancini – pubblicata su TIO 17.02.2024

https://www.tio.ch/ticino/attualita/1733100/spesa-governo-ticinesi-salari-cantone-italia-problemi-ammette

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Ci sono i disoccupati in Ticino? Sì, no, forse…

Ancora una volta i dati sulla disoccupazione in Ticino litigano. E lo fanno anche in maniera plateale. Il tasso di disoccupazione del quarto trimestre del 2023 in Ticino calcolato secondo il metodo dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) è stato di ben il 6.2%. Stabile rispetto ai tre mesi precedenti, ma in aumento rispetto allo stesso periodo dell’anno 2022, in cui il tasso era del 5.6%. In termini numerici si parla di quasi 11.000 persone alla ricerca di un posto di lavoro.

I dati invece pubblicati mensilmente dalla Segreteria di Stato dell’economia (SECO) indicavano per lo stesso periodo dell’anno, ossia settembre-dicembre 2023, una media sul trimestre del 2.4% e di circa 4’400 persone.

Insomma, tra i due dati ancora una volta c’è una differenza di ben 2.5 volte. Ma chi ha ragione? Quanti sono davvero i disoccupati in cerca di lavoro in Ticino? Se ci basassimo sulle nostre sensazioni e sul nostro vissuto quotidiano non avremo alcun dubbio nel dire che il dato che maggiormente si avvicina alla realtà è quello calcolato secondo il metodo dell’ILO; anzi, forse anche questo risulta sottostimato. Alla stessa considerazione arriviamo se riflettiamo in termini più scientifici. Vediamo perché.

Il tasso di disoccupazione calcolato dalla SECO è corretto nel senso che conta tutte le persone iscritte presso gli uffici regionali di collocamento (URC) e poi le rapporta alla popolazione attiva. Un metodo decisamente corretto che dà un risultato altrettanto veritiero. Peccato che questo indicatore si riferisca esclusivamente alle persone disoccupate e contemporaneamente iscritte presso gli URC. Nella realtà noi sappiamo che tendenzialmente si iscrivono agli URC solamente le persone che hanno diritto all’indennità di disoccupazione. Anche perché sappiamo che purtroppo questi uffici non sono di grande aiuto nella ricerca effettiva di lavoro. Nella realtà tuttavia, ci sono tantissime persone disoccupate e in cerca di un lavoro che però non sono iscritte in questi uffici. Pensiamo a coloro che hanno finito il diritto alle indennità, agli studenti che hanno appena concluso la loro formazione, alle persone scoraggiate e in generale a tutti coloro che non hanno diritto al versamento dell’indennità.

Per compensare le lacune di questo indicatore, la statistica ha creato uno strumento che potesse quantificare meglio il fenomeno. In effetti, il tasso di disoccupazione calcolato secondo il metodo dell’ILO, si basa non sul conteggio effettivo ma su una stima dei disoccupati che viene fatta attraverso sondaggi telefonici.

È evidente che questo secondo metodo si avvicina meglio al concetto comune di disoccupati. A questo punto ci chiediamo perché non cercare di risolvere questa confusione di pensiero semplicemente specificando meglio che il tasso di disoccupazione calcolato dalla SECO in realtà non rappresenta tanto questo fenomeno quanto esclusivamente i beneficiari dell’indennità. Non sarebbe quindi più corretto semplicemente cambiargli nome, anziché andare avanti a generare un’immagine falsata dello stato di salute del nostro mercato del lavoro?

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Prezzi che salgono e prezzi che scendono…

L’inflazione rallenta anche in Svizzera. A confermarlo sono i dati del mese di gennaio appena pubblicati dall’ufficio federale di statistica. Rispetto al mese precedente i prezzi sono cresciuti dello 0.2% mentre rispetto al mese di gennaio dell’anno scorso l’aumento è stato dell’1.3%. A segnare i principali cambiamenti vediamo alcune voci che potrebbero incuriosirci. Ad esempio, notiamo una riduzione di ben il 7.8% del prezzo degli indumenti e delle calzature. Le signore che ci leggono avranno subito capito a che cosa è dovuta questa diminuzione… Ma naturalmente ai saldi di stagione! Come ogni volta anche in questo caso gli indicatori economici dimostrano quanto siano fortemente collegati alla realtà di tutti giorni.

Al contrario purtroppo non è tardato un aumento che era già stato annunciato, ossia quello dell’elettricità che nell’ultimo mese ha mostrato un aumento sia su base mensile che su base annuale di quasi il 18%. Altra voce che non poteva mancare era quella delle assicurazioni dei veicoli che vedono un aumento di quasi il 5%. Gli aumenti che toccano anche il settore della ristorazione.

Ma quello che ci appare ancora più interessante dei dati del singolo mese, è la nuova composizione dell’indice dei prezzi al consumo. Sappiamo che in Svizzera la revisione totale del carrello della spesa del consumatore medio avviene ogni 10 anni. Detto questo dei piccoli correttivi vengono fatti di anno in anno. Come sempre non ci sono modifiche sostanziali da un anno all’altro, anche perché sappiamo che c’è una certa stabilità nei consumi delle famiglie e anche un certo ritardo nell’adeguarli anche a variazioni importanti di reddito. Perché muti radicalmente il carrello della spesa devono avvenire dei fatti di portata epocale come per esempio una guerra o di recente la pandemia. Fortunatamente l’anno scorso è stato un anno relativamente tranquillo per cui non ci sono state importanti modifiche. La spesa relativa all’abitazione e all’energia rimane quella più importante e assorbe circa il 25% del budget, seguono la salute con il 15% (ricordiamo che qui non rientra il premio dell’assicurazione malattia) e i trasporti con circa l’11.5%. Questa voce ha registrato una piccola variazione al ribasso di mezzo punto percentuale. Chi invece ha guadagnato importanza nella nostra spesa mensile è la voce legata ai ristoranti e al settore alberghiero che è salita dal 9.3% al 10% del nostro budget mensile. Percentuale questa che è anche quella che destiniamo all’acquisto dei generi alimentari e che rimane stabile. Per il resto non ci sono altri grandi cambiamenti.

Detto questo sappiamo che l’indice dei prezzi al consumo non è l’unico indicatore che ci dà informazioni sull’andamento dei prezzi, anzi. Forse ancora più importante è l’indice dei prezzi alla produzione e all’importazione che anticipa ciò che capiterà al prezzo dei beni quando arriveranno allo scaffale. In questo caso segnaliamo che l’indice dei prezzi alla produzione è rimasto pressoché stabile sia su base mensile che su base annuale mentre l’indice dei prezzi all’importazione si è ridotto in maniera importante segnando -1.6% su base mensile e ben -6.5% su base annuale. Questa importante differenza è riconducibile alla riduzione notevole del prezzo dei prodotti petroliferi e del gas che ricordiamo l’anno scorso di questi periodi raggiungevano livelli storicamente elevatissimi.

Cosa ci attendiamo quindi per il futuro? Teniamo le dita incrociate e speriamo che la corsa dell’inflazione sia effettivamente terminata.

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Svizzera: le macchine non ci ruberanno il lavoro

Per fortuna i robot e i macchinari in generale non ci ruberanno il lavoro. A confermarlo è l’ufficio federale di statistica attraverso una rilevazione di dati che potremmo definire indiretta. Vediamo perché.

Già nel 1800 circa Adam Smith aveva individuato nella separazione del lavoro in tante piccole fasi di produzione distinte un importante vantaggio. Se l’operaio doveva dedicarsi a un’unica fase della lavorazione di un prodotto, la produttività dello stesso sarebbe aumentata e di conseguenza la produzione. Le ragioni che individuava Smith erano tre. La prima è che la persona che si dedica sempre alla stessa attività, diventa più abile e quindi produce una quantità maggiore di beni. La seconda è che rimanendo fermi a fare sempre la stessa attività, non si perde tempo per cambiare postazione e quindi si riuscirà a produrre di più. Infine la terza ragione è quella che riallacciamo al concetto di automazione. Dal momento che l’individuo fa un’azione limitata e ripetitiva è molto probabile che nel tempo si svilupperà un macchinario che potrà sostituire questa attività consentendo quindi ancora una volta di aumentare la produzione. Naturalmente, Smith che era un grande economista aveva individuato anche i grossi rischi per le persone legati alla divisione del lavoro e che emergeranno in maniera forte con l’implementazione delle famose catene di montaggio di Ford.

Ma torniamo alle nostre statistiche. Diamo subito una bella notizia: in Svizzera il rischio di essere sostituiti nel proprio lavoro da una macchina è tendenzialmente più basso che nel resto d’Europa. La stima avviene misurando diverse caratteristiche del mondo del lavoro. Ad esempio misuriamo l’uso degli strumenti informatici, la quantità di tempo dedicata a svolgere i compiti intellettuali e i compiti manuali e valutiamo questi compiti in funzione della ripetitività e dell’autonomia. Ripetitività delle attività e mancanza di autonomia sono gli stessi concetti che avevano portato Adam Smith a sostenere la creazione di macchinari per svolgere questi lavori.

Dai dati pubblicati scopriamo che in Svizzera più di un terzo delle persone lavora sempre utilizzando strumenti informatici, mentre solo il 13% non li utilizza mai. I settori economici in cui l’uso dell’informatica è maggiore sono quello dell’informazione e della comunicazione, delle attività finanziarie e assicurative come anche quello delle attività tecniche scientifiche e l’amministrazione pubblica.

In maniera analoga scopriamo che metà della popolazione occupata dedica una parte delle sue ore lavorative a compiti intellettuali come la lettura dei documenti tecnici o calcoli complicati.

Ma forse i dati più interessanti riguardano il fatto che meno del 5% delle persone occupate ritiene la sua attività professionale come molto ripetitiva. In questo caso emerge un evidente legame con il grado di formazione: in effetti la percentuale più bassa, 2.3%, è quella registrata tra le persone che hanno una formazione terziaria.

Se a tutti questi dati aggiungiamo che meno di una persona su 10 dichiara di avere poca autonomia nel suo lavoro, ecco che il quadro ci appare delineato.

La percentuale di persone che ha un lavoro altamente ripetitivo e un basso livello di autonomia, ossia proprio quelle professioni che più facilmente possono essere sostituite da un macchinario, è molto bassa ed è dell’1%. Al primo posto della classifica troviamo il Lussemburgo con lo 0.9%, mentre all’ultimo la Slovacchia con l’11.4%.

Questo dato non ci mette al riparo da tutti i problemi del mercato del lavoro, ma quantomeno indica che il rischio di automazione nel nostro paese è molto basso. Ciò che dovrebbe rincuorarci quindi è che la nostra economia fortunatamente presenta una piccola parte di lavori ritenuti ripetitivi, poco autonomi e, aggiungiamo noi, probabilmente logoranti.

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Non è ancor tempo di andar per mare

Dopo la decisione di qualche giorno fa della Banca centrale europea (BCE) di mantenere i tassi di interesse di riferimento inalterati, questa settimana è stato il turno della Federal Reserve (FED) e della Banca d’Inghilterra (BoE). Anche loro hanno confermato che per il momento non prevedono delle riduzioni. Così i tassi europei rimangono tra il 4-4.75%, quelli americani tra il 5.25-5.5% percento e quelli inglesi al 5.25%.
Se è vero che le decisioni delle più importanti banche centrali vanno nella stessa direzione, non possiamo dire la stessa cosa per quanto riguarda l’andamento dell’economia reale. Sicuramente ad accomunare le economie più sviluppate c’è il rallentamento dell’inflazione che dimostrerebbe la validità delle scelte fatte in ambito di politica monetaria restrittiva.
Sono altri i dati che tendono a mostrare che queste tre economie stanno vivendo momenti differenti. Per quanto riguarda gli Stati Uniti i dati della crescita del prodotto interno lordo (PIL) confermano che il 2023 è stato un anno ancora estremamente positivo segnando un aumento del 3.1% . A questo dato si aggiunge quello favorevole di un mercato del lavoro in crescita, come pure dei suoi salari e di una fiducia dei consumatori e delle imprese che sembra migliorare. Lo stesso purtroppo non può essere detto nel caso dell’Unione Europea e dell’Eurozona. Il PIL negli ultimi tre mesi dell’anno è risultato stabile, mentre il dato annuale indica una crescita di solo lo 0.1%. Se è vero che il tasso di disoccupazione è rimasto pressoché stabile, non sono arrivate ottime notizie sul fronte della creazione di nuovi impieghi e neppure su quello della fiducia per i prossimi mesi. A preoccupare ancora di più è la situazione della Germania che per decenni è stata la locomotiva d’Europa e ora arranca. Anche se a dire il vero, l’economia tedesca non si è più ripresa dalla pandemia; a quelle difficoltà si sono poi aggiunte quelle legate alla guerra in Ucraina e in particolare alle sanzioni contro la Russia che hanno impedito alla Germania di importare il gas, tra le principali fonti energetiche del Paese. Ma non solo i fattori esterni hanno giocato un ruolo negativo. Anche le difficoltà politiche di una maggioranza di governo poco incisiva hanno portato il Paese a non saper sfruttare il vantaggio competitivo che aveva nella diffusione di fonti energetiche rinnovabili e a creare importanti conflitti nella società. E gli scioperi legati all’agricoltura di questi giorni ne sono solo l’ultima manifestazione.
Anche se questi non hanno ancora varcato la Manica, le cose non sembrano andare molto bene nemmeno in Gran Bretagna. Gli ultimi dati pubblicati confermano una situazione economica in stallo con previsioni per il futuro non troppo rosee.
Concludendo, possiamo dire che anche se la tempesta sembra passata, se possibile meglio aspettare per uscire in mare.
Pubblicato da L’Osservatore, 03.02.2024

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L’inflazione sta passando, ma le cose non vanno benissimo

Le cose sul fronte dei prezzi sembrano andare bene. E questo nonostante il leggero aumento generalizzato dell’inflazione durante il mese di dicembre. Nell’Eurozona i prezzi sono aumentati del 2.9% rispetto a un anno prima quando a loro volta avevano registrato un incremento di ben il 9.2%. Vediamo subito come la corsa dell’inflazione si sia effettivamente ridotta. Scopriamo anche che rispetto ai mesi precedenti di novembre e ottobre quando i prezzi avevano mostrato una decrescita (rispettivamente di -0.5% e -0.2%), Natale ha portato con sé un leggero aumento (+0.2%). Niente di allarmante anche se purtroppo dobbiamo constatare che ancora una volta è stata la voce del cibo, bevande alcoliche e tabacchi a mostrare l’incremento più grande (+6.1%). In generale le nazioni europee hanno mostrato questo andamento, con l’Italia che ha chiuso l’anno con un’inflazione media di +5.7%. Questo dato appare decisamente più elevato di quello svizzero che ha segnato un rincaro annuo medio del 2.1%, in discesa rispetto al +2.8% del 2022, ma molto più alto dello 0.6% del 2021. Sappiamo che in questo caso la composizione dell’indice dei prezzi al consumo e il franco forte spiegano queste importanti differenze tra la Svizzera e le nazioni europee.

Visti i dati sui prezzi, si giustifica la decisione della Banca centrale europea (BCE) di qualche giorno fa di mantenere i tre tassi di interesse di riferimento inalterati (dal 4% al 4.75%). Qualche analista molto ottimista si aspettava una riduzione che tuttavia non dovrebbe avvenire a breve date le dichiarazioni fatte dalla Presidente Christine Lagarde. In effetti, lei stessa ha voluto mettere l’accento sul fatto che i tassi rimarranno tali “per tutta la durata necessaria”. E  non sembra che il famoso 2% di limite soglia per dichiarare la stabilità dei prezzi sarà raggiunto a breve.

Discorso diverso invece potrebbe farlo la Federal Reserve (FED) che si riunirà per decidere il 30-31 gennaio. In questo caso, forse anche a causa del clima che diventa sempre più sensibile alle elezioni presidenziali, potremmo aspettarci delle sorprese. La Banca d’Inghilterra invece nella sua riunione del 3 febbraio, tranne dati favorevolmente positivi dell’ultima ora, dovrebbe mantenere i tassi stabili. E noi? E noi non ci preoccuperemo fino al 21 marzo quando è prevista la riunione della Banca Nazionale Svizzera.

E allora tutto bene? Beh, non proprio. La Germania proprio in questi giorni ha confermato che il suo prodotto interno lordo (PIL) nel 2023 si è ridotto dello -0.3%, manifestando difficoltà generali nell’industria manifatturiera ma anche in quella chimica. In aggiunta gli scioperi e le proteste non sembrano dare pace a questa nazione che non ha ancora ripreso la sua crescita dalla fine della pandemia. Ma nemmeno il resto d’Europa può stare tanto tranquillo perché le proteste del mondo agricolo, confrontato con nuove regole e limitazioni per ridurre l’impatto sul clima delle loro attività, si stanno diffondendo in molte nazioni. L’agricoltura non è contraria alla transizione ecologica, ma chiede aiuto, sostegno e soprattutto fondi per realizzarla. Richieste che al momento paiono cadere nel vuoto a Bruxelles.

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Previsioni a tinte fosche per l’economia elvetica

L’inflazione rallenta. I prezzi al consumo sia negli Stati Uniti che nelle principali nazioni europee stanno riducendo fortemente la loro corsa. Lo stesso accade anche per i prezzi alla produzione, che lo ricordiamo sono i prezzi dei beni nel momento in cui i prodotti escono dalla “fabbrica”.

Nel dettaglio possiamo segnalare la riduzione dei prezzi al consumo su base mensile nel mese di novembre in Spagna, Francia, Italia, Germania e nella Eurozona in generale. Anche gli aumenti su base annuale sono stati piuttosto contenuti e in alcuni casi persino inferiori ai due punti percentuali ritenuti quale soglia per parlare di stabilità dei prezzi. È questo il caso per esempio dell’Italia. Giova ricordare, tuttavia, che parte di questo effetto positivo è da ricondurre al fatto che proprio nei mesi di ottobre-dicembre dell’anno scorso avevamo vissuto l’impennata dei costi dei prezzi energetici (che nel frattempo fortunatamente si sono ridotti). Per questa ragione dobbiamo attendere ancora qualche mese prima di poter cantare vittoria nella lotta all’inflazione.

Anche il dato svizzero ci ha sorpresi positivamente: l’inflazione nel mese di novembre ha registrato un aumento annuo di “solo” l’1.4%; rispetto al mese precedente addirittura si registra una riduzione dello 0.2%. Ma le notizie buone finiscono qui. I dati appena pubblicati sull’andamento del terzo trimestre (luglio-settembre) del prodotto interno lordo (PIL) mostrano una crescita piuttosto contenuta (+0.3%), dopo che il trimestre precedente si era chiuso addirittura con una crescita negativa del -0.1%. Le voci che più preoccupano sono quelle che influenzeranno anche l’andamento dei prossimi mesi. In particolare, i consumi delle famiglie, gli investimenti in beni strumentali delle aziende oltre alle previsioni non troppo favorevoli delle esportazioni. È evidente che la situazione Svizzera è fortemente influenzata da quella internazionale. Il PIL dei nostri principali partner ha mostrato o una minima crescita, come nel caso dell’Italia (+0.1%) o addirittura una riduzione come nel caso della Francia e della Germania (-0.1%).

Non siamo ancora in grado di dire se questo rallentamento economico è la conseguenza delle politiche monetarie restrittive attuate per contrastare l’inflazione. Quello che è certo è che i conflitti ancora aperti in Ucraina e in Medio Oriente, uniti alle incertezze geopolitiche ed economiche, non sono di buon auspicio per il prossimo futuro. Non a caso le previsioni che gli istituti di ricerca stanno elaborando in queste settimane confermano per l’anno prossimo un tasso di crescita del PIL svizzero piuttosto contenuto che dovrebbe, purtroppo, causare anche degli effetti negativi, seppur fortunatamente contenuti, sul mercato del lavoro.

Speriamo che il Natale ci porti in dono prospettive migliori.

Articolo pubblicato da L’Osservatore, 9.12.2023

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La Svizzera si oppone alla violenza di genere

Una mattanza senza senso e senza pietà, che vede le donne protagoniste della cronaca di tutti i giorni. Il femminicidio è un dramma sociale che ormai va in scena quotidianamente. Una violenza patriarcale radicata anche nelle nuove generazioni, trasversale dal punto di vista geografico, che va al di là dei ceti sociali. Un analfabetismo diffuso riguardo l’affettività e le relazioni. La donna vista come oggetto d’amore, come se non avesse una propria volontà e l’uomo che non riesce a gestire l’abbandono e ha difficoltà ad accettare la libertà e l’autonomia della donna.
In Svizzera le aggressioni contro le donne stanno raggiungendo livelli preoccupanti. I dati recenti dell’Ufficio Federale di Statistica della Confederazione rivelano un aumento del 3.3% nel numero di reati registrati nel 2022 rispetto all’anno precedente. Questa tendenza all’incremento crea allarme.
Nel corso del 2022, sono stati registrati ben 19’978 reati di violenza domestica, di cui il 70.2% delle vittime sono donne. Reati che variano: dalle vie di fatto alle minacce, dalle ingiurie alle lesioni semplici.
Un aspetto particolarmente allarmante è il numero di omicidi consumati all’interno delle dinamiche domestiche, che costituiscono il 59.5% di tutti gli omicidi registrati in Svizzera. Nel 2022, 16 omicidi sono stati commessi da attuali o ex partner, uccidendo 15 donne e un uomo. Questi dati mettono in luce la necessità di misure preventive più efficaci per proteggere le vittime e prevenire tragedie.
Non possiamo tralasciare che oltre l’impatto emotivo e fisico sulla vita delle vittime, la violenza domestica abbia anche un impatto economico significativo sulla società. I numeri sono rivelatori e concreti, possono finalmente alzare un muro contro chi nega che il femminicidio sia un problema strutturale e non un’emergenza stagionale da contenere applicando pannicelli caldi.
Amalia Mirante, Economista, docente della SUPSI (Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana), leader fondatrice del nuovo movimento politico ticinese, “Avanti”, è un’esperta di tematiche di genere:
“oggi il femminicidio, la violenza di genere è strutturale e quindi l’unico intervento che possiamo pensare è quello della prevenzione. La prevenzione deve passare attraverso l’educazione; un percorso educativo che deve necessariamente riguardare tutti e in particolare gli uomini, perché il femminicidio non è una questione di donne, è una questione di uomini. Sì, quindi, a processi di educazione che devono però partire necessariamente dalla famiglia e proseguire nella scuola. Occorre travalicare i confini, per poi arrivare a parlare di formazione anche per gli operatori socio sanitari, per le forze dell’ordine, fino agli avvocati e alla magistratura. Dobbiamo destrutturare la violenza di genere e intervenire a tutti i livelli della società. Occorre avviare una serie di iniziative legate al tema dell’educazione sentimentale, affettiva, ma anche all’educazione finanziaria per giovani donne e giovani uomini”.
Il suo movimento politico esiste da poco meno di un anno e ha superato già due prove elettorali difficili, ottenendo risultati ragguardevoli. Affermate di essere distanti dal modus operandi messo in atto dai partiti tradizionali. Su questo tema qual è la vostra visione?
Le istituzioni possono adottare molteplici strategie per prevenire la violenza sulle donne e ridurne il costo sociale ed economico. Innanzitutto, possono implementare programmi educativi e di prevenzione nelle scuole e nelle comunità per promuovere la parità di genere e il rispetto reciproco. Inoltre, è fondamentale garantire supporto e protezione alle vittime, attraverso servizi di assistenza legale, psicologica e luoghi protetti. Le leggi devono essere severissime e le loro applicazioni efficaci, con un sistema giudiziario che punisca i trasgressori e protegga le vittime. Infine, campagne di sensibilizzazione pubblica possono aiutare a cambiare le norme sociali e a ridurre la stigmatizzazione delle vittime.
Il silenzio e la mancanza di denuncia influiscono sulle spese pubbliche e sulla società nel suo complesso. Qual è l’impatto economico del femminicidio in Svizzera?
Non ci sono stime recenti in Svizzera sull’impatto economico del femminicidio e della violenza di coppia in generale. Uno degli ultimi studi in questa direzione è stato fatto su mandato dell’Ufficio federale per l’uguaglianza fra uomo e donna nel 2013. In questo caso l’analisi dichiarava che le cifre esposte erano sicuramente sottostimate quantificando le spese effettive e le perdite di produttività (costi tangibili) in una cifra tra i 164 e i 287 milioni di franchi per anno. Lo stesso studio indicava che questo importo era paragonabile alle spese pubbliche che sosteneva una città di media entità in un anno. In aggiunta, si parlava di un costo di altri 2 miliardi di franchi di costi non tangibili che quantificavano la perdita di qualità della vita a causa della sofferenza e del dolore e la paura di incorrere ancora in una situazione violenta.
Il fatto che non vi siano dati recenti deve far pensare ad un mero disinteresse da parte delle Istituzioni?
Non ritengo che il problema sia l’assenza di studi, quanto piuttosto la mancanza di misure concrete e l’attribuzione di risorse ai compiti che dovrebbero essere svolti per dare risposta a questo tipo specifico di violenza. Quindi rinunciamo pure alla raccolta di dati specifici, ma non rinunciamo all’implementazione di misure concrete e al loro finanziamento.
Lei che è un’economista può spiegarci in che modo la violenza sulle donne influisce sui settori economici, come la sanità, la giustizia e il lavoro?
Tendenzialmente si suddividono i costi in tangibili e non tangibili. Potremmo anche pensarli come costi direttamente sostenuti nel primo caso e costi indirettamente pagati nel secondo (questi ultimi più difficilmente stimabili). Tra i costi tangibili possiamo annoverare quelli legati alle attività della polizia e della giustizia, alla perdita di produttività sul lavoro (a causa evidentemente delle conseguenze della violenza) e quelli legati ai servizi di supporto come le spese sanitarie, quelle di accompagnamento alle vittime e ai minori o ancora quelle di sostegno psicologico. Nello specifico, nel settore sanitario possiamo includere i costi per le cure mediche e psicologiche, in quello della giustizia i costi legati alle indagini, ai processi e ai sistemi di tutela delle vittime, mentre in quello lavorativo ci può essere l’assenteismo, la perdita di produttività e anche quella del lavoro. Non dimentichiamo tuttavia che questi costi direttamente quantificabili sono probabilmente una piccolissima parte dei “costi” non tangibili che le vittime e le persone a loro vicine sopportano per tutto il resto della vita in caso di violenza. Detto altrimenti, la violenza sulle donne va fermata, ma non per ragioni economiche.
Articolo di Laura Incandela per FemeNews, 19.11.2023

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‘Il Ticino sempre più un’economia sussidiata dallo Stato’

Intervista di Simonetta Caratti pubblicata su La Regione 24.11.2023

Tutto aumenta: affitto, elettricità, casse malati, Iva, beni di prima necessità. Rincari che scavano un divario ancora più grande col resto del Paese

Al peggio non sembra esserci fine. Sapevamo che lo stesso impiego in Ticino è pagato meno (anche del 30%) rispetto a Berna, Zurigo, Losanna, Ginevra… ma che il rischio di povertà fosse addirittura quasi il doppio nella Svizzera italiana (attorno al 24%) rispetto alla media nazionale (15%) la dice lunga sull’abisso che si sta scavando tra noi e gli altri cantoni. A sud delle Alpi ogni aumento di spesa pesa sul bilancio familiare come un macigno. Sempre più residenti per sopravvivere vanno ad allungare la fila da Caritas, Croce Rossa, Soccorso d’inverno, Tavolino Magico, alle mense sociali e altri enti caritatevoli.

Tutto costa di più, sempre di più e le entrate sono ferme al palo. Il rincaro dei generi di consumo e dell’Iva, l’aumento delle pigioni e dei premi di cassa malati stanno togliendo il sonno a tanti ticinesi. Non si vede mai la fine. Da noi, quasi un anziano su tre è povero: una fetta di precarietà cinque volte superiore rispetto a quella di Basilea Città e tre volte superiore rispetto a quella di Zurigo (secondo uno studio di Pro Senectute). Eppure la Costituzione federale stabilisce che la pensione dovrebbe coprire adeguatamente i bisogni fondamentali. Beh, per troppi non è così. E c’è qualche pensionato forzato a emigrare dopo una lunga e onesta vita lavorativa. Assai indigesta l’ultima trovata del Consiglio federale, che intende ridurre il limite di esenzione dall’imposta sul valore aggiunto per le merci acquistate oltre confine. Per semplificare: chi fa la spesa oggi in Italia per un importo massimo di 300 franchi non deve pagare nessuna imposta sull’importazione (oggi del 7,7%, dal 1° gennaio dell’8,1%) e quando rientra in Svizzera può anche farsi rimborsare l’IVA italiana. Un domani, il tetto potrebbe essere abbassato a 150 franchi, rendendo di fatto meno vantaggioso lo shopping transfrontaliero. “Significa infierire ulteriormente su un cantone già in emergenza sociale. Il Ticino cammina verso un’economia sussidiata dallo Stato. È come se avessimo due Svizzere: una viaggia a forte velocità e genera benessere e poi c’è il Ticino che, pur stando nella stessa nazione, ha una velocità di crociera molto più lenta per la sua situazione storica, geografica di frontiera”, precisa l’economista Amalia Mirante docente a Supsi e Usi. Vediamo perché.

Tutto aumenta: affitti, Iva, elettricità, premi di cassa malati… fino a quando ce la faranno i ticinesi?

Purtroppo sembra realizzarsi la tempesta perfetta. Le persone non possono rinunciare a una serie di beni basilari, come ad esempio l’affitto: cambiare appartamento non serve perché il mercato immobiliare resta quello. Stesso discorso per la bolletta dell’elettricità: si può risparmiare ma fino a un certo punto, chi vive in un palazzo può fare ben poco.

Anche fare la spesa alimentare costa di più… e ora Berna vorrebbe pure abbassare da 300 a 150 franchi la franchigia per chi fa gli acquisti oltre confine. Che ne pensa?

Ridurre la franchigia a 150 franchi per la spesa in Italia significa infierire su chi vive in Ticino e ha tutto il diritto di far quadrare meglio il bilancio familiare, facendo la spesa in Italia. La gente non può smettere di mangiare, possiamo solo sperare che freni l’aumento dei prezzi. A subire il contraccolpo maggiore sono il ceto medio e quello basso.

A pesare maggiormente è il continuo aumento del premio di cassa malati?

Dobbiamo pagarlo, non si scappa e i continui aumenti stanno fragilizzando drammaticamente diverse fasce di popolazione. Molti anziani sono forzati a trasferirsi all’estero. C’è chi ha lavorato onestamente tutta una vita in Ticino, ma avendo percepito salari medio bassi, può accedere solo al minimo del sistema pensionistico. Senza risparmi non ce la fa. Non volendo pesare sui figli, c’è chi deve emigrare. È davvero una situazione drammatica. Dobbiamo pensare a nuovi modelli di assicurazioni sociali che insieme all’Avs introducono meccanismi di compensazione soprattutto a beneficio degli anziani. Nel 1948 l’Avs era la scelta giusta per quella società, oggi dobbiamo pensare nuovi sistemi. Non ne usciamo scaricando l’aumento dei premi sulle persone. In troppi non riescono più a pagare.

Il resto della Svizzera sembra sopportare meglio questi continui aumenti: ci vorrà tempo prima che qualcosa cambi?

Nel resto della Svizzera c’è poca conoscenza della accentuata fragilità economica del Ticino, dove un aumento del 10% dei premi cassa malati può far scoppiare un’emergenza sociale. Dove è il confine, per dire basta? Dobbiamo arrivare a 200mila persone che non riescono a pagare i premi di cassa malati? Toccherebbe alla Confederazione calmierare i premi per tutti.

Tutto costa di più e i salari non stanno al passo, fino a quando ancora si può tirare la corda in Ticino?

In Ticino il rischio di povertà e di disagio è molto più grande rispetto ad altri cantoni. Senza ombra di dubbio, perché da noi i salari sono più bassi. Le categorie più a rischio sono le famiglie monoparentali, i pensionati, le persone straniere, anche il livello di formazione gioca un ruolo importante. Ma la prima causa di questa differenza rimane il salario che oscilla tra il 16-20% in meno rispetto a quello medio nazionale. Si arriva anche a punte del 30% in meno rispetto al salario medio di Zurigo. È come se avessimo due Svizzere: una viaggia a forte velocità, quindi sa generare benessere (produzione, invenzione, ricerca e sviluppo) e un Ticino che, pur avendo la fortuna di essere nella stessa nazione, ha una velocità di crociera molto più lenta per la sua situazione storica, geografica di frontiera.

È pur vero che il Canton Ticino eroga molti aiuti sociali…

Fortunatamente lo Stato sociale è molto buono (anche se perfettibile) in Ticino. Analizzando quanto lo Stato deve investire per sostenere i suoi cittadini, emerge una grande differenza rispetto ad altri cantoni, dove invece i cittadini riescono a vivere dignitosamente col loro stipendio. Il Ticino cammina verso un’economia sussidiata dallo Stato. Politicamente dovremmo accettare questo fatto e trovare soluzioni.

Ci sono altri cantoni, di frontiera, messi male come il Ticino?

Misurando il differenziale dei salari tra frontalieri e residenti, si osserva che la situazione del Ticino è unica. A Sud delle Alpi, la paga dei frontalieri è in media del 20% più bassa rispetto ai residenti, esercitando una pressione al ribasso sui salari. Altri cantoni proteggono meglio il loro mercato del lavoro, spesso il salario mediano dei frontalieri è addirittura più alto di quello dei residenti. Questo significa che si sta attingendo a lavoratori molto qualificati e ben retribuiti. Di conseguenza c’è una pressione al rialzo sui salari.

In Ticino è esattamente il contrario. Oltre ad avere i salari più bassi della Svizzera, abbiamo anche una concorrenza al ribasso da parte dei frontalieri. Questo ci dicono i dati. In più, ora l’Italia sta correndo al riparo per frenare l’emorragia di lavoratori verso il Ticino.

È anche una questione di numeri… viste le differenze salariali, parecchi laureati lasciano il Ticino a caccia di migliori possibilità nel resto della Svizzera. Una tendenza da invertire?

Il Ticino non fa nulla per tenersi i giovani residenti qualificati o anche gli over 50 con competenze eccellenti. Ci lamentiamo ad esempio che mancano i medici ma non mettiamo in discussione il numero chiuso. Gli studenti di medicina costano, conviene “comprarli” all’estero. Ma gli altri non stanno a guardare. La Germania vuole introdurre una tassa sui medici formati da loro e rubati dalla Svizzera.

In più, ci sono anche i ventilati tagli governativi per risanare le finanze pubbliche…

Non c’è dubbio che le finanze pubbliche debbano essere in ordine. Il Governo ha fatto un’analisi contabile dei 4,2 miliardi di spesa. Quello che ci aspettiamo dall’Esecutivo è invece un’analisi a 360 gradi di ogni franco investito, in modo da scovare i doppioni, le spese inefficaci. I risparmi vanno fatti dove è possibile farli. Non si risparmia linearmente su chi è in uno stato di bisogno. Lo stesso vale per dipendenti pubblici a cui il Governo chiede un contributo di solidarietà: non si fa quando tutto aumenta. Occorre cambiare mentalità!

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La crisi mondiale si manifesta nelle nostre esportazioni

Come abbiamo più volte anticipato il rallentamento economico mondiale avrebbe presto tardi mostrato i suoi effetti anche sulla nostra economia. E così è stato nel mese di ottobre. Il commercio estero svizzero ha fortemente rallentato la sua corsa rispetto ai precedenti due mesi dove aveva segnato dati record. Leggendo un po’ superficialmente la notizia che dice che la bilancia commerciale chiude con una eccedenza di 3.4 miliardi di franchi saremmo tentati di pensare che le cose vanno bene. Ma purtroppo non è così. Ricordiamo che la bilancia commerciale rappresenta la differenza tra le esportazioni e le importazioni di una nazione. Nel nostro caso rimane ancora positiva perché purtroppo entrambe le componenti hanno mostrato una riduzione rispetto ai mesi precedenti.

Prima di addentrarci nell’analisi dei settori che più hanno sofferto in questo ultimo mese e di quelli che invece hanno gioito di un aumento delle vendite all’estero, ricordiamo che la Svizzera è un paese esportatore Netto, quindi vende all’estero non solo più di quello che compra dall’estero, ma cosa ancora più importante produce di più di quello che consuma. Ciò implica che grazie a questa produzione aggiuntiva riusciamo a tenere migliaia di posti di lavoro in Svizzera che altrimenti andrebbero all’estero. Stimiamo in maniera un po’ approssimativa, basandoci sul fatto che ben il 10-12% del nostro prodotto interno lordo (PIL) dipende dalle esportazioni nette, di riuscire a garantire in Svizzera 400-450.000 posti di lavoro.

È proprio questa la ragione che spesso conduce i nostri partner internazionali a guardarci con un certo dispetto.

Ma torniamo alle nostre esportazioni. Sappiamo che il settore principale  è quello della chimica e della farmaceutica e non a caso è proprio questo che ha sofferto maggiormente passando da circa 13.5 miliardi di franchi di esportazioni nel mese di settembre agli 11 miliardi del mese di ottobre. In termini nominali si tratta di una riduzione di quasi l’11% che scende al 7% quando togliamo l’effetto dei prezzi (quindi quando guardiamo al dato reale). Curiosando tra le sue componenti che vanno dai prodotti farmaceutici a quelli immunologici, dai medicamenti ai principi attivi vediamo che nessuna componente ha mostrato una crescita.

Ma anche negli altri settori le cose non sono andate bene, anche se hanno tenuto. Tra questi segnaliamo i macchinari e l’elettronica, l’orologeria e anche gli strumenti di precisione (che in questo caso hanno mostrato un tasso di crescita di oltre il 4%).

Ma perché le esportazioni rallentano? Come più volte detto la Svizzera è un’economia globale e quindi è fortemente legata a quanto succede nel resto del mondo. E anche in questo caso la realtà ce lo dimostra. Le esportazioni svizzere sono diminuite in tutti e tre i principali mercati. Verso l’America del Nord si registra il  -14.1%, verso l’Asia il -6.9% verso l’Europa il -5.3%. E proprio all’interno dell’Europa segnaliamo nuovamente la grande difficoltà che sta affrontando la Germania, nostro principale partner commerciale. Proprio oggi è stata confermata la crescita negativa dello -0.1% del prodotto interno lordo (PIL) tedesco del terzo trimestre. Non parliamo ancora di recessione, ma i dati conseguiti nei primi nove mesi dell’anno (primo trimestre 0.0%, secondo trimestre +0.1% e ora -0.1%) non fanno altro che confermare le difficoltà incontrate dalla ex locomotiva d’Europa. Noi, da parte nostra possiamo solo augurarci che torni presto a trainare la crescita europea.

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Chi ha paura dell’intelligenza artificiale?

Il 1 novembre a Londra si è tenuto il primo vertice mondiale sull’intelligenza artificiale. A questo incontro hanno partecipato 28 nazioni che hanno raggiunto un accordo per regolamentarne lo sviluppo. La dichiarazione di Betchley (nome del luogo dell’incontro) riconosce l’importanza dell’intelligenza artificiale, ma ne mette in evidenza anche i possibili abusi.
Forse che la nevrosi ci sta un po’ assalendo? Negli scorsi mesi abbiamo visto persino gli attori di Hollywood scioperare invocando il divieto dell’uso dell’intelligenza artificiale. In termini di sicurezza nessuno nega che come tutte le tecnologie anche questa potrebbe essere utilizzata in senso negativo, ma forse l’allarmismo è eccessivo.
E in effetti, in questo ambito non sono mancati altri atti. I paesi del G7 (Canada, Francia, Italia, Giappone, Regno Unito, Germania e Stati Uniti) di recente hanno approvato un codice di condotta denominato Hiroshima e che prevede 11 punti (che qui sotto vi riproponiamo). Leggendoli appare evidente come l’intelligenza artificiale sia agli occhi dei governi un grosso rischio. In nome della sicurezza con questo codice si cerca di avere un controllo sullo sviluppo dei sistemi di intelligenza artificiale e di limitarne gli utilizzi. Ma davvero si può bloccare o incanalare il progresso tecnologico?
La storia che conosciamo fino ad oggi ci ha insegnato che non è possibile fermare il progresso. E per fortuna, aggiungiamo noi. La paura che proviamo di fronte alle repentine scoperte fatte nel campo dell’intelligenza artificiale non deve essere molto diversa da quella provata quando il telaio meccanico o la macchina a vapore hanno iniziato a diffondersi. Certo oggi non mettiamo più i nostri zoccoli di legno dentro negli ingranaggi per distruggere i macchinari che avrebbero portato via i posti di lavoro alle persone, ma l’atteggiamento sembra simile. È lo stesso atteggiamento che abbiamo visto all’inizio di questa rivoluzione 4.0. Ve lo ricordate il catastrofismo iniziale legato all’avvento dell’automazione e della digitalizzazione? Nel 2016 il WEF (World Economic Forum) diceva che avremmo perso 5 milioni di posti di lavoro entro il 2020 e che le nostre condizioni di vita sarebbero peggiorate drasticamente. Per fortuna la storia ha seguito un altro corso.
Ed è sempre lo stesso corso che sembra seguire la storia quando si tratta di progresso. Cerchiamo di opporci, cerchiamo di controllarlo, cerchiamo di contrastarlo. Ma la storia ci dimostra che il nostro livello di benessere è sempre dipeso proprio dalla tecnologia.
E proprio per questo e proprio in un mondo dove l’informazione circola alla velocità della rete che dovremmo cambiare atteggiamento. Non cerchiamo di fermare quello che non può essere fermato. Cerchiamo al contrario di imparare a usare il progresso a nostro vantaggio e a nostra volta insegniamo a non cadere nelle trappole di chi ne vuole fare un cattivo uso. L’intelligenza artificiale significa anche diagnosi di malattie precocemente, nuove scoperte di medicamenti, nuovi metodi di apprendimento. Insistiamo per diffondere questa intelligenza artificiale.

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L’inflazione in Italia è finita! O forse no?

Molti di noi mercoledì mattina aprendo i giornali hanno strabuzzato gli occhi leggendo la notizia che l’inflazione in Italia nel mese di ottobre è stata dell’1.8%. Un dato eccezionale! Praticamente saremmo stati tentati di dire che finalmente l’obiettivo della stabilità dei prezzi era stato raggiunto. Ricordiamo che le banche centrali si pongono come obiettivo per la stabilità dei prezzi un’oscillazione proprio tra zero e 2 punti percentuali. Ed è proprio in nome di questa oscillazione che da mesi la Federal Reserve (Fed), la Banca centrale europea (BCE) ma anche la stessa Banca nazionale svizzera (BNS) stanno praticando una politica monetaria restrittiva, ossia stanno aumentando i tassi di interesse di riferimento. Lo scopo è quello di ridurre la domanda dei consumatori e anche gli investimenti delle imprese per frenare l’euforia della domanda e consentire all’offerta di adeguarsi.

Il dato risultava ancora più eccezionale se paragonato a quello del mese di settembre che mostrava ancora un incremento dei prezzi del 5.3%. Un miracolo! Attenzione, attenzione… Prima di gridare al miracolo, quando si verificano scostamenti così importanti è giusto documentarsi e andare a capire le cause senza trarre conclusioni affrettate.

Presto fatto. Consultiamo il comunicato stampa dell’Istituto nazionale di statistica italiano (Istat) e scopriamo che in effetti anche su base mensile è stata registrata una diminuzione dello 0.1%. Bene. Ma non finisce qui e subito nella seconda frase il comunicato stampa spiega le ragioni di questa importante riduzione. L’indice dei prezzi al consumo del mese di ottobre su base annua (+1.8%) è stato giustamente confrontato con l’andamento dei prezzi del mese di ottobre del 2022. Naturalmente noi non possiamo ricordarcelo, ma è proprio in quel periodo che abbiamo assistito a un’impennata dei prezzi dei prodotti energetici. Era stato proprio un ottobre drammatico. E quindi ecco qui spiegato l’aumento contenuto: i prezzi energetici si sono ridotti rispetto all’anno prima del 17.7%.
Tuttavia non dobbiamo smorzare completamente l’entusiasmo poiché vediamo che tolto questo effetto un po’ dopante, in realtà si registra un rallentamento anche dell’inflazione di fondo (altrimenti detta inflazione core o zoccolo dell’inflazione, che è quella che non include il prezzo dei beni che variano molto come i generi alimentari freschi e gli stessi prodotti energetici). La stessa passa dal 4.6% di settembre al 4.2% di ottobre.

E che cosa succede ai prezzi in Svizzera? Anche qui abbiamo delle buone notizie. In maniera analoga a quanto è successo in Italia vediamo che i prodotti petroliferi sono scesi di ben il 6% rispetto all’anno scorso, consentendo di mantenere un indice dei prezzi al consumo nel mese di ottobre dell’1.7% (su base annua). La variazione rispetto al mese precedente è solo dello 0.1% in più. Dando un’occhiata nel dettaglio scopriamo anche alcune curiosità che ci fanno capire quanto questo indicatore rappresenti la realtà. Per esempio, vediamo che il prezzo dei cappotti e delle giacche da donna è aumentato (di ben il 12% rispetto al mese precedente), come pure quello dell’olio del riscaldamento (+3.8%) e delle giacche da uomo (+7.2%). Niente di stratosferico se pensiamo al fatto che ci avviamo verso l’inverno. Una lezione da trarre per l’anno prossimo? Comprate il giaccone al mese di settembre…

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Svizzera e Ticino: l’anno che sta arrivando…

Questa settimana sono stata ospite di Banca Migros, che ringrazio, per parlare delle prospettive economiche per la Svizzera. Dopo aver presentato le stime della crescita del prodotto interno lordo delle principali economie come gli Stati Uniti, l’Unione Europea e la Cina, abbiamo parlato delle previsioni per l’economia svizzera. Come tutti sappiamo la nostra nazione è fortemente connessa alle economie avanzate del resto del mondo, sia in termini di esportazioni che in termini di importazioni. È per questo che leggere le notizie positive degli Stati Uniti sicuramente ci rallegra. Al contrario, siamo molto meno felici di leggere che la crisi in Germania perdura. Ne abbiamo parlato più volte, tuttavia ora si vedono concretamente gli effetti sull’industria tedesca della dipendenza dal gas russo. Ricordiamo che dopo l’attacco all’Ucraina parte della comunità internazionale ha deciso di introdurre sanzioni contro la Russia. Tra queste, le più importanti sul fronte dell’approvvigionamento energetico sono state i divieti di importare petrolio e gas. L’industria tedesca dipendeva fortemente da questa fonte energetica che riusciva ad ottenere ad un prezzo molto più basso rispetto a quello che deve pagare oggi per comperare gas liquido e altre fonti. In aggiunta, la crisi economica fa rallentare anche l’implementazione degli investimenti per la produzione di energia pulita. Se alle difficoltà economiche aggiungiamo il vuoto politico lasciato dalla precedente cancelliera Angela Merkel la situazione non può che apparire ancora più preoccupante. Anche per noi, visto che la Germania è il nostro principale partner commerciale, sia per le esportazioni che per le importazioni.

A queste situazioni specifiche si aggiungono una serie di fattori di rischio esterni e interni.

La crisi in Medio Oriente, il perdurare del conflitto in Ucraina, le difficoltà di approvvigionamento e gli aumenti dei prezzi delle fonti energetiche, la possibile crisi immobiliare in Cina, la migrazione in forte crescita e il ritorno dell’allarme terrorismo in Europa, rendono il contesto geopolitico internazionale molto incerto e instabile. E l’incertezza e l’instabilità portano da una parte gli imprenditori a non investire e dall’altra i consumatori a essere più prudenti e a risparmiare.

A questo dobbiamo aggiungere nel caso dei cittadini svizzeri gli aumenti dei premi cassa malati, gli aumenti degli affitti, gli aumenti dell’energia, l’aumento dell’Iva e gli aumenti dei prezzi in generale che non si fermeranno il prossimo anno. Purtroppo anche per l’anno prossimo gli aumenti salariali, dove ci saranno, non compenseranno l’aumento del costo della vita e questo porterà inevitabilmente alla riduzione del potere d’acquisto. Questo significa concretamente che le persone potranno consumare di meno. Se si consuma di meno, si deve produrre di meno, il che significa licenziamenti, riduzione di reddito, mancato gettito per lo Stato e aumento delle prestazioni sociali. Insomma, non proprio delle buone prospettive.

E il Ticino? Purtroppo le prospettive non sono molto buone. Quasi tutti i settori economici prevedono mesi difficili. Ad eccezione del commercio al dettaglio che può contare sull’arrivo delle festività, meno ottimisti sono il settore del turismo, quello finanziario, quello industriale e quello delle costruzioni. In questo caso, ricordiamo che la crisi oramai dura da diversi trimestre.

Insomma, le previsioni non sono di certo ottimiste. Speriamo che anche questa volta, come spesso accade, gli economisti si sbaglino.

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Le nuove incertezze geopolitiche e il loro prezzo economico

Il panorama economico globale è una fonte costante di sorprese. Da oltre un anno ci occupiamo del problema dell’inflazione e ora che i dati delle principali economie sembrano rassicurarci, dobbiamo fare i conti con nuove incertezze e nuove preoccupazioni.
Il conflitto tra Russia e Ucraina è ancora aperto e purtroppo non sembra dare segnali di essere vicino a una conclusione. Se è vero che fino a qualche giorno fa potevamo sostenere che le principali nazioni nel frattempo avevano risolto i problemi di approvvigionamento energetico dovuti alla decisione di embargo di gas e petrolio dalla Russia e si stavano avvicinando a un inverno abbastanza tranquillo, ora la nostra opinione è decisamente cambiata. Al dramma ucraino se ne aggiunge ora un altro nel Medio Oriente. Naturalmente la nostra attenzione primaria rimane quella delle vite umane.
Tuttavia, sarebbe imprudente ignorare le ripercussioni di questa situazione sugli equilibri geopolitici ed economici futuri. E ancora una volta, purtroppo, il mondo sembra dividersi tra due blocchi che tanto ricordano quelli della guerra fredda.
A differenza di allora, però, oggi le economie sono ancora più collegate e connesse: qualunque piccola incertezza o instabilità si propaga a macchia d’olio. Questo porta, se possibile, ad aumentare ancora di più i dubbi su quello che sarà il futuro. Se da una parte abbiamo visto dati incoraggianti dei prezzi sia negli Stati Uniti che in Europa, dall’altra la paura di una stagnazione economica rimane nell’aria. E anche su questo dovrà fare importanti riflessioni la Federal Reserve (che ricordiamo è la Banca Centrale degli Stati Uniti) tra un paio di settimane quando sarà chiamata a decidere sull’aumento o meno dei tassi di interesse.
A questo si aggiungono le notizie negative che giungono dalla Cina. È notizia proprio di pochi giorni fa che anche Country Garden, uno dei più importanti costruttori e venditori cinesi di case, non è riuscito a pagare gli interessi su un debito estero. Questo possibile fallimento segue quello di qualche mese fa di Evergrande. Ma non finisce qui. Al rischio di bolla immobiliare oggi si aggiunge un debito pubblico molto elevato, una disoccupazione giovanile preoccupante e un rischio sempre più credibile di deflazione. Sì perché anche la riduzione dei prezzi, quando è causata da una mancanza di domanda, diventa un problema economico molto importante. E una sorte simile sembra viverla anche la Germania, fino a qualche mese fa considerata la locomotiva di Europa.
Insomma, anche se al momento i dati dell’economia svizzera non sembrano destare particolare preoccupazione, non possiamo fingere di essere un’isola felice in questo mondo che, anche da un punto di vista economico, non sembra andare proprio nella direzione giusta.

Pubblicato da L’Osservatore, 21 ottobre 2023

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I consumi rallentano e l’economia trema…

Ottime notizie sul fronte dei prezzi: gli indicatori pubblicati questa settimana delle principali nazioni europee mostrano un importante rallentamento nella corsa degli indici dei prezzi. Tra queste citiamo la
Germania (+4.5% in settembre in riduzione dal 6.1% di agosto) e la Francia (+4.9%). Anche negli Stati Uniti le cose sembrano andare molto bene: indice dei prezzi al consumo al 4.9% e indice dei prezzi alla produzione al 2.2%. Addirittura in Cina si parla di una possibile riduzione dei prezzi. E allora, come mai gli economisti non mostrano segni di grande euforia? Presto detto, il rallentamento dell’inflazione purtroppo non si sta accompagnando con un miglioramento delle aspettative economiche. Ma andiamo con ordine.
I recenti indicatori relativi ai consumi e alle spese fatte negli ultimi mesi mostrano un importante rallentamento. Ma anche quelli sulla fiducia dei consumatori indicano una situazione di preoccupazione. I consumatori, già toccati dalla riduzione del potere d’acquisto derivante dall’aumento del costo della vita, iniziano a mostrare paura per il futuro. E come dargli torto? Alla guerra drammatica in Ucraina si aggiunge ora anche il gravissimo conflitto in Medioriente. Le conseguenze economiche non tarderanno ad arrivare, anzi. Abbiamo già visto questa settimana che il prezzo del petrolio e di altri beni energetici ha ricominciato la sua corsa. Questo dipende dal fatto che molti paesi europei l’anno scorso avevano deciso di sostituire gli approvvigionamenti che arrivavano dalla Russia con approvvigionamenti dal Medioriente. Evidentemente, anche se il conflitto fortunatamente mentre scriviamo non si è diffuso, i paesi sanno che potrebbe esserci una importante riduzione delle forniture di gas e petrolio nelle prossime settimane. E purtroppo le tempistiche non giocano a nostro favore: ci avviamo all’inverno, periodo in cui la domanda di prodotti energetici aumenta in maniera vertiginosa. Questa componente di instabilità ed incertezza fa sì che giustamente i cittadini e le cittadine siano prudenti riducendo il loro consumo e aumentando il risparmio. Ma questo significa che le aziende non devono produrre e ciò implica che dovranno licenziare e non compreranno macchinari. Quindi la domanda aggregata diminuisce. Ed è proprio questo quello che pare stia accadendo in Cina dove la riduzione dei prezzi non è quindi una buona notizia, ma al contrario il campanello d’allarme del mancato consumo.
Speriamo che i campanelli d’allarme non suonino…

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TICINO: LA POVERTÀ NELLA RICCA SVIZZERA

Questa settimana ho partecipato al convegno sulla povertà organizzato da Soccorso d’inverno. È stata una giornata molto importante che ha consentito di parlare di povertà nel nostro Cantone. Una povertà spesso nascosta.

Immaginate di dover vivere con meno di 2’289 CHF al mese se siete single, o meno di 3’989 CHF se avete una famiglia con due bambini. Queste cifre, stabilite dalla Conferenza Svizzera dell’Istituzione dell’Azione Sociale (COSAS), definiscono la povertà assoluta in Svizzera; una soglia sotto la quale si ritiene che non sia possibile vivere in maniera integrata nella società. 

Il quadro diventa ancora più cupo se guardiamo al Ticino, dove quasi un quarto della popolazione è a rischio di povertà. Il concetto di “a rischio di povertà” può sembrare astratto, ma è in realtà molto semplice: se guadagnate meno del 60% del reddito mediano del paese, siete a rischio di povertà. In Ticino, siamo ben sopra la media nazionale del 15%, con un preoccupante 24%. Significa una persona su quattro.   

E non è tutto. Parliamo di deprivazione materiale e sociale. Questo indicatore quantifica le persone che sono costrette a rinunciare a importanti beni, servizi e attività sociali per ragioni finanziarie. La deprivazione materiale e sociale si verifica quando le persone soffrono di 5 mancanze su 13.

Il tasso medio in Svizzera è del 5.2%, mentre da noi sale a 9.6%. Ancora più allarmante è il fatto che il 14% ha almeno un arretrato di pagamento e addirittura il 30% non potrebbe affrontare una spesa improvvisa di 2’500 CHF. E i tristi primati non finiscono qui. Siamo al primo posto per quanto riguarda le persone che dichiarano di non poter cambiare i mobili usati, di non poter spendere una piccola somma di denaro ogni settimana per se stessi come pure di non potersi riunire con la famiglia o gli amici per bere o mangiare qualcosa almeno una volta al mese.

Perché in Ticino la situazione è così grave? Una delle ragioni fondamentali sono i bassi salari nel nostro Cantone che, nel medio termine, si trasformano in rendite pensionistiche inadeguate. Con gli aumenti imminenti del costo della vita, pensiamo ai premi dell’assicurazione malattia, all’energia e agli affitti, la situazione sembra destinata a peggiorare. 

Non possiamo permetterci di ignorare queste disparità con il resto della Svizzera. E non basta indignarsi; è tempo di agire. È tempo di adottare politiche mirate che elevino gli standard di vita nel nostro cantone. La povertà in Ticino non è solo un problema economico; è una crisi di identità nazionale che non può più essere ignorata. Le persone che vivono in questo Cantone devono essere a tutti gli effetti “svizzeri”.

Pubblicato da diversi portali: Tio, Ticinonews, Eticinforma

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Svizzera 2024: salari troppo bassi e prezzi troppo alti

L’economia mondiale rallenta e con lei anche quella svizzera. Le previsioni appena pubblicate dal KOF, che è il centro di ricerca congiunturale del politecnico federale di Zurigo, confermano quanto già prospettato dalla Segreteria di Stato dell’economia (SECO) la settimana scorsa. Anzi, le aspettative peggiorano ulteriormente. Ma andiamo con ordine.
Sia per il 2023 che per il 2024 il tasso di crescita del prodotto interno lordo (PIL) mostra una riduzione rispetto a quanto prospettato nel mese di giugno. In concreto quest’anno il PIL svizzero crescerà dello 1.2% mentre l’anno prossimo il tasso dovrebbe salire dell’1.5%.

A tenere in piedi la nostra crescita saranno principalmente i consumi privati dei cittadini e delle famiglie (+2.3% nel 2023 e +1.5% nel 2024). In effetti, sappiamo che se anche in riduzione, il contributo dei consumi all’intera produzione nazionale è di ben oltre il 50%. Al contrario, l’anno prossimo la spesa pubblica si ridurrà: non a caso la Confederazione e molti cantoni hanno annunciato la necessità di rientrare nel rispetto dei parametri legati al freno all’indebitamento. Gli investimenti, sia nelle costruzioni che nei macchinari, dovrebbero riprendersi il prossimo anno. Per il 2023 si stima una crescita solo dello 0.5% con addirittura una riduzione dell’1.7% per quanto riguarda le costruzioni.

Tuttavia, la principale causa del deludente risultato globale sarà la congiuntura estera. In effetti, sia per quest’anno che per il prossimo, si stima un importante rallentamento delle esportazioni, soprattutto per quanto riguarda i beni. Innegabile che la situazione economica in Cina e quella in Europa, e in particolare in Germania, avranno un impatto sul nostro commercio estero.

Purtroppo non giungono buone notizie nemmeno sul fronte dell’occupazione e dell’inflazione. Se per quest’anno si stima una crescita del 2% dei posti di lavoro e quindi di un mantenimento nel tasso di disoccupazione, la stessa cosa non accadrà l’anno prossimo. I nuovi posti di lavoro saliranno solo dello 0.8%, fatto questo che porterà sia il tasso di disoccupazione calcolato secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) sia quello calcolato secondo il metodo della SECO a salire (rispettivamente 4,3% 2,2%).

Infine, guardiamo ai prezzi: gli annunci di aumenti soprattutto nel settore dell’energia e in quello degli affitti si manifestano anche nelle previsioni del KOF. Se per quest’anno si conferma una chiusura con un aumento del 2.2%, l’anno prossimo le previsioni parlano ancora di un’inflazione del 2.1% (in giugno si stimava invece “solo” +1,5%).

La situazione sarebbe meno preoccupante se fossero previsti aumenti salariali che superassero questo tasso di inflazione; sfortunatamente, non è così. Le stime parlano di un aumento dei salari attorno al 2% fatto quindi che ci porterà ancora l’anno prossimo a vedere una riduzione dei nostri salari reali.

La situazione dovrebbe migliorare nel 2025, ma come possiamo ben immaginare le previsioni su due anni lasciano il tempo che trovano. Gli eventi che possono accadere sono troppi e troppo imprevedibili.

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UN FILO TRA SCUOLA E LAVORO «LA FORMAZIONE È DECISIVA»

“Il sistema formativo svizzero ha un rapporto molto stretto con il mondo del lavoro e della formazione professionale già dai 15 anni e poi proseguendo nella specializzazione. La relazione tra il lavoro e la formazione è molto stretta”.
L’economista Amalia Mirante, docente universitaria presso la Scuola Universitaria della Svizzera Italiana e presso l’Università della Svizzera italiana spiega come nella Confederazione formazione e lavoro si intreccino da sempre e come il Canton Ticino stia facendo i conti con uno spostamento dei più giovani verso i cantoni interni, dove gli stipendi sono più alti e le opportunità di carriera più numerose.
La sua analisi si focalizza sui risultati che emergono dal rapporto sulla situazione socioeconomica degli studenti condotta nel 2020 dall’Ufficio federale di statistica (UST) che ha rilevato come nel 2020 “il 38% degli studenti delle scuole universitarie affermava di aver svolto almeno uno stage dall’inizio degli studi. Il 7% di loro aveva adottato provvedimenti concreti in tal senso, e il 18% dichiarava di avere intenzione di effettuare uno stage prima della fine degli studi. Il 18% degli stage è stato effettuato all’estero. Il tipo di stage più frequente durante gli studi è quello obbligatorio e non retribuito”.
Professoressa, nel 2020, il 38% degli studenti delle scuole universitarie affermava di aver svolto almeno uno stage dall’inizio degli studi. Una percentuale importante o ancora troppo bassa? Quanto sono determinanti gli stages per gli studenti?
In Svizzera il sistema di formazione terziaria si suddivide tra la formazione professionale superiore e le scuole universitarie. Tra queste ci sono le università, le scuole universitarie professionali (SUP) e le alte scuole pedagogiche (ASP). Spesso nelle scuole universitarie, la formazione stessa prevede degli stages, che possono essere requisiti per l’accesso o parte integrante del diploma. In alcuni casi gli stages sono addirittura obbligatori.
Il tipo di stage più frequente durante gli studi è quello obbligatorio e non retribuito, è giusto non retribuire gli stagisti?
Sì, dallo studio dell’Ufficio federale di statistica emerge una certa frequenza di stage obbligatori e non remunerati. Nel caso delle università gli studenti hanno dichiarato che uno stage su due era obbligatorio; la percentuale sale addirittura a quasi il 90% nel caso delle scuole universitarie professionali e delle alte scuole pedagogiche. In Svizzera lo stage quindi spesso non è una scelta, quanto un’imposizione del sistema di formazione. Per quanto riguarda la remunerazione, è un argomento del quale si potrebbe parlare ampiamente perché varia da settore a settore. Solo per fare degli esempi, il 90% degli stages svolti dagli studenti di economia è retribuito, mentre lo è solamente il 50% di quelli di medicina. Ma c’è una spiegazione alla non retribuibilità degli stages ed è che spesso lo stage è uno sforzo che i datori di lavoro fanno per formare i giovani; è come un se in realtà dovessimo ringraziare le aziende e gli enti che devono mettere a disposizione un tutor, che abbia anche le competenze formative, ai giovani che seguono gli stages nelle loro imprese. C’è anche un altro aspetto da considerare: a volte, gli stages sono opportunità reciproche. Mi spiego: ad esempio le banche possono cercano gli stagisti perché considerano la loro presenza come un investimento vicendevole. I ragazzi possono fare un’esperienza professionale e le banche individuare i profili più idonei per poi magari assumerli alla fine della formazione.
Esiste il pericolo in Svizzera che gli studenti in stage vengano sfruttati e usati nel mondo del lavoro al posto di veri addetti assunti?
Non ci sono dati certi in merito, ma ci sono persone già formate che vengono assunte come stagisti anche se dovrebbero essere assunte come professionisti a tutti gli effetti. In questo caso, cambia la remunerazione del dipendente e anche il suo grado di sicurezza. Discorso diverso quando uno studente frequenta uno stage obbligatorio: tendenzialmente, in questi casi ci sono accordi e contatti precisi tra le università e le realtà che accolgono lo stagista. Quando invece si esce dal percorso di formazione non ci sono più così tante tutele. I disonesti, che non rispettano remunerazione e ruolo di professionisti che assumono come stagisti, ci sono, ma sono rari. In generale possiamo dire che per gli stages obbligatori nella formazione anche se non trovati direttamente dalle scuole, c’è una certa tutela perché il riconoscimento tendenzialmente prevede un iter che raccoglie i dati dell’esperienza e un rapporto di fine stage.
Quali sono le criticità del mondo del lavoro verso i ragazzi che vi si affacciano per la prima volta?
In genere la formazione in Svizzera è, diciamo, “velocizzata” (tempi definiti per ultimare i percorsi formativi, tentativi massimi per sostenere gli esami, numero obbligatorio di crediti da conseguire in una anno,…) per permettere ai giovani di inserirsi al più presto nel mondo del lavoro. In aggiunta, ci sono anche ragazzi che lavorano mentre stanno studiando e adulti che studiano mentre lavorano. La velocizzazione a cui mi riferisco si applica anche a queste situazioni. Chi per esempio, è studente lavoratore ha programmi di formazione differenti da quelli di chi studia senza lavorare; ad esempio possono esserci corsi di laurea di tre anni per studenti a tempo pieno che devono essere svolti entro 5 anni al massimo. Invece, lo stesso corso di laurea, per chi ha un’attività professionale si estende su 4 anni, ma con un massimo in ogni caso di 6 anni. In Svizzera il periodo di formazione è tendenzialmente fisso e limitato. Se uno studente non consegue il titolo universitario entro il periodo massimo stabilito viene escluso dalla formazione (escludendo evidentemente situazioni eccezionali come malattia o altre). Faccio un altro esempio: una volta che si viene esclusi da una facoltà come economia in una università perché per esempio si è bocciato troppe volte un esame, non si può più seguire un corso di laurea in economia in tutta la Svizzera. Questo, appunto, velocizza i tempi della formazione.

Come reputa la situazione occupazionale attuale in Svizzera dei giovani?
La reputo soddisfacente, ma differenziata. In Canton Ticino l’emigrazione dei giovani e il loro non ritorno comincia ad essere un problema. I giovani vanno sempre più spesso in Svizzera interna perché in Ticino i salari sono più bassi e minori le opportunità. Ticino a parte, nel resto della Svizzera il problema occupazionale per i giovani formati, fortunatamente, non esiste.

Intervista di Carla Colmegna pubblicata su La provincia di Como, 21.09.2023

La versione audio: Un filo tra Scuola e Lavoro – La formazione è decisiva
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Casse malati: soluzioni non slogan

L’argomento dei costi sanitari crescenti è un problema a più livelli che tocca almeno due aree cruciali. In primo luogo, abbiamo la questione dell’aumento dei premi assicurativi previsto per il prossimo anno. Qui, la Confederazione deve intervenire e negoziare con le casse malati. Se non ci sono margini per negoziare, il governo federale ha comunque il dovere di trovare risorse per evitare che l’intero onere ricada sui cittadini, come purtroppo succede da anni.
Questo non è un compito che i cantoni possono affrontare da soli . I cantoni ricchi possono aiutare i loro cittadini, ma gli altri non possono e tra questi sicuramente c’è il Canton Ticino che già si trova tra i Cantoni più generosi in termini di sussidi, ma che ha le finanze pubbliche alle strette.
La seconda faccia del problema è più profonda: il costo della sanità sta aumentando senza freni. Qui, non ci sono scorciatoie ideologiche. Alcuni propongono un sistema assicurativo unico, pubblico e in funzione del reddito, mentre altri suggeriscono di eliminare del tutto l’obbligo assicurativo. Queste sono ideologie contrapposte che hanno perso di vista l’obiettivo: trovare soluzioni concrete. Due principi devono guidarci: l’accesso alle cure per tutti e l’obbligo di assicurazione. Tra questi due paletti bisogna cercare soluzioni pratiche, concrete e che non siano un salto nel buio.
Le proposte attuali, come la cassa malati unica, o i premi in base al reddito, sono spesso improntate più a ideologie che a dati concreti. Non c’è nessuna analisi e nessuno studio indipendente che può assicurare ai cittadini che queste “riforme” porteranno a una diminuzione dei premi. Senza analisi o studi indipendenti, è come andare a fare la spesa senza conoscere i prezzi. Inaccettabile. E infatti i cittadini hanno sempre rifiutato questo tipo di proposte.
E proprio perché bisogna essere aperti a tutte le soluzioni forse sarebbe più utile partire dalla riflessione su come sarà la Svizzera tra vent’anni. Viviamo più a lungo, il che significa maggiori cure, specialmente nelle fasi avanzate della vita. Ma l’invecchiamento non è una malattia, è il decorso della vita. Questo potrebbe aprire la porta a un tipo di assicurazione sociale specifica per l’invecchiamento, separata dall’assicurazione malattia tradizionale, il che permetterebbe di ridurre notevolmente i costi nell’ambito della malattia. E questo mentre anche l’Assicurazione Vecchiaia e Superstiti (AVS) necessita di un ripensamento strutturale. Questa è un’opzione che merita una valutazione seria, lontana da qualsiasi pregiudizio ideologico.
Se non mettiamo da parte le bandiere delle ideologie, non troveremo soluzioni ma slogan.

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Articolo pubblicato da diversi siti: Liberatv, Tio, Ticinonews

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Svizzera: il PIL stagna, la disoccupazione sale

Qualche giorno fa la segreteria di Stato dell’economia (SECO) ha pubblicato i dati dell’andamento del prodotto interno lordo (PIL) nel secondo trimestre del 2023 (aprile-giugno). Purtroppo le cose non sono andate bene come nel primo trimestre. In effetti, siamo passati da un tasso di crescita del +0.9% a un tasso attuale invariato (+0.0%). Questo significa che di fatto il prodotto interno lordo ossia il valore dei beni e dei servizi prodotti all’interno della Svizzera in tre mesi è rimasto stabile. Il leggero aumento dei consumi delle famiglie (+0.4%) e di quello dello Stato (+0.1%) è stato compensato negativamente da una forte riduzione degli investimenti in beni di equipaggiamento (-3.7%), da quelli nelle costruzioni (-0.8%) e dalle esportazioni di beni (-1.2%). Non dimentichiamo che il settore delle costruzioni ha mostrato segni di rallentamento già a partire dal 2022. E proprio in quest’ottica vediamo che anche altri settori hanno sofferto nell’ultimo trimestre. Primo tra tutti segnaliamo l’industria manifatturiera che ha subito una diminuzione di quasi il 3%. Questo dato risente sicuramente dell’andamento dell’industria chimico-farmaceutica che dopo la grande crescita eccezionale registrata negli ultimi anni ha mostrato una certa stagnazione a partire dal 2022. A pesare anche l’industria metalmeccanica che ha risentito particolarmente del contesto internazionale. Chi invece sorride è il settore dell’alloggio e della ristorazione che segna un aumento di ben il 5.2% rispetto al trimestre precedente. Anche il commercio, il settore della sanità e quello dell’intrattenimento registrano dati abbastanza positivi.
Naturalmente questi risultati non sono un fulmine a ciel sereno, anzi. I dati relativi all’andamento macroeconomico dei principali paesi nostri partner commerciali e la riduzione delle esportazioni, in aggiunta ai dati del rallentamento degli ordinativi nell’industria, avevano già fatto presagire un risultato del genere.
Quello che ora si chiedono gli esperti e però cosa accadrà nei prossimi mesi. Proprio oggi in Svizzera è stato pubblicato il dato della disoccupazione che mostra un leggero aumento (dall’1.9% al 2%). Certo l’aumento è minimo e probabilmente dipende dalla stagionalità, quindi non dobbiamo temere troppo. Tuttavia non possiamo nemmeno ignorare i segnali che ci arrivano dalla situazione internazionale. Prendiamo ad esempio gli indicatori degli ordini industriali di Stati Uniti e Germania. Il mondo è fortemente connesso quindi se questi paesi rallentano la loro produzione vuol dire che la domanda in generale è rallentata e quindi anche le ordinazioni alle nostre aziende ne risentiranno. Non da meno non dimentichiamo l’impatto che gli aumenti dei costi potranno avere sulla frenata della domanda dei consumi delle famiglie anche in Svizzera. I premi cassa malati, l’energia, gli affitti faranno sì che le classi medie-basse saranno obbligate a ridurre i loro consumi. E ricordiamo, i consumi rappresentano la metà del nostro prodotto interno lordo. Se i consumi scendono, la produzione diminuisce, questo significa licenziamenti, meno entrate per lo Stato e più spese, che comportano a loro volta una riduzione dei consumi. Insomma, speriamo proprio che questi segnali non siano anticipatori di quanto accadrà nei prossimi mesi.

La versione audio: Svizzera: il PIL stagna, la disoccupazione sale
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UBS e Credit Suisse: ogni posto di lavoro conta

UBS, la più grande banca svizzera, ha annunciato i risultati molto attesi del secondo trimestre di quest’anno. I conti si sono chiusi con un utile di oltre 25 miliardi di franchi. Durante la conferenza stampa è emerso che il marchio di Credit Suisse continuerà ad esistere fino al 2025, quando tutti i clienti saranno integrati nel sistema di UBS. Inoltre, entrambe le banche hanno rassicurato che manterranno gli impegni di sponsorizzazione verso associazioni sociali, culturali e sportive almeno fino al 2025.

La borsa ha positivamente reagito a questi risultati, portando ad un aumento del 6% del valore delle azioni di UBS, che sono arrivate a 23 franchi, un livello che non si registrava da anni.

Ma facciamo un passo indietro. Il 19 marzo 2023, dopo un pressante “invito” del governo, UBS ha annunciato l’acquisizione di Credit Suisse, una banca che si trovava sull’orlo del fallimento a causa di strategie errate e operazioni discutibili negli anni passati. Pochi giorni dopo, UBS ha richiamato Sergio Ermotti al comando, suscitando grande sollievo tra gli svizzeri. Sotto la guida di Ermotti, l’11 agosto, UBS ha annunciato di rinunciare a tutti gli aiuti e le garanzie statali.

Questa notizia è stata sicuramente positiva per i cittadini svizzeri, ma è stata anche una sconfessione per quei politici che per mesi hanno messo in discussione l’intervento del governo, l’urgenza di una soluzione e le capacità stesse di UBS nell’affrontare questa acquisizione. La politica spesso si nutre di polemiche sterili, ma speriamo che gli stessi attori si impegnino invece nel risolvere problemi reali.

Purtroppo, durante la conferenza stampa, è arrivata anche l’altra notizia attesa: in Svizzera verranno persi circa 3’000 posti di lavoro su un totale di 38’000 offerti attualmente dalle due banche. È rassicurante leggere le prese di posizione dei sindacati di categoria che hanno valutato le condizioni del piano sociale come molto buone. Nonostante ciò, non possiamo fare a meno di pensare e di esprimere massima solidarietà a queste 3’000 persone e alle loro famiglie, che, come accade sempre quando si perde il lavoro, si troveranno ad affrontare periodi molto difficili.

Auguriamo a tutte loro di poter trovare al più presto una nuova occupazione, perché, a differenza di quanto alcuni vorrebbero farci credere, il lavoro rimane fondamentale nella vita di ognuno di noi.

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La carne? Solo per i ricchi

Qualche giorno fa Urs Brändli il presidente di Bio Suisse, la principale organizzazione di promozione dell’agricoltura biologica in Svizzera, ha affermato che “il prezzo degli alimentari deve salire”. Come me tanti saranno sobbalzati sulla sedia.
La sua tesi è che non sono tanto i prodotti biologici a costare tanto quanto gli altri prodotti a costare troppo poco. La soluzione? Introdurre tasse così da alzare i prezzi dei beni convenienti e rendere competitivi gli acquisti dei prodotti bio. In aggiunta, specifica che uno dei primi campi in cui bisognerebbe intervenire è quello della carne.
Da economista mi sono chiesta se il mondo abbia cominciato a girare al contrario oppure se le leggi economiche siano state stravolte di recente.
Che molti beni prodotti non contengano tutti i costi generati (le famose esternalità negative) è una cosa nota e risaputa e nessuno la mette in dubbio. Utilizzare però questo argomento per educare i cittadini a vivere la vita che alcuni ritengono “giusta” inizia a essere anche in Svizzera un’abitudine pericolosa.
Ancora più pericolosa lo è se mette in discussione progressi che consentono oggi anche alle classi sociali meno benestanti di avere accesso a beni e servizi cinquant’anni fa riservati solo ai ricchi.
Sì perché il progresso tecnologico e le economie di scala hanno consentito alle aziende di abbassare notevolmente i costi di produzione e quindi di ridurre i prezzi di vendita.
Ed è proprio questa la logica che deve portare le aziende a essere più efficienti: la riduzione dei costi consente di abbassare i prezzi e di conquistare fette di mercato.
Al contrario il presidente di Bio Suisse vorrebbe che sia la mano dello Stato a rendere i prodotti di cui lui è rappresentante maggiormente venduti. E che cosa suggerisce? Nuove tasse. Nuove tasse che come al solito vanno a gravare sulle famiglie più povere. D’altra parte, perché permettere ai figli di persone che guadagnano poco di viaggiare per il mondo in aereo e scoprire nuove realtà? O ancora perché non obbligarli a utilizzare i mezzi pubblici vietando l’acquisto di automobili poco costose? E adesso perché permettere a queste famiglie di mangiare della carne?
Più volte il popolo svizzero si è espresso contro i divieti, ma anche questo genere di tasse lo diventano, soprattutto per le persone che hanno poca disponibilità economica.
Vogliamo davvero ritornare ad una società che viaggia a due velocità? E non è che il progresso economico e sociale stia proprio nel fatto che gli individui abbiano le risorse per fare le loro scelte in maniera libera?
Ma forse come in ogni epoca anche oggi i nobili hanno bisogno di un popolo affamato. E non per niente riecheggia nelle nostre orecchie la nobildonna che disse: “se non hanno più pane, che mangino brioches“.

La carne? Solo per i ricchi
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Le banche centrali e il dilemma dell’inflazione

L’inflazione persiste. Purtroppo. I segnali che sono arrivati alle banche centrali nelle ultime settimane non sono bastati a rallentare gli incrementi dei tassi di interesse. Per il momento solo la Federal Reserve (FED) ha fermato la corsa decidendo di lasciarli tra il 5% e il 5.25%. Sottolineiamo “per il momento” perché la FED ha già precisato che altri aumenti sono all’orizzonte, causando la reazione negativa di Wall Street. Non nascondiamo che questo annuncio a noi pare inutilmente dannoso: il tasso di inflazione americano è sì ancora elevato, ma dà segnali di rallentamento. In effetti, in maggio i prezzi sono aumentati del 4% (4.9% in aprile). Si è ancora lontani dal famoso 2%, tasso che la teoria economica individua come limite per poter parlare di stabilità dei prezzi, ma forse ora bisognerebbe dare il tempo alla politica monetaria di espletare i suoi effetti e di valutare quelli che peseranno sull’economia reale.

Chi non poteva decidere diversamente invece è stata la Banca d’Inghilterra, che ha annunciato un aumento dei tassi di 50 punti portandoli al 5%. D’altronde il tasso di inflazione pubblicato poche ore prima non lasciava molte speranze: l’indice dei prezzi al consumo si è confermato ancora in maggio all’8.7% e, fatto ancora più grave, il tasso dell’inflazione core (lo zoccolo dell’inflazione che non calcola i prezzi variabili come quelli dei generi alimentari freschi e dell’energia) è addirittura aumentato dal 6.8% al 7.1%. Quindi niente da fare per la Banca d’Inghilterra che si è trovata le mani legate.

Chi a nostro avviso invece avrebbe potuto decidere più liberamente e diversamente è la Banca Nazionale svizzera (BNS). Il nostro tasso di inflazione è fortunatamente molto più basso di quello europeo: in maggio l’indice dei prezzi segnava +2.2% (in aprile il tasso era del 2.6%). Tuttavia la preoccupazione dovrebbe essere per cosa succederà al potere d’acquisto dei cittadini nei prossimi mesi. Gli aumenti degli affitti, la crescita dei tassi di interesse sulle ipoteche o ancora i prezzi energetici ci renderanno più poveri. A questo aggiungiamo un peggioramento delle previsioni di crescita, che avranno probabilmente effetto anche sui salari. Magari si poteva evitare un ulteriore aumento.

E chiudiamo con la Turchia, dove la situazione è ancor più drammatica. Dopo mesi di politiche economiche non convenzionali che hanno visto la riduzione dei tassi di interesse dal 19% all’8.5% in un contesto di inflazione crescente, la banca centrale ha ora operato un radicale cambiamento aumentando i tassi di 650 punti base al 15%. È un tasso enorme in apparenza. In apparenza perché se lo paragoniamo a quello dell’inflazione, ancora al 40%, si ridimensiona. Ma purtroppo non si ridimensiona la drammaticità del potere d’acquisto dei cittadini di questo Paese.

Tratto da L’Osservatore del 24.06.2023

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Perché la lotta all’inflazione ci alza l’affitto (e altre spese)

Tassi d’interesse e mercato immobiliare, un costoso ritorno alla normalità

In questi giorni chi vive in affitto ha cominciato a ricevere dagli amministratori condominiali le indicazioni su un (eventuale) rincaro della sua pigione a partire dal prossimo settembre (conseguenza dell’adeguamento da parte di Berna del tasso di riferimento nei contratti di locazione, dall’1,25 all’1,5%).

D’altra parte nell’area OCSE, di cui la Svizzera fa parte, si inizia a registrare un calo dei prezzi delle abitazioni dopo anni di crescita costante: un fenomeno legato all’adeguamento del tasso guida da parte delle banche centrali. Cerchiamo di riordinare le idee attorno al dossier immobiliare con l’economista Amalia Mirante, per poi allargare il discorso e cercare di capire come se la sta… cavando il nostro potere d’acquisto. 

Prezzi degli immobili, verso una correzione

Dottoressa Mirante, a livello internazionale si iniziano a intravvedere i segni di un calo del costo degli immobili residenziali. C’era da attenderselo? E in Svizzera?

Non è inatteso, poiché è aumentato il costo del denaro in prestito, rendendo più caro acquistare un immobile, di conseguenza la domanda di questi beni si contrae. L’offerta inizialmente rimane piuttosto stabile o persino continua a crescere, perché la reazione dei soggetti economici è sempre un po’ in ritardo rispetto ai mutamenti imposti, in questo caso, dalle Banche centrali: dunque per incentivare l’acquisto quello che succede è che il prezzo scende, diminuisce. In una situazione come questa, il rischio che esplodano bolle speculative aumenta, specialmente se nel corso degli anni il valore degli immobili è stato un po’ sopravvalutato, e dunque si è costruito tanto senza che ci fossero realmente soggetti in grado di comperare questi immobili. L’aumento dei tassi di interessi ristabilisce un ordine, solo che alcuni nodi possono arrivare al pettine in maniera dolorosa. Non credo però che questo avverrà in Svizzera, anzitutto perché per accedere al prestito ipotecario oggi bisogna rispondere a una serie di condizioni finanziarie stringenti. Inoltre nelle grandi città del Paese la domanda di abitazioni rimane molto elevata, poiché il mercato del lavoro elvetico è sempre alla ricerca di profili altamente qualificati: vi è dunque un influsso di persone dall’estero che venendo in Svizzera incrementano la domanda.

In Ticino però la situazione è diversa, si è costruito molto, e la domanda non è sempre presente.

I tassi di interesse negativi hanno spinto molti investitori istituzionali, come per esempio le casse pensioni, o chi disponeva di grandi patrimoni a puntare sul mattone: il basso costo del denaro permetteva di costruire e di uscirne in positivo affittando magari soltanto un terzo, o un quarto degli edifici costruiti.

“I nuovi tassi sono la normalità” 

Ecco. Chi ha costruito negli anni scorsi non rischia dunque di perdere parte del proprio investimento?

Dipende un po’ anche dalla sfortuna o fortuna, cioè da quando è fissato il termine per le ipoteche negoziate negli anni scorsi. Dal mio un punto di vista però se i tassi rimangono quelli attuali la situazione rimane tutto sommato sostenibile. Chi ha una proprietà immobiliare e si trova alla scadenza ipotecaria sarà confrontato con un incremento del tasso ipotecario di interesse, ma se anche questo venisse portato al 2,5% per 5-6 anni, siamo in quella che definirei una situazione macroeconomicamente normale. È quello che c’era prima che non era nella norma. Naturalmente chi nella sua proprietà ha degli affittuari andrà a recuperare i suoi soldi ribaltando su questi i nuovi tassi di interesse, portando a aumenti significativi delle pigioni.

Ci torniamo. Intanto lei pensa che a causa del maggior costo delle ipoteche molte persone possano decidere di rimanere in affitto, invece di lanciarsi nell’avventura di comprare o costruir casa?

Potrebbe infatti, è vero, avverarsi una correzione dei prezzi degli immobili e dei terreni, che sono sempre cresciuti, anche in maniera un po’ esagerata, negli ultimi anni. Se io pago un po’ di più in tassi di interesse ma si riduce del 10% il prezzo dell’immobile, il nuovo equilibrio mi favorisce. Ma come spiegavo in precedenza, le politiche monetarie non mostrano subito i loro effetti. Ora dobbiamo sperare che l’inflazione continui a rallentare. E così si possa tirare il fiato anche sulla risalita dei tassi d’interesse: giovedì la Banca Nazionale dovrebbe trovarsi per decidere, vedremo se seguirà la BCE che ha di nuovo aumentato il suo tasso guida, oppure se seguirà la Fed, che è rimasta stabile. In questo momento si potrebbe dire che in Svizzera l’inflazione è sotto controllo (a maggio era al 2,2%).

Perché la lotta all’inflazione ci alza l’affitto (e altre spese)

Prima parlava dell’aumento degli affitti come conseguenza dei nuovi tassi di riferimento. È una nostra impressione o la lotta all’inflazione, alla crescita del costo dei beni di consumo, si fa innalzando altri costi, in questo caso quello dell’affitto che è solitamente la voce spesa più importante per un’economia domestica

Lo scopo è rallentare la domanda e gli investimenti. Come si fa? La politica monetaria tradizionale prevede di agire con l’aumento del tasso di interesse, rendendo più costoso prendere denaro a prestito. Se il leasing dell’automobile, per esempio, mi costa 2-3% in più, ci penserò due prima di cambiare automobile. Bisogna cioè fare in modo che le persone e le aziende spendano in misura minore. Nei fatti se ho costi maggiori per ciò che devo per forza consumare, non consumerò altri beni. È chiaro che si tratta di leve pericolose: non vogliamo una crisi economica, non vogliamo disoccupati, non vogliamo che la crescita si fermi. Però, d’altra parte, le conseguenze di un’inflazione elevata sono molto più gravi di 1-2 anni di rallentamento economico. Il sistema economico e il nostro stato sociale possono rispondere in maniera più efficace e con meno costi a un temporaneo aumento della disoccupazione e a una riduzione dei redditi reali, che non alle conseguenze causate da inflazione elevata e prolungata.

Di recente lei ha detto che l’aumento, prospettato, degli affitti si inserisce in una tendenza, quella che vede l’inflazione spostarsi all’interno del Paese. Che cosa significa?

Sì, e mi spiego. Il peso di fattori esterni, come i prodotti energetici di importazione si molto è ridimensionato. Adesso iniziamo a riscontrare il fatto che l’inflazione sui beni e servizi prodotti localmente (tra cui gli affitti) è più alta di quella sui beni importati. È come se l’inflazione sia stata assimilata dal nostro sistema economico. A ciò si spera segua ora un ulteriore adeguamento dei salari verso l’alto, per controbilanciare l’aumento dei prezzi. A ciò dovrebbe affiancarsi anche una attenzione da parte della politica fiscale. Vale la pena ricordare che vi sono anche importanti voci di spesa che, diversamente dagli affitti, non rientrano nell’ Indice dei prezzi al consumo, indice con cui si calcola l’inflazione. Parlo per esempio dei costi della salute, oppure delle imposte. Fattori che possono determinare un calo importante del potere d’acquisto per le persone. Una politica economica seria dovrebbe tenere conto di tutti i fattori, considerare come aiutare per esempio i pensionati, chi ha difficoltà a pagare i premi di cassa malati o le piccole-medie imprese. Tutto però dipenderà da quando ancora durerà questa crisi inflattiva: se da qui ai prossimi 3-4 mesi non si tornasse a un tasso di inflazione dell’1,5%, sarà opportuno un nuovo intervento straordinario da parte della politica sociale. Se i tassi di crescita dell’economia sono positivi, se i redditi più o meno tengono, se le persone pur con alcuni sacrifici riescono ad andare avanti, difficilmente lo Stato (specie quello elvetico, tradizionalmente poco interventista) si sentirà in obbligo di agire.

Tassi d’interesse e mercato immobiliare, un costoso ritorno alla normalità



In questi giorni chi vive in affitto ha cominciato a ricevere dagli amministratori condominiali le indicazioni su un (eventuale) rincaro della sua pigione a partire dal prossimo settembre (conseguenza dell’adeguamento da parte di Berna del tasso di riferimento nei contratti di locazione, dall’1,25 all’1,5%).

D’altra parte nell’area OCSE, di cui la Svizzera fa parte, si inizia a registrare un calo dei prezzi delle abitazioni dopo anni di crescita costante: un fenomeno legato all’adeguamento del tasso guida da parte delle banche centrali. Cerchiamo di riordinare le idee attorno al dossier immobiliare con l’economista Amalia Mirante, per poi allargare il discorso e cercare di capire come se la sta… cavando il nostro potere d’acquisto. 

Prezzi degli immobili, verso una correzione

Dottoressa Mirante, a livello internazionale si iniziano a intravvedere i segni di un calo del costo degli immobili residenziali. C’era da attenderselo? E in Svizzera?

Non è inatteso, poiché è aumentato il costo del denaro in prestito, rendendo più caro acquistare un immobile, di conseguenza la domanda di questi beni si contrae. L’offerta inizialmente rimane piuttosto stabile o persino continua a crescere, perché la reazione dei soggetti economici è sempre un po’ in ritardo rispetto ai mutamenti imposti, in questo caso, dalle Banche centrali: dunque per incentivare l’acquisto quello che succede è che il prezzo scende, diminuisce. In una situazione come questa, il rischio che esplodano bolle speculative aumenta, specialmente se nel corso degli anni il valore degli immobili è stato un po’ sopravvalutato, e dunque si è costruito tanto senza che ci fossero realmente soggetti in grado di comperare questi immobili. L’aumento dei tassi di interessi ristabilisce un ordine, solo che alcuni nodi possono arrivare al pettine in maniera dolorosa. Non credo però che questo avverrà in Svizzera, anzitutto perché per accedere al prestito ipotecario oggi bisogna rispondere a una serie di condizioni finanziarie stringenti. Inoltre nelle grandi città del Paese la domanda di abitazioni rimane molto elevata, poiché il mercato del lavoro elvetico è sempre alla ricerca di profili altamente qualificati: vi è dunque un influsso di persone dall’estero che venendo in Svizzera incrementano la domanda.

In Ticino però la situazione è diversa, si è costruito molto, e la domanda non è sempre presente.

I tassi di interesse negativi hanno spinto molti investitori istituzionali, come per esempio le casse pensioni, o chi disponeva di grandi patrimoni a puntare sul mattone: il basso costo del denaro permetteva di costruire e di uscirne in positivo affittando magari soltanto un terzo, o un quarto degli edifici costruiti.

“I nuovi tassi sono la normalità” 

Ecco. Chi ha costruito negli anni scorsi non rischia dunque di perdere parte del proprio investimento?

Dipende un po’ anche dalla sfortuna o fortuna, cioè da quando è fissato il termine per le ipoteche negoziate negli anni scorsi. Dal mio un punto di vista però se i tassi rimangono quelli attuali la situazione rimane tutto sommato sostenibile. Chi ha una proprietà immobiliare e si trova alla scadenza ipotecaria sarà confrontato con un incremento del tasso ipotecario di interesse, ma se anche questo venisse portato al 2,5% per 5-6 anni, siamo in quella che definirei una situazione macroeconomicamente normale. È quello che c’era prima che non era nella norma. Naturalmente chi nella sua proprietà ha degli affittuari andrà a recuperare i suoi soldi ribaltando su questi i nuovi tassi di interesse, portando a aumenti significativi delle pigioni.

Ci torniamo. Intanto lei pensa che a causa del maggior costo delle ipoteche molte persone possano decidere di rimanere in affitto, invece di lanciarsi nell’avventura di comprare o costruir casa?

Potrebbe infatti, è vero, avverarsi una correzione dei prezzi degli immobili e dei terreni, che sono sempre cresciuti, anche in maniera un po’ esagerata, negli ultimi anni. Se io pago un po’ di più in tassi di interesse ma si riduce del 10% il prezzo dell’immobile, il nuovo equilibrio mi favorisce. Ma come spiegavo in precedenza, le politiche monetarie non mostrano subito i loro effetti. Ora dobbiamo sperare che l’inflazione continui a rallentare. E così si possa tirare il fiato anche sulla risalita dei tassi d’interesse: giovedì la Banca Nazionale dovrebbe trovarsi per decidere, vedremo se seguirà la BCE che ha di nuovo aumentato il suo tasso guida, oppure se seguirà la Fed, che è rimasta stabile. In questo momento si potrebbe dire che in Svizzera l’inflazione è sotto controllo (a maggio era al 2,2%).

Perché la lotta all’inflazione ci alza l’affitto (e altre spese)

Prima parlava dell’aumento degli affitti come conseguenza dei nuovi tassi di riferimento. È una nostra impressione o la lotta all’inflazione, alla crescita del costo dei beni di consumo, si fa innalzando altri costi, in questo caso quello dell’affitto che è solitamente la voce spesa più importante per un’economia domestica

Lo scopo è rallentare la domanda e gli investimenti. Come si fa? La politica monetaria tradizionale prevede di agire con l’aumento del tasso di interesse, rendendo più costoso prendere denaro a prestito. Se il leasing dell’automobile, per esempio, mi costa 2-3% in più, ci penserò due prima di cambiare automobile. Bisogna cioè fare in modo che le persone e le aziende spendano in misura minore. Nei fatti se ho costi maggiori per ciò che devo per forza consumare, non consumerò altri beni. È chiaro che si tratta di leve pericolose: non vogliamo una crisi economica, non vogliamo disoccupati, non vogliamo che la crescita si fermi. Però, d’altra parte, le conseguenze di un’inflazione elevata sono molto più gravi di 1-2 anni di rallentamento economico. Il sistema economico e il nostro stato sociale possono rispondere in maniera più efficace e con meno costi a un temporaneo aumento della disoccupazione e a una riduzione dei redditi reali, che non alle conseguenze causate da inflazione elevata e prolungata.

Di recente lei ha detto che l’aumento, prospettato, degli affitti si inserisce in una tendenza, quella che vede l’inflazione spostarsi all’interno del Paese. Che cosa significa?

Sì, e mi spiego. Il peso di fattori esterni, come i prodotti energetici di importazione si molto è ridimensionato. Adesso iniziamo a riscontrare il fatto che l’inflazione sui beni e servizi prodotti localmente (tra cui gli affitti) è più alta di quella sui beni importati. È come se l’inflazione sia stata assimilata dal nostro sistema economico. A ciò si spera segua ora un ulteriore adeguamento dei salari verso l’alto, per controbilanciare l’aumento dei prezzi. A ciò dovrebbe affiancarsi anche una attenzione da parte della politica fiscale. Vale la pena ricordare che vi sono anche importanti voci di spesa che, diversamente dagli affitti, non rientrano nell’ Indice dei prezzi al consumo, indice con cui si calcola l’inflazione. Parlo per esempio dei costi della salute, oppure delle imposte. Fattori che possono determinare un calo importante del potere d’acquisto per le persone. Una politica economica seria dovrebbe tenere conto di tutti i fattori, considerare come aiutare per esempio i pensionati, chi ha difficoltà a pagare i premi di cassa malati o le piccole-medie imprese. Tutto però dipenderà da quando ancora durerà questa crisi inflattiva: se da qui ai prossimi 3-4 mesi non si tornasse a un tasso di inflazione dell’1,5%, sarà opportuno un nuovo intervento straordinario da parte della politica sociale. Se i tassi di crescita dell’economia sono positivi, se i redditi più o meno tengono, se le persone pur con alcuni sacrifici riescono ad andare avanti, difficilmente lo Stato (specie quello elvetico, tradizionalmente poco interventista) si sentirà in obbligo di agire.

Intervista tratta da il Federalista del 19.06.2023

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Previsioni economiche: nuvole all’orizzonte

In questa settimana sia la segreteria di Stato nell’economia (Seco) che il centro di ricerca congiunturale del politecnico federale di Zurigo (KOF) hanno presentato le previsioni per l’andamento economico della Svizzera per il 2023 e il 2024. Entrambi gli istituti evidenziano che la crescita del prodotto interno lordo (PIL) nel secondo trimestre e nella seconda parte di quest’anno dovrebbe essere inferiore rispetto a quanto avvenuto nel primo trimestre. Questo dipende dalla congiuntura mondiale che si trova in una fase di rallentamento. L’inflazione estremamente elevata nell’Unione Europea e anche negli Stati Uniti gioca ancora un ruolo importante nella riduzione del potere d’acquisto dei cittadini e quindi sulla domanda di consumi delle famiglie. Questo, unito all’incremento dei prezzi anche in Svizzera, che dovrebbe attestarsi a fine anno attorno al 2.3%, farà sì che la crescita del PIL sarà “solo” dell’1.5%.

Nonostante la riduzione del potere d’acquisto sarà ancora la domanda delle famiglie ad alimentare l’andamento positivo. Anche gli investimenti delle imprese dovrebbero mostrare un andamento positivo a differenza della spesa pubblica chiamata a forti riduzioni, soprattutto relazione al periodo Covid-19. I dati relativi agli investimenti in costruzione rimangono negativi, tuttavia si evidenzia una ripresa per quelli residenziali.

E quale sarà l’impatto di questa crescita del PIL sul mercato del lavoro? A detta degli esperti la disoccupazione dovrebbe leggermente diminuire raggiungendo così i minimi storici. Nonostante questa notizia positiva segnaliamo che i salari reali purtroppo non vedranno un aumento poiché i loro incrementi non saranno ancora sufficienti a compensare l’inflazione. Detto questo come ogni volta non ci resta che tenere le dita incrociate e sperare che tutti i fattori che influenzano l’andamento economico a livello mondiale giochino a nostro favore.

La versione audio: Previsioni economiche: nuvole all’orizzonte
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Ticino: sempre più frontalieri e sempre meno residenti

L’ufficio cantonale di statistica fa un ottimo lavoro che ci aiuta a comprendere la nostra economia. Nell’ultimo pubblicato qualche giorno fa si parla del mercato del lavoro in un’ottica di medio-lungo periodo.

Leggiamo “il numero di lavoratori residenti continua a calare, così come sono sempre meno i giovani e gli immigrati. Considerate queste dinamiche demografiche e i saldi migratori recenti, i posti di lavoro liberati e creati sul mercato del lavoro ticinese sono stati occupati principalmente da frontalieri.”

Queste frasi dovrebbero far scattare in tutti noi un campanello d’allarme. Per anni la politica ha negato che la libera circolazione delle persone nel nostro cantone abbia creato principalmente posti di lavoro per persone non residenti. Ora che i numeri lo confermano, tutto tace.

Già i dati annuali pubblicati qualche mese fa confermavano questa tendenza. Tra il 2012 e il 2022 c’è stato un saldo positivo di quasi 27’000 occupati in più. Ma attenzione, il dato non deve trarre in inganno. In Ticino rispetto a 10 anni fa si sono registrati 3’000 occupati svizzeri in meno. E allora, chi sono questi 30’000 occupati in più nel cantone? Circa 7’500 persone hanno un permesso di domicilio; altre 21’500 sono frontaliere. Questo ha portato la quota degli occupati svizzeri e domiciliati a ridursi di ben 5 punti percentuali. Al contrario, i frontalieri sono passati da quasi il 26% a circa il 32% degli occupati.

I dati del primo trimestre del 2023 hanno confermato esattamente la stessa tendenza. In aggiunta, i ricercatori dell’ufficio cantonale di statistica evidenziano un’altra problematica: l’aumento delle persone inattive riduce il tasso di attività nel Canton Ticino di quasi 2 punti percentuali in un decennio (dal 58.7% del 2013 al 56.9% dal 2023 ). Questo significa che ci stiamo allontanando ancora di più rispetto al resto della Svizzera. Le dinamiche demografiche sono note: nascono sempre meno bambini e, fortunatamente, viviamo più a lungo. Ma a questo dobbiamo aggiungere che i nostri giovani non trovando opportunità professionali in linea con le loro qualifiche e competenze si trovano a dover emigrare oltre Gottardo oppure a non rientrare una volta finiti gli studi.

Una domanda sorge spontanea: com’è possibile che sono stati creati migliaia di posti di lavoro e contemporaneamente i nostri giovani emigrano?

Per molto tempo è stato detto che i posti di lavoro occupati dai frontalieri erano quelli che rifiutavano i residenti. Eppure i settori in cui si registrano gli aumenti più importanti di frontalieri sono l’informazione e la comunicazione (occupati raddoppiati), le attività professionali, scientifiche e tecniche (da 3’900 persone a 9’500) e le attività amministrative e nei servizi di supporto alle aziende (da 4’000 persone a 7’500).

Ora vi starete dicendo che i vostri figli e le vostre nipoti si sono formati proprio in quei campi lì; e allora perché non trovano un posto di lavoro?

La discriminante rimane sempre la stessa: il salario. Fintantoché le aziende e lo Stato non riconosceranno che questo è un problema, il Ticino è destinato a essere da una parte terra di accoglienza per persone che lavorano ma non risiedono e dall’altra, terra di emigrazione per i figli dei residenti.

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Svizzera: l’economia va bene o va male?

I dati pubblicati dalla Segreteria di Stato dell’Economia (SECO) hanno confermato che l’economia svizzera nei primi tre mesi dell’anno è andata bene. La crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) dell’anno è stata dello +0.5% rispetto al trimestre precedente. Se guardiamo la variazione su base annuale, quindi rispetto a quanto successo nei mesi di gennaio-febbraio-marzo del 2022, la crescita è stata addirittura dello 0.9%.
Nel dettaglio i dati confermano che sono stati principalmente i consumi e gli investimenti in macchinari a portare a questi risultati. Analizzando nel dettaglio emerge che il settore che ha trainato la spesa delle famiglie è stato quello del turismo e della mobilità. In effetti, i settori dell’alloggio, della ristorazione e delle attività di intrattenimento hanno mostrato tassi di crescita incoraggianti. Il dato sul commercio (+2.1% su base trimestrale) non deve trarre in inganno: gli aumenti sono stati registrati principalmente nel commercio all’ingrosso e in quello delle automobili; il commercio al dettaglio è diminuito leggermente.

La spesa pubblica, come ampiamente previsto è rimasta stabile su base trimestrale ed è leggermente diminuita su base annua. Da tempo sappiamo del disimpegno rispetto alle politiche pubbliche che hanno caratterizzato il periodo della crisi Covid-19.

E arriviamo alle esportazioni. Se i dati dei primi tre mesi dell’anno sono stati buoni, la doccia fredda è arrivata qualche giorno fa quando sono stati pubblicati quelli della bilancia commerciale nel mese di aprile. Ricordiamo che la bilancia commerciale registra le merci fisiche che passano la dogana in entrata e in uscita dalla Svizzera. Non dobbiamo allarmarci troppo però. Il dato è relativo a un solo mese e soprattutto la base di partenza dei mesi precedenti era estremamente elevata: in parole molto più semplice, nei mesi precedenti le esportazioni del settore farmaceutico e chimico avevano già raggiunto livelli record. Non a caso è proprio questo settore che ha determinato la parte maggiore della variazione negativa del 5.2% mensile in termini reali (al netto dell’andamento dei prezzi). Non ci stupisce d’altronde che uno dei paesi in cui abbiamo registrato la riduzione delle esportazioni maggiori sia la Germania, nazione tecnicamente in recessione (due trimestri di fila il PIL è diminuito).

Dopo questi dati incoraggianti ci saremmo aspettati delle buone prospettive future. E invece no. Economiesuisse (l’organizzazione mantello delle imprese) qualche giorno fa ha pubblicato le sue previsioni economiche: per quest’anno prospetta una crescita del PIL svizzero “solo“ dello 0.6%. Tra le cause l’inflazione, la crisi economica della Germania e la debole crescita dell’economia mondiale in generale.

Attendiamo tra qualche giorno le previsioni degli altri centri di ricerca, ma sappiamo già che alcuni elementi peseranno molto nelle tasche dei cittadini il prossimo autunno. Affitti in crescita, tassi di interesse in aumento e premi casse malati che esploderanno di certo non ci fanno dormire sonni tranquilli. Come e quanto potrà intervenire lo Stato lo scopriremo solo tra qualche mese.

La versione audio: Svizzera: l’economia va bene o va male?
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Gli Stati Uniti falliranno?

Tempi duri per il Presidente americano Joe Biden che si trova in questi giorni in Giappone dove si sta svolgendo il vertice del G7 dove si incontrano i Paesi economicamente più avanzati del mondo. Rimarrà poco questa volta, perché deve tornare a casa e fare in modo che l’America non fallisca. Avete letto bene, gli Stati Uniti d’America, il paese più potente al mondo, arrischiano il fallimento (o se preferite un termine più di moda il default).

Il debito pubblico è uno strumento importantissimo nelle mani dello Stato per fare le politiche economiche attive in risposta a un periodo congiunturale negativo. In questo caso lo Stato spende di più di quanto incassa e realizza un deficit. La somma di tutti i deficit rappresenta il suo debito pubblico.

Tendenzialmente i paesi non chiedono i prestiti alle banche, ma emettono le obbligazioni (promesse di pagamento) su cui gli Stati pagano i tassi di interesse. Una volta erano i cittadini e le aziende del paese stesso a prestare i soldi al loro governo; oggi in un mondo sempre più interconnesso anche gli altri Stati e le aziende estere comprano “debito pubblico”.

La maggioranza delle nazioni non si dà limiti al debito. Ma non per tutti è così. Ad esempio la Svizzera ha votato il freno all’indebitamento che prevede la possibilità di avere dei deficit nei momenti di bassa congiuntura che però devono essere compensati da eccedenze quando le cose vanno bene.

Gli Stati Uniti invece hanno il tetto massimo al debito. Questo strumento è stato introdotto nel 1917 e prevede che sia il Congresso a votare il limite massimo del debito. Da quando è stato introdotto, il tetto del debito è stato aumentato circa 80 volte portandolo ad oggi a 31’400 miliardi di dollari (28’500 miliardi CHF), equivalente al 120% del prodotto interno lordo americano.

Il 1 giugno si dovrebbe quindi arrivare al limite massimo e questo significa che non ci sono più soldi da spendere. Naturalmente la scelta di aumentarlo è esclusivamente politica. Diventa difficile attuarla quando Camera e Senato (che sono le due istituzioni americane) sono una nelle mani repubblicane e l’altra in quelle democratiche.

I repubblicani chiedono di ridurre notevolmente la spesa pubblica nei prossimi 10 anni, i democratici non hanno intenzione di farlo perché metterebbe a rischio la loro attività politica.

Non è la prima volta che assistiamo a questa prova di forza. E quindi dormiamo pure sonni tranquilli: né repubblicani né democratici vorranno far fallire gli Stati Uniti d’America.

La versione audio: Gli Stati Uniti falliranno?
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Ticino: siamo sempre i più poveri

L’indicatore di deprivazione materiale e sociale misura quante persone hanno problemi finanziari tali da non potersi permettere di comprare cose di base o di fare attività normali. Ad esempio, cambiare vestiti vecchi, fare attività a pagamento nel tempo libero o avere un po’ di denaro ogni settimana per loro stessi.
Quest’anno, l’indicatore è stato aggiornato ma anche così il Ticino nel 2021 è il cantone con la percentuale più alta di persone che vivono in deprivazione materiale e sociale. Quasi uno su dieci non riesce a soddisfare almeno cinque dei tredici bisogni indagati; in Svizzera la media è uno su venti.
Alcuni esempi: il 14% delle persone vive in famiglie con almeno un ritardo di pagamento, il doppio della media nazionale. Quasi il 30% delle persone non potrebbe affrontare una spesa imprevista di 2.500 franchi, e la stessa percentuale dichiara di non poter sostituire mobili vecchi.
Anche per quanto riguarda il rischio di povertà, il Ticino è al primo posto. Quasi una persona su quattro è a rischio povertà: oltre 80.000 persone che vivono in famiglie con redditi inferiori al 60% del reddito mediano. Di queste, oltre 38.000 vivono addirittura con un reddito inferiore al 50%. Avere un basso reddito significa correre il rischio di essere emarginati dalle attività e dalla vita sociale.
La povertà colpisce principalmente famiglie monoparentali e persone sole, disoccupati e inattivi, stranieri e persone con bassa istruzione (e pensionati). Nel Ticino, queste categorie sono probabilmente sovra-rappresentate, ma questo non basta a spiegare il triste primato del cantone. Il reddito è il fattore più importante per garantire una buona qualità della vita e, guarda caso, il Ticino è il cantone con i salari più bassi della Svizzera. E guarda caso in Ticino il tasso di deprivazione materiale e sociale delle persone che lavorano è dell’8.4%, due volte e mezzo quello nazionale (3.3%).
Lo Stato svolge un ruolo importante attraverso numerosi strumenti a sostegno dei cittadini meno fortunati. Tuttavia, non possiamo ignorare il problema. Il numero di persone che non riesce a vivere dignitosamente con il proprio salario sta aumentando, così come cresce il numero di persone costrette a cercare lavoro in altri cantoni o di anziani in pensione che emigrano perché non riescono a sostenere le spese mensili.
Le risorse dello Stato non sono più sufficienti per far fronte a tutte queste sfide. Cosa fare? Il primo indispensabile passo è riconoscere il problema dei bassi salari e lavorare insieme per trovare una soluzione, coinvolgendo tutte le parti interessate, a partire dalle aziende presenti sul territorio.
I cittadini del Canton Ticino lavorano duramente, e non meritano che la loro condizione sia ignorata. Tantomeno meritano di essere il fanalino di coda della Svizzera. Meritano attenzione e serietà. E soluzioni.

La versione audio: Ticino: siamo sempre i più poveri
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In Ticino abitanti sempre più poveri

L’anno scorso siamo diventati tutti, o quasi, più poveri. Nessuno di noi aveva dubbi che il nostro potere di acquisto si fosse ridotto. Ma ora lo ha confermato anche la statistica. Nel 2022 i salari nominali dell’intera economia svizzera sono aumentati dello 0.9% rispetto all’anno precedente. Questa notizia dovrebbe renderci felici, se non fosse che l’aumento deve essere paragonato con la sua “effettiva” capacità di acquistare beni e servizi. Ed è qui che entra in gioco il tasso di inflazione, che misura l’andamento generale dei prezzi. Nel 2022 l’indice dei prezzi al consumo è aumentato del 2.8%. Questo significa che il nostro carrello della spesa, che nel 2021 costava 100 CHF, nel 2022 costa 102.80. Pazienza, penserete voi, tanto abbiamo avuto un aumento dei salari. Sì e no. In effetti l’aumento dei salari ci ha consentito di guadagnare 100.90 CHF; capiamo subito che l’aumento di stipendio non è sufficiente a compensare la crescita dei prezzi.

E in effetti, i salari reali hanno subito una riduzione dell’1.9%. Detta così sembra una riduzione piccola. E allora perché la nostra sensazione è di essere diventati molto più poveri?

Innanzitutto ricordiamo che l’indice dei prezzi al consumo misura l’andamento esclusivamente dei prezzi dei beni e dei servizi che sono consumati in maniera finale. Questo indicatore quindi non tiene conto ad esempio dell’andamento delle imposte o delle assicurazioni. E per fortuna che nel 2022 l’indice dei premi dell’assicurazione malattia aveva mostrato una riduzione dello 0.5%, fatto questo che ci aveva illusi e non ci aveva preparati alla stangata del 6.6% del 2023. L’indice dei prezzi al consumo non è un indicatore del costo della vita.

In aggiunta la statistica dice anche che non tutti i settori hanno registrato lo stesso andamento. Per esempio le persone che hanno lavorato per la chimica e la farmaceutica hanno visto aumentare il loro reddito in maniera reale dell’1.2%. Ma sono stati gli unici fortunati. L’industria delle materie plastiche ha visto ridurre i salari del 5%, quella dei prodotti elettronici e dell’orologeria del 3.4% e quello delle costruzioni del 2.4%.

Non è andata molto meglio al settore terziario, in cui nessuno ha registrato aumenti. Le perdite del potere d’acquisto variano dal 4.2% delle attività artistiche allo 0.1% delle assicurazioni.

Oltre a queste differenze, non possiamo dimenticare le differenze regionali. Sappiamo che in Ticino si guadagna tra il 16 e il 20% in meno del resto della Svizzera e non abbiamo ragioni di credere che in questa regione siano stati dati aumenti salariali migliori rispetto alle altre. Di conseguenza è abbastanza ragionevole supporre che, una volta di più, nel Cantone Ticino i suoi cittadini siano diventati ancora più poveri. E purtroppo temiamo che la prossima statistica confermerà questa realtà.

Pubblicato da L’Osservatore, 29.04.2023

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C’è lavoro ma non ci sono lavoratori. Che fare?

Il mercato del lavoro svizzero sembra scosso da inedite convulsioni. Secondo alcune stime a fine 2022 si registravano ben 120’000 posti di lavoro non occupati (i disoccupati in tutto il Paese, a titolo di paragone, sono circa 100’000). Numeri a prima vista impressionanti, cresciuti sulla scia della ripresa post pandemica.

I datori di lavoro denunciano gravi difficoltà nel reclutamento: è di due giorni fa l’intervento dell’Unione svizzera degli imprenditori (Usi) con la proposta di alcune piste per rimediare alla carenza di professionisti.

La grande richiesta di particolari profili professionali sta spingendo molti lavoratori di altri Paesi, come sempre accade in queste occasioni, a trasferirsi entro nei confini della Confederazione. Un’immigrazione con ritmi spettacolari che ha aggiunto in solo anno, nel 2022, oltre 70’000 nuovi abitanti al nostro Paese.

I media elvetici d’Oltralpe si interrogano sulla sostenibilità di questa distonia. È possibile per un Paese offrire “troppo” lavoro? Ne parliamo con un’esperta in materia, Amalia Mirante, economista e docente SUPSI.

La prima semplice domanda che sorge, alla luce di questi 120’000 posti di lavoro vacanti, è come faccia a funzionare un’economia se mancano così tante “braccia”?

Facciamo una premessa. È abbastanza tipico quando ci sono anche dei cambiamenti tecnologici, che in realtà possono diventare quasi strutturali, che sia necessario un periodo affinché l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro si aggiusti. I dati ci parlano in Svizzera di 5,4 milioni di posti di lavoro, quindi questi 120.000 posti vacanti rimangono ancora una fetta contenuta. Bisognerebbe guardare questa situazione avendo a mente un panorama più ampio. Stiamo passando attraverso i cambiamenti dettati dalla cosiddetta “rivoluzione industriale 4.0”, fatta di automatizzazione e digitalizzazione. Adesso, a parer mio, siamo nella coda di questa rivoluzione con l’entrata in scena dell’intelligenza artificiale. Questi grandi cambiamenti stanno modificando la stessa organizzazione del lavoro e gli stessi processi produttivi. Guardare solo le carenze odierne di posti di lavoro significa concentrarsi forse un po’ troppo sul breve termine, su quello che le aziende hanno bisogno in questo momento, ma il passaggio che stiamo vivendo è qualcosa di molto più grande.

All’economia mancano profili sufficientemente qualificati?

In realtà una bella fetta di posti di lavoro vacanti è nel settore del commercio, nella manutenzione degli autoveicoli, nel settore alberghiero e della ristorazione, e una fetta “storica”, nella sanità. Non tutti i posti vacanti sono automaticamente da attribuire a categorie che richiedono grandi competenze, grandi capacità, grandi studi.

Non riqualificare, ma amplificare le competenze

Si parla molto di mismatch (discrepanza tra domanda di lavoratori e competenze della forza lavoro). L’ente statale non dovrebbe impegnare maggiori attenzioni e risorse alla riqualificazione dei lavoratori?

Effettivamente l’intervento pubblico concertato con le imprese dovrebbe abituarsi ad anticipare i tempi, pensare a quello che sarà tra 10-15 anni il mercato del lavoro. Più di tutto vanno valorizzate le competenze che già ci sono. Io non parlo volentieri di riqualifica professionale perché secondo me ci sono già tante competenze settoriali che vanno ampliate, aggiornate, rese magari complementari a quelle che già ci sono. Un esempio. Nei supermercati sono entrate in scena le casse automatiche, va bene. Ma anche la varietà dei prodotti sta crescendo enormemente; nella sezione delle farine vi sono 18 tipi di prodotti diversi con prezzi diversi: più che cassieri oggi necessitiamo di consulenti alla vendita a tutto tondo. Si tratta cioè di adattare le competenze già presenti nei professionisti di oggi a un contesto con sempre maggiore digitalizzazione e automazione, e abbiamo il tempo per farlo.

L’abitudine di procurarsi la forza lavoro dall’estero intanto mostra qualche limite. La concorrenza in Europa non manca, ed importare manodopera comincia a farsi difficile per alcune professioni.

Non siamo un’isola, anche gli altri Paesi iniziano riscontrare i medesimi fenomeni di carenza. Attingere alla migrazione genera anche tensioni. Di certo nel resto del Paese, nella Svizzera tedesca, la pressione generata è molto minore rispetto alla Svizzera italiana. Per esempio, in alcuni luoghi, il differenziale salariale è addirittura a favore dei frontalieri rispetto ai residenti.

Il ricorso alla manodopera estera rimane però un po’ nel DNA svizzero. Potremmo provare almeno a dare maggiore importanza e investire di più nell’ammodernamento e nel potenziamento della formazione professionale. Soprattutto in Ticino questo è un settore nel quale purtroppo negli ultimi anni non si è riusciti a investire abbastanza. Occorrerebbe far fronte alla richiesta che arriva dal mondo professionale di figure specializzate in ambito industriale. Bisogna valorizzare di più la Formazione professionale.

I desideri degli imprenditori e quelli dei lavoratori

Secondo gli imprenditori svizzeri bisognerebbe lavorare più ore, più a lungo, tutti.

Da una parte si denuncia la mancanza di personale qualificato in alcuni settori. In contemporanea si chiede che questo personale altamente qualificato vada a lavorare, se mi è permesso, secondo le condizioni di cinquant’anni fa. Si pensi all’idea della pensione a 70 anni. Giusto invece consentire alle persone di poter lavorare anche dopo l’età “legale” del pensionamento: questa tendenza deve essere aiutata e non penalizzata. Però da qui a farne un obbligo ce ne passa.

Le richieste degli imprenditori si scontrano con quello che appare essere il desiderio proprio della parte più qualificata e, dunque, più ricercata della forza lavoro: lavorare, se possibile, a tempo parziale. Intuitivamente la concorrenza ad accaparrarsi i lavoratori dovrebbe spingere verso un miglioramento delle condizioni che si offrono.

Questo lo hanno capito le grandi aziende, le quali hanno già cominciato a offrire tutta una serie di benefit. Stanno cominciando a cambiare le condizioni quadro dei loro posti di lavoro perché si sono rese conto che effettivamente le persone più qualificate, più competenti, che possono portare un beneficio alle aziende oggi non chiedono a volte il salario più alto, che in quelle posizioni lavorative non è tanto ciò che fa la differenza tra un’azienda e un’altra. Ciò che chiedono è per esempio la possibilità di avere dei congedi parentali, come offrono già alcune grandi banche o le grandi catene di distribuzione. Le stesse grandi imprese stanno introducendo anche per i padri la possibilità di lavorare a tempo parziale, anche in posizioni quadro. Oppure pagano l’abbonamento in palestra, o corsi formativi anche fuori dall’ambito professionale, eccetera… Questa non è una novità, poiché sovente nella storia sono stati addirittura gli imprenditori e gli industriali a migliorare le condizioni del lavoro. Certo per i piccoli e medi imprenditori il discorso è un po’ differente, però anche lì si fanno tentativi. Offrendo modelli come il lavoro a distanza e la settimana corta di quattro giorni.

Riguardo al settore delle piccole-medie imprese si parla un po’, tra gli analisti d’Oltralpe, della persistenza di aziende cosiddette “zombie”, ovvero che sopravvivono un po’ sull’onda lunga degli aiuti dati negli ultimi anni dallo Stato, e che gonfiano così il mercato del lavoro.

Per le piccole e medie imprese credo che il colpo relativo alla crisi Covid sia stato duro e pesante. Adesso le stesse aziende devono confrontarsi con un insieme di costi cresciuti in maniera importante. Sicuramente ci sono state realtà tenute “in piedi” in maniera un po’ artificiale, ma non si poteva fare altrimenti. Oggi vediamo che il numero di aziende che dichiarano fallimento sta lentamente aumentando, quindi c’è indubbiamente uno strascico in questo senso .

Intervista da Il Federalista

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PMI: Sorpresa amara nell’uovo di Pasqua

Le piccole e medie imprese (PMI) hanno trovato una sorpresa spiacevole nell’uovo di Pasqua: il Consiglio Federale alza i tassi di interesse sui crediti COVID-19, a un livello compreso tra l’1.5% e il 2%. Le condizioni economiche sono mutate in questo periodo ma ciò non giustifica pienamente questa scelta, che potrebbe causare problemi aggiuntivi alle PMI, in particolare nel Cantone Ticino.

Il governo federale giustifica la scelta essenzialmente in tre modi. Primo: mantenere bassi i tassi di interesse causerebbe una distorsione del mercato, favorendo le aziende che si sono indebitate nel 2020 rispetto a quelle attuali. È un’argomentazione debole: i crediti COVID-19 sono stati erogati in un momento emergenziale globale per fornire liquidità alle aziende durante il lockdown. Ciò rende inappropriati i confronti con la situazione attuale. Sarebbe come dire che chi ha bloccato un’ipoteca ad un tasso fisso basso oggi debba pagare di più.
La seconda giustificazione è più stravagante e anche un po’ paternalista. A detta del Consiglio Federale mantenere bassi tassi di interesse incentiverebbe le aziende a prolungare il proprio indebitamento. Anche in questo caso forse il Consiglio Federale dimentica che proprio per evitare problemi aggiuntivi legati alla restituzione del credito, allora erano stati decisi tempi piuttosto comodi.

Infine, il Consiglio Federale cita la necessità di coprire i costi di gestione delle banche. Questa motivazione appare alquanto inopportuna, almeno a livello di tempistiche, alla luce del recente mega intervento a favore di UBS nella vicenda del Credit Suisse.

Siamo consapevoli che l’inflazione ha determinato l’aumento dei tassi di interesse, ma perché il Consiglio Federale non ha posticipato di un anno questa decisione, soprattutto considerando gli incrementi dei costi che le aziende devono affrontare, come quelli energetici, degli affitti e dei tassi di interesse sui crediti ipotecari?

La situazione è ancora più difficile per le aziende nel Cantone Ticino. Nel 2020 sono stati attivati oltre 12.500 crediti Covid-19 (9.1% del totale nazionale) per un totale di 1,4 miliardi di franchi (8.1% del totale). E questo non perché in Ticino siamo meno bravi a fare azienda ma perché le condizioni strutturali e concorrenziali sono diverse rispetto al resto della Svizzera. E a suo tempo lo era stata anche l’incidenza del Covid.

In tutto questo cosa fa la politica? Tace, almeno per ora. Nessuno che ha sollevato quesiti, critiche o anche solo perplessità per questa decisione. Ciò fa sorgere il dubbio, giustificato, che delle piccole e medie imprese molti politici si preoccupino solo in periodo di campagna elettorale. Purtroppo, i problemi e le sfide che le PMI devono affrontare non vanno in pausa per quattro anni, attendendo che la politica torni a occuparsi di loro.

La versione audio: PMI: Sorpresa amara nell’uovo di Pasqua
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L’indebitamento record delle famiglie: «Confermate le difficoltà finanziare dei ticinesi»

LUGANO – Ticinesi sempre più indebitati. Tra il 2019 e il 2022 è infatti esploso il numero di prestiti al consumo, a segnare una crescita che è la più alta in tutta la Svizzera: +400% (fonte MultiCredit). Dato che si inserisce in un quadro nazionale di corsa al prestito: +19% durante lo scorso anno, rispetto al 2019.Dunque sempre più famiglie e persone in Ticino chiedono di ritardare o dilazionare i pagamenti, che sia per un elettrodomestico nuovo piuttosto che per l’auto, per una vacanza o per l’istruzione dei figli. E nel periodo preso in esame 2019-2022, a livello nazionale è il 2020 ad aver fatto registrare il picco della necessità di fare debito (+31% di prestiti rispetto al 2019) mentre a livello cantonale è il 2022 l’anno nel quale il valore dell’importo medio per prestito ha raggiunto il suo massimo 31’457 Chf (+14% rispetto all’anno precedente).
Ci chiediamo se la crescita record dei prestiti al consumo possa essere motivato solo dalla crisi pandemica passata. E lo facciamo con Amalia Mirante, economista e docente universitaria.

«Una relazione con la pandemia può esserci – spiega neo eletta al Gran Consiglio – In effetti, non dimentichiamo che molte persone, seppur supportate dalle misure messe in atto dalla Confederazione, come le indennità per orario ridotto o i prestiti Covid, hanno visto il loro reddito ridursi. Questo è accaduto alle persone dipendenti, ai lavoratori indipendenti, ma anche agli imprenditori. In questo senso potrebbe esserci un legame con l’aumento del prestito al consumo, ma probabilmente le ragioni di fondo sono da ricercare altrove».

Dove?

«Il Cantone Ticino mostra da sempre tassi di povertà, difficoltà finanziarie, ritardi nei pagamenti, numero di esecuzioni e fallimenti, dati relativi alla deprivazione materiale, indicatore che mostra difficoltà finanziarie nel possedere beni di consumo durevoli, maggiori rispetto agli altri Cantoni. Certamente possiamo cercare dati socio-demografici come la formazione, l’età, la nazionalità, che ci spiegano questa situazione, ma la causa primaria è sempre da ricercare, purtroppo, nei bassi salari che sono versati in Ticino rispetto al resto della Confederazione».
Se a sud del Gottardo sempre più spesso si dilazionano o ritardano i pagamenti, va specificato che il credito medio richiesto dalle famiglie ticinesi nel triennio 2019-2022 (28’183 franchi) è di valore inferiore (-28%) rispetto alla cifra media richiesta all’interno della Confederazione (39.025 Chf), che ha nei cantoni di Zugo (68.632 franchi), Ginevra (56,572 Chf) e Basilea Città (55,115 Chf) gli importi più onerosi. Questo dato è spiegabile solo con un differente costo della vita o c’è dell’altro?

«In realtà il costo della vita non è così alto da giustificare differenze così rilevanti. Quello che possiamo supporre è che ci sia una differenza sostanziale nel tipo di beni e servizi per i quali si accede al prestito al consumo. Potremmo supporre che in Ticino il prestito sia utilizzato per beni che potremmo definire di uso più comune rispetto ad altri Cantoni o comunque di minor costo. In aggiunta, non dimentichiamo che l’importo del credito dipende dalle possibilità finanziarie, che come detto poc’anzi, sono inferiori in Ticino».

Va però sottolineato che la cifra media richiesta a credito, nel nostro Cantone dal 2019 è andata sempre aumentando negli anni e ha raggiunto il suo picco nel 2021 (31’457Chf, +14% sull’anno precedente) dopo gli step intermedi del 2019 (24’559 Chf; +8%) e 2020 (27’543 Chf; +12%). Come spiegarsi questa continua crescita?

«La ragione che ritengo possa giustificare la crescita degli importi, a mio modo di vedere, è da ricercare sempre nei salari più bassi. L’aumento del costo della vita in Ticino è sempre più importante. E a fronte di questi aumenti, gli stipendi stagnano. Questo implica che si diventa sempre più poveri. Pensiamo a quanto incidono per esempio gli aumenti dei premi cassa malati o in questo momento gli aumenti degli affitti e delle spese legate all’energia».

Intervista tratta da Tio del 13.04.2023

Fonte: Tio
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L’inflazione rallenta

L’inflazione sta decisamente rallentando la sua corsa. I dati dei principali paesi europei confermano che il calo è dovuto principalmente alla riduzione dei prezzi energetici. E questa è sicuramente una buona notizia. In effetti abbiamo visto i prezzi al consumo in marzo confermarsi in Spagna al 3.3% (dal 6% del mese precedente), in Italia al 7.7% (da 9.2% precedente), in Francia al 5.6% (dal 6.3%), in Germania al 7.4% (dall’8.7%) e in generale nella zona Euro al 6.9% (dall’8.5%). Anche la Svizzera non ha fatto eccezione. Così qualche giorno fa l’ufficio federale di statistica ha comunicato che l’aumento annuale nel mese di marzo è stato del 2.9%, mentre su base mensile i prezzi sono cresciuti solo dello 0.2%. La riduzione anche in questo caso è causata principalmente dai prezzi dei prodotti petroliferi e di quelli energetici in generale

Ancora non possiamo gioire della fine dell’inflazione, anche se in alcuni casi, come in Italia, l’inflazione è scesa al suo livello più basso dal maggio dell’anno scorso. Quello che si nota è che se si registra una riduzione per i prezzi dei prodotti energetici, lo stesso non può dirsi per i prezzi legati ai beni di consumo di tutti i giorni. Per esempio in Italia il prezzo del carrello della spesa aumenta ancora in marzo del 12.7%; questo dato è superiore di ben cinque punti percentuale rispetto al tasso di inflazione.

Ma questa riduzione dei prezzi è davvero imputabile alle scelte delle banche centrali di aumentare i tassi di interesse? Sappiamo che la politica monetaria ha dei ritardi temporali nella spesa e nella produzione. Questo significa che i consumatori e i produttori modificheranno il loro comportamento con un certo ritardo rispetto alla decisione di aumentare i tassi di interesse. Ancora più in ritardo saranno gli effetti finali su produzione e occupazione. I ritardi teorici possono andare dai 6 mesi ai 24 mesi. Insomma, non abbiamo certezza che siano state le politiche monetarie a frenare la domanda di consumatori e imprese e quindi a contenere l’aumento dei prezzi. Al momento pare che siano state piuttosto le condizioni meteorologiche favorevoli a impattare sulla domanda di prodotti energetici, quindi sui loro prezzi e di riflesso sull’abbassamento dell’inflazione.
D’altra parte sembrerebbe che anche le possibili conseguenze negative sulla crescita economica di un aumento dei tassi di interesse per il momento siano contenute.
Quindi, finora le banche centrali sembrano aver fatto scelte positive. Speriamo vadano avanti in questa direzione.

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UBS-CS: Non c’era più tempo ma è stato un duro colpo

Un altro duro colpo è stato inflitto alla reputazione della Svizzera. La fine di Credit Suisse è una batosta per tutti. E ai nostri occhi tornano le immagini degli aerei di Swissair rimasti a terra senza carburante o quelle del 2008 quando lo Stato salvò UBS.
Inutile fare gli sciacalli su questa decisione sofferta quanto obbligata. Inutile puntare il dito e sollevare questioni che nulla hanno a che fare con il sistema finanziario e monetario nazionale e internazionale e con la sua regolamentazione. Non ora, non in questo momento. Adesso quello che dobbiamo augurarci tutti è che l’acquisizione da parte di UBS avvenga causando il minor danno possibile. Ci auguriamo che non sarà necessario ricorrere alla garanzia dello Stato. Come ci auguriamo che a pagare ancora il prezzo di un sistema finanziario che sfugge oramai a qualunque controllo non siano i collaboratori e le collaboratrici di entrambe le banche.
Poteva fare qualcosa di diverso il Consiglio Federale? Certo, avrebbe potuto in passato esercitare pressioni per spingere allo scorporo della parte di Credit Suisse svizzera rispetto alle attività di investimento disastrose a livello internazionale. Sono anni che anche noi evidenziamo gli errori e gli scandali: Wirecard, Archegos Capital Management, Greensill Capital, multe in tantissime nazioni per storie di corruzione e investimenti in aziende che violano i diritti umani, pessime scelte strategiche e operative. Ma non viviamo in regimi totalitari, per fortuna, che possono intervenire sulla proprietà privata. Certo, la politica avrebbe potuto pensare a regolamentazioni più severe per le responsabilità dirigenziali. O ancora avrebbe potuto chiedere maggiori controlli alla FINMA. Ma con i se e con i ma, non si sarebbe data risposta alla crisi di Credit Suisse.
Le strade possibili sul tavolo del Consiglio Federale erano tre: far fallire Credit Suisse, pensare di acquistarla o sostenere caldamente l’acquisizione di UBS.
La prima ipotesi avrebbe causato un durissimo colpo all’economia nazionale e alla stabilità del nostro sistema finanziario: altre banche avrebbero rischiato il fallimento travolgendo aziende e famiglie. La crisi avrebbe toccato tutti noi. E non solo. Altre nazioni, data l’internazionalità di Credit Suisse, avrebbero pagato lo stesso prezzo. Questo ce lo ha insegnato il fallimento di Lehman Brothers.
L’acquisto da parte della Confederazione e quindi la nazionalizzazione avrebbe portato il Consiglio Federale a occuparsi di compiti che non gli competono.
Infine, l’unica via praticabile: sostenere e magari anche forzare l’acquisizione da parte di UBS. Il Consiglio Federale avrebbe potuto invitare all’acquisizione anche altre banche oltre UBS? Forse, ma ci sarebbe voluto tempo, e di tempo, il Credit Suisse, non ne aveva più.

Tratto dal Corriere del Ticino 21.03.2023

La versione audio: UBS-CS: Non c’era più tempo ma è stato un duro colpo
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Che tempo farà quest’anno? Ecco le previsioni economiche

Puntuali come il fiorire della magnolia, arrivano le previsioni della Segreteria di Stato dell’economia (SECO). L’entusiasmo di qualche mese fa sembra purtroppo essersi attenuato. Nonostante la crisi COVID non sia ricominciata e nonostante in Europa non si sia verificata la carenza di energia tanto prospettata e temuta, le cose non sembrano andare troppo bene e non sembra che andranno troppo bene nemmeno da qui alla fine dell’anno.
Il prodotto interno lordo (PIL) crescerà solo dell’1,1%. Certo, siamo contenti di non essere in una situazione negativa come quella prevista per il Regno Unito che vede addirittura una crescita negativa del -0,3%, ma sicuramente avremmo preferito un tasso di crescita più alto. Ricordiamo che il prodotto interno lordo deve crescere tecnicamente per poter compensare l’aumento della popolazione e l’aumento del progresso tecnologico. Questo significa che affinché tutte le persone siano occupate come nel periodo precedente, il PIL deve garantire lavoro per tutti.

Entrando nel dettaglio vediamo che ancora una volta saranno i consumi privati a garantire una certa stabilità: il tasso di crescita sarà dell’1,5%. Ricordiamo che i consumi delle famiglie rappresentano la fetta più importante (almeno la metà) dell’intera produzione nazionale.

La spesa pubblica, al contrario, proseguirà la sua riduzione già cominciata l’anno scorso. Nel 2023 dovrebbe scendere del -0,6% e addirittura del -1,8% nel 2024.

Il settore degli investimenti denota due andamenti contrapposti: da una parte gli investimenti in costruzione che vanno avanti a confermare il loro periodo negativo (-1.3%), dall’altra gli investimenti in beni di equipaggiamento che mostrano una crescita positiva dell’1,7%. Sicuramente non siamo felici che il settore delle costruzioni continui la sua discesa, ma sarebbe ancora più grave se a scendere fossero gli investimenti in macchinari: questo significherebbe che gli imprenditori sono pessimisti e che quindi l’intera economia potrebbe entrare in una fase recessiva.

Nonostante le difficoltà estere, le esportazioni e le importazioni sia di beni che di servizi sembrano mantenere tassi positivi.

Tutto questo si concretizzerà con una creazione positiva di posti di lavoro in equivalenti a tempo pieno, tale da garantire un tasso di disoccupazione che dovrebbe attestarsi al 2%. Sul fronte dei prezzi, invece, il 2023 dovrebbe chiudersi con un tasso di inflazione del 2,4%, in riduzione rispetto al 2,8% del 2022.

Riassumendo quindi da questo 2023 possiamo attenderci, nella migliore delle ipotesi, una certa stabilità. E vista l’aria che tira in altre nazioni, meglio non lamentarci.

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8 marzo: perché?

È appena passato l’8 marzo, giornata internazionale della donna. Ancora oggi si discute molto se questa giornata debba essere celebrata oppure se proprio in nome della parità dovrebbe essere abolita. Personalmente ritengo sia molto importante dedicare alla parità di genere una giornata che consenta concretamente di attirare l’attenzione su quello che ancora oggi c’è da fare.

Sappiamo che anche se sono stati fatti tanti passi in avanti, ancora la parità non può dirsi pienamente raggiunta. Certo, le donne sono formate, qualificate e competenti al pari degli uomini. Eppure ancora faticano a ottenere lo stesso riconoscimento dei loro colleghi. Quando guardiamo i salari, ma anche quando guardiamo alle posizioni professionali ricoperte dobbiamo scontrarci con una differenza importante che spesso non è giustificabile.

Naturalmente ben vengano tutte le misure possibili da attuare per superare questa ingiustizia. Tra queste rientrano le misure legali, i controlli, gli incentivi, le nuove misure per la conciliabilità tra lavoro e famiglia. Proprio in quest’ultimo caso ricordiamoci quanto questa misura non sia solo a sostegno della parità, ma quanto vada a sostegno della società tutta: i genitori che possono occuparsi dei figli sono sicuramente un arricchimento educativo.

Tra le misure che si studiano oggi a livello economico rientrano anche i correttivi ai bias in cui cadiamo in maniera inconsapevole, sia uomini che donne. Tra questi per esempio c’è la tendenza ad attribuire a un genere delle specifiche caratteristiche e quindi a privilegiarlo per determinati ruoli. Concretamente quello che succede è che se noi cerchiamo una persona che ricopra un ruolo dirigenziale, tenderemo ad associare agli uomini tratti caratteriali come la capacità di decidere, la fermezza, la sicurezza. Tutte doti queste associate a ruolo di leader. Alle donne invece attribuiremo caratteristiche come l’accoglienza, la sensibilità, la comprensione. Doti queste che non per forza risultano vincenti nella leadership.

A sostegno di questi studi citiamo sempre il caso delle orchestre: la percentuale di donne che riusciva ad accedere al palco era notevolmente inferiore a quella che si presentava alle audizioni. Dal momento che si è deciso di far svolgere le audizioni in maniera anonima e nascosti dal sipario, la quantità di donne scelte è aumentata notevolmente.

Questo per dire cosa? Che tutti noi possiamo essere vittime di stereotipi inconsci. Ciò che è importante oggi è riconoscere di poter cadere in tranelli e soprattutto attuare soluzioni affinché ciò non accada più.

La versione audio: 8 marzo: perché?
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Svizzera: le cose sono andate bene, ma non benissimo…

L’economia svizzera non ha chiuso troppo bene il 2022. Qualche giorno fa la Segreteria di Stato dell’Economia (SECO) ha pubblicato i dati relativi all’andamento del prodotto interno lordo (PIL) svizzero nel quarto trimestre del 2022, ossia del periodo che va da ottobre a dicembre. Il PIL, che ricordiamo è il valore dei beni e dei servizi prodotti all’interno della Svizzera, non è né cresciuto né si è ridotto. Certo non sono buonissime notizie, ma almeno non abbiamo visto un calo.
In effetti, la situazione internazionale avrebbe potuto giocare un ruolo ancora più importante per il nostro paese che grazie al commercio con l’estero garantisce il 12% circa del nostro prodotto interno lordo (altrimenti detto del nostro benessere economico). La conseguenza è chiara: se le cose vanno male nel resto del mondo, i cittadini e le aziende non compreranno i nostri prodotti e quindi ne risentiranno anche le nostre industrie. I dati sono chiari: le esportazioni di beni si sono ridotte dell’1.7%, mentre quelle di servizi sono leggermente aumentate. Ma i dati ci dicono altro. Essendo noi un paese che non ha grandi materie prime per produrre i beni finali, dobbiamo importare queste e i semilavorati dall’estero. Anche in questo caso c’è stata una riduzione dell’1.5% rispetto al trimestre precedente.

Ma non finisce qui. I dati ci dicono anche che il settore dell’industria, quello delle costruzioni, ma anche quello dei servizi legati alla finanza e delle assicurazioni mostrano una certa riduzione. Tengono ma senza risultati eccezionali il settore del commercio, quello dei servizi alle imprese e l’amministrazione pubblica. Notiamo che il settore relativo al turismo e in particolare all’alloggio e alla ristorazione è quello che va meglio con un aumento dell’1.5% rispetto al trimestre precedente. Aumento che tuttavia non ci porta ancora al livello pre Covid-19.

Ma allora com’è possibile che se le esportazioni sono andate male, il prodotto interno lordo svizzero è rimasto stabile? Ad alimentare questo risultato ci pensano le famiglie, l’amministrazione pubblica e le aziende. Il consumo delle famiglie e quello della Stato mostrano una leggera crescita dello 0.3%. Un buon risultato si segnala negli investimenti in beni di equipaggiamento, +1.7%. La crescita dei beni di equipaggiamento è un buon risultato, perché significa che i nostri imprenditori investono in macchinari. Meno bene sono andati gli investimenti in costruzione che per ancora un altro trimestre mostrano una riduzione.

E che succederà in futuro? Attendiamo le previsioni degli esperti, ma per quanto ci riguarda almeno nel Canton Ticino la situazione non sembra così florida: commerci, industria, ma anche servizi finanziari sembrano pessimisti. Speriamo di sbagliarci.

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Frontalieri: perché il problema è peggio di quanto pensate

Tra ottobre e dicembre 2022 c’erano quasi 78’000 frontalieri in Ticino: una crescita di oltre 3’000 unità rispetto a un anno fa. La differenza con la situazione di dieci anni fa è impressionante: nel 2012 c’erano 21’000 frontalieri in meno!
In un cantone che si spopola e invecchia un posto di lavoro su tre, il 33%, va a persone che non vivono qui.
Ma le cifre ci dicono altro: e sono fatti ancora più preoccupanti.
Dieci anni fa il 43% dei frontalieri lavorava nel settore secondario (l’industria e l’edilizia, per intenderci). Ora questa fetta è scesa al 32%. Visto che ancora oggi quasi un quarto del nostro PIL, oltre 7 miliardi di franchi, continua a dipendere da questo settore, evidentemente questa diminuzione non può essere spiegata con il fatto che oggi siamo più Silicon Valley che Valle della Ruhr.
Se la quota di frontalieri scende nell’industria e nell’edilizia, è perché aumenta nel settore terziario, quello dei servizi. Infatti qui si passa dal 56% al 67%.
I cambiamenti maggiori riguardano le professioni legate alla attività legali e contabili, quelle degli studi di ingegneria e architettura, le attività di consulenza alle aziende, le attività di design specializzate, ecc. In queste professioni qualificate c’è stato un aumento dei frontalieri di due volte e mezzo, da 3’600 persone alle oltre 9’300.
Se non fosse una cosa grave per chi vive qui, ci verrebbe da sorridere guardando all’incremento dei frontalieri nelle attività di ricerca, selezione e fornitura di personale per le aziende (sic!), passati in 10 anni da 2’700 persone a 4’100.
Le conclusioni? Sono principalmente tre.
La prima: è falso che i frontalieri facciano “i lavori che i ticinesi non vogliono fare”. I ticinesi quei lavori li farebbero eccome. Semplicemente, non POSSONO, perché le paghe sono lombarde e non svizzere. Sono, cioè, stipendi per assumere frontalieri e non residenti.
Secondo: la formazione di per sé non è sufficiente per permettere ai lavoratori residenti di “vincere” la competizione con i frontalieri. I frontalieri non sono meno qualificati. Sono però meno costosi. Addirittura in parecchi casi i frontalieri selezionano frontalieri anche in ambiti pubblici, di ricerca o formativi. I nostri giovani qualificati e iper-qualificati emigrano a nord mentre i frontalieri, con qualifiche analoghe, arrivano da noi. La formazione è importante, ma, confrontata con la pressione al ribasso sui salari, non è sufficiente.
Infine, mentre destra e sinistra litigavano e fingevano di occuparsi del problema, in maniera poco sorprendente il problema si è aggravato. La politica sta deludendo attese e speranze dei lavoratori residenti.

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Le previsioni per il Ticino

Quali sono le prospettive per il nuovo anno dell’economia del Canton Ticino? Andiamo a dare un’occhiata ai diversi settori.

Il settore industriale dopo aver concluso un 2022 meglio del previsto adesso sembra un po’ più pessimista: gli imprenditori giudicano il volume degli ordini come insufficiente e la situazione è peggiorata soprattutto tra le aziende che si rivolgono al mercato estero. Anche le prospettive per i prossimi mesi non sono troppo favorevoli.

Il settore delle costruzioni mostra un andamento differenziato rispetto alle sue specializzazioni. Nel caso dell’edilizia principale si nota un certo peggioramento mentre sembrerebbe andar meglio l’edilizia accessoria (come le attività legate ai lavori di installazione) e quella del genio civile. In effetti, anche in questo caso le previsioni per i prossimi tre mesi sono piuttosto rosee per questi due settori, mentre sono più negative per il settore delle costruzioni.

E passiamo al settore del commercio al dettaglio. In questo caso i commercianti si sono dichiarati abbastanza soddisfatti dell’andamento degli affari degli ultimi tre mesi e sono diminuiti gli insoddisfatti. In questo caso sia i piccoli che medi commercianti hanno visto un miglioramento. Per quanto riguarda le prospettive dei prossimi mesi c’è un po’ più di pessimismo, soprattutto per i piccoli commercianti che dichiarano previsioni più negative.

E chiudiamo la nostra carrellata con uno sguardo al settore bancario. Anche in questo caso negli ultimi tre mesi si registra un miglioramento nella valutazione della situazione degli affari, sia per quanto riguarda la clientela nazionale che per quanto concerne la clientela estera. Anche le prospettive dei prossimi mesi sono piuttosto positive, nonostante si segnala la possibilità di ridimensionamenti sul fronte occupazionale.

Insomma, guardando ai principali settori economici del Cantone Ticino le prospettive non appaiono troppo negative, anzi potremmo parlare di una certa stabilità. Naturalmente tutto dipenderà dall’evoluzione dell’economia europea e mondiale, essendo noi come tutti strettamente interdipendenti. Anche in questo caso, però le previsioni appaiono incoraggianti, con un’inflazione che sembra essere sempre più sulla via del rientro. Naturalmente ci vorrà ancora un po’ di tempo, ma se saremo in grado di bilanciare gli effetti negativi delle politiche monetarie, potremmo sperare in un nuovo periodo di crescita e benessere.

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Credit Suisse perde, UBS vince

Credit Suisse non naviga in buone acque. E questa non è una novità. Ci siamo occupati della gestione della seconda banca svizzera diverse volte in questi anni. E purtroppo sempre per parlare di errori nella sua strategia.

Dagli investimenti di Wirecard, Greensill Capital, Archegos Capital Managment agli scandali legati alla corruzione, per passare dai pedinamenti. Insomma, una cosa è certa: i dirigenti che si sono alternati alla conduzione della grande banca non hanno certo brillato per visione strategica. Il risultato non ha tardato ad arrivare e si è consolidato in una perdita nel 2022 di 7.3 miliardi di franchi. È dalla crisi del 2008 che non si registrava una situazione così grave e drammatica.

A detta degli analisti il risultato era abbastanza prevedibile; meno immaginabile il fatto che molti clienti avrebbero abbandonato la banca. A noi, in realtà non pare così strano. Certo, la FINMA che è l’autorità di vigilanza indipendente del mercato finanziario svizzero, ha da sempre giudicato la situazione della banca come stabile e solvibile. Ma questo non basta.

Le dichiarazioni di importanti ristrutturazioni che si traducono in migliaia di licenziamenti difficilmente potevano essere lette come sintomo di grande salute. Il crollo del valore delle azioni, che ricordiamo in dicembre sono arrivate al minimo storico di 2.65 franchi (nel maggio del 2007 prima della grande crisi finanziaria valevano oltre 80 franchi), non poteva lasciare indifferenti i clienti. Clienti che giustamente si preoccupano dei loro averi e per quanto possano essere stati legati a una banca, hanno deciso di spostare i loro fondi.

Non contenti di quanto accaduto leggiamo anche una indiscrezione del Financial Times che parla di un bonus di 350 milioni di franchi per 500 manager nel caso in cui riescano a realizzare la grande ristrutturazione prevista per risanare l’istituto bancario. Ora nessuno meglio di noi sa che le scelte per sanare gli errori della dirigenza precedente saranno molto dolorose: oltre 9’000 persone perderanno il loro posto di lavoro. I clienti se ne stanno già andando. Ci domandiamo, ma davvero si vuole dare ancora uno schiaffo del genere all’immagine di questa gloriosa banca proponendo questo genere di premio fatto sulle spalle di migliaia di collaboratori? A loro la nostra massima solidarietà.

Nel frattempo, forse perché agli dei piace giocare con gli uomini, UBS, la più grande banca svizzera, ha annunciato un utile netto di 7.6 miliardi di dollari, il più alto da 16 anni ad oggi…

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“Tesoro mi si sono allargati i ragazzi”. La Coca Cola cresce e torna al mezzo litro

In questi mesi si è parlato molto dell’inflazione che si vede. In alcuni Paesi l’aumento generalizzato dei prezzi ha raggiungo persino variazioni del 10% rispetto all’anno scorso. Fortunatamente i dati degli ultimi mesi confermano se non un ritorno ai prezzi precedenti, quanto meno un rallentamento degli aumenti. Oggi però noi prendiamo spunto da una notizia di attualità per tornare su un tema particolare. La Shrinkflation. La Shrinkflation è un’inflazione nascosta e che decidono i produttori: riducendo gli imballaggi o la quantità di prodotti venduti, senza ridurne il costo per l’acquirente, di fatto causano un aumento dei prezzi.
Questo succede perché di solito i produttori conoscono il concetto dell’elasticità che misura la sensibilità della quantità di un bene acquistato rispetto alla variazione di un’altra variabile che può essere il prezzo, il reddito, il prezzo di un bene che si consuma insieme ad un altro,… in parole povere si è in grado di capire se le persone ridurranno l’acquisto del bene al variare del suo prezzo. Saremmo tutti tentati di dire che è chiaro che all’aumentare del prezzo la quantità diminuisce, ma non è così per tutti i beni. Per esempio se il prezzo dei farmaci di cui abbiamo bisogno per sopravvivere, come può essere l’insulina, aumenta, noi non riduciamo il consumo. Ma lo stesso succede con i generi alimentari di prima necessità o con la benzina. Al contrario, esistono beni che sono molto più sensibili al prezzo, per esempio le bevande gassate. È per questa ragione che di solito si riduce il contenuto, ma non si aumenta visibilmente il prezzo.
Nel nostro articolo del 10 marzo del 2021 intitolato “Tesoro mi si sono ristretti i prodotti. Le confezioni si rimpiccioliscono, i prezzi no” parlavamo del caso di Coca Cola. Allora in Svizzera era stata introdotta da circa due anni una bottiglietta di questa bevanda zuccherata rimpicciolita rispetto alla grandezza standard, ma con lo stesso prezzo di quella precedente. Abbiamo quindi comperato una bottiglietta di Coca Cola da 450 millilitri, pagandola come quella di 500 millilitri. Sicuramente è stata una buona cosa per la nostra salute, data la grande quantità di zuccheri presenti in questa bevanda, non per il nostro portafoglio.
Ora leggiamo che Coca Cola Svizzera ha deciso di fare un passo indietro e tornare al formato da mezzo litro. Non sappiamo ancora se ne aumenterà il prezzo, ma possiamo intuire che alcune ragioni abbiano spinto l’azienda a fare un passo indietro. Sicuramente la piccola dimensione del mercato svizzero ha giocato un ruolo, come anche il fatto che negli stessi supermercati si poteva trovare per lo stesso prezzo la Coca Cola “svizzera” da 450 millilitri accanto alla Coca Cola “tedesca” da 500 millilitri. Probabilmente anche il rapporto con i fornitori può aver avuto un peso. Essi producevano un prodotto specifico, la bottiglietta da 450 millilitri, solo per un cliente e quindi potevano avere una forza contrattuale maggiore.
Insomma, non sappiamo per quali ragioni vere Coca Cola abbia fatto un passo indietro. Speriamo solo che con la scusa dell’aumento generalizzato dei prezzi, non sia l’occasione per vederne raddoppiare anche il suo.

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Debito pubblico fuori controllo?

Il tema delle finanze pubbliche in particolare del debito è tornato di estrema attualità. Dal quasi fallimento tecnico degli Stati Uniti al Canton Ticino il soggetto è lo stesso.
Il 19 gennaio il Dipartimento del Tesoro americano è dovuto intervenire con delle misure speciali per poter garantire la spesa pubblica. Questo è accaduto perché proprio quel giorno il paese ha raggiunto il tetto massimo di 31.400 miliardi di dollari (29.000 miliardi di franchi) che il Congresso aveva fissato. Spieghiamo che negli Stati Uniti il sistema è un po’ diverso rispetto al nostro. Il Congresso fissa annualmente un limite al debito pubblico, limite oltre il quale non è più possibile emettere le obbligazioni di Stato. Le obbligazioni di Stato sono semplicemente dei prestiti che lo Stato chiede a cittadini, banche, imprese che vogliono sottoscriverli offrendo in cambio un tasso di interesse. Ora, il 19 gennaio 2023 questo limite è stato raggiunto e questo significa l’impossibilità di chiedere ulteriori prestiti. La politica dovrà trovare un accordo per aumentare nuovamente il tetto senza dimenticare tuttavia misure o di contenimento della spesa o di aumento delle entrate.
Il caso del Canton Ticino è un po’ diverso: l’allarme è scattato non tanto perché si sia raggiunto un tetto massimo al debito, quanto piuttosto perché il preventivo per l’anno 2023 votato dal parlamento risulta oggi, dopo nemmeno un mese dall’inizio dell’anno, già non realistico. Il bilancio dello Stato è fatto come quello di qualunque famiglia. Ci sono delle entrate e ci sono delle uscite. Nel caso del Canton Ticino è stato commesso un grave errore: tra le entrate dello Stato sono stati contabilizzati quasi 140 milioni di franchi che avrebbe versato la Banca Nazionale (BNS). Ci permettiamo di definire questo errore come grossolano visto che l’andamento dei conti della BNS era già noto alla classe politica. In aggiunta la politica ci ha messo il suo zampino: oltre a queste entrate mancheranno anche una parte delle entrate dell’imposta di circolazione e peseranno sulle spese le deduzioni dei premi cassa malati aggiuntive. Per farla breve, il deficit (la differenza tra le entrate e le uscite dello Stato) potrebbe passare dagli 80 milioni di franchi stimati ai 240 milioni.
Lo abbiamo detto più volte: le finanze pubbliche devono essere gestite in maniera seria e giudiziosa. Esattamente come deve fare qualunque padre e madre di famiglia che mese dopo mese deve far quadrare i conti, anche la politica deve assumersi questa responsabilità. Diventa troppo facile aumentare le spese senza preoccuparsi di dove reperire i fondi, rifiutare a priori controlli esterni che mettano ordine alla spesa pubblica e voler ridurre le entrate per guadagnare consensi.
La gestione delle finanze pubbliche deve essere seria e giudiziosa perché questa è l’unica ricetta per garantire uno Stato forte e solidale.

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La ragion d’essere della Banca Nazionale Svizzera

La Banca Nazionale Svizzera l’anno scorso ha perso oltre 130 miliardi di franchi e tutta la classe politica, da destra a sinistra, si è arrabbiata. Ma c’è veramente ragione per lamentarci dell’operato della nostra banca centrale?
Superate le gravi turbolenze degli anni ’30, gli Stati hanno capito l’importanza di dover intervenire tempestivamente sull’andamento economico per contenere l’ampiezza degli sbalzi del ciclo economico. Così a partire dagli anni ‘50 i governi e le banche centrali hanno iniziato a utilizzare gli strumenti fiscali e monetari che consentono di influenzare l’andamento generale dell’economia, il comportamento dei consumatori e dei produttori, nonché le relazioni commerciali con l’estero.
Il governo mette in atto la politica fiscale che si basa sul prelievo delle imposte e sulla spesa pubblica. La banca centrale si preoccupa della politica monetaria che consiste principalmente nella manipolazione dell’offerta di moneta, dei tassi di interesse e dei termini del credito. Le due politiche comportano vantaggi e svantaggi che fanno sì che la prima sia più indicata per il rallentamento economico e la disoccupazione. La politica monetaria invece è più efficace nei momenti di surriscaldamento e serve a contrastare la crescita dei prezzi (inflazione). Oltre a questo obiettivo le banche centrali devono garantire la stabilità del sistema dei pagamenti. È chiaro a questo punto che il compito della Banca Nazionale non è quello di fare degli utili né per sostenere le decisioni prese dalle autorità politiche e neppure per contribuire alle assicurazioni sociali come chiederebbe qualcuno. La Banca Nazionale deve preoccuparsi principalmente della stabilità monetaria e di quella dei prezzi; ed è quello che ha fatto anche l’anno scorso.
Se si guarda al passato, i vertici della banca nazionale non hanno mai mostrato particolare entusiasmo per gli utili conseguiti: ai loro occhi era chiaro che essi rappresentavano solo delle riserve per quanto sarebbe accaduto negli anni a venire. E così è stato. La politica, al contrario, si è fatta ingolosire. Dopo aver modificato la legge per aumentare i contributi versati ai Cantoni, ha iniziato a fantasticare sull’uso dei profitti. Dalla politica ambientale a quella previdenziale, le proposte non sono mancate. Ma vi è stato un errore di fondo. La Banca Nazionale è un ente autonomo che non dipende dalla politica e che soprattutto non deve essere utilizzato per finanziare le sue decisioni. Così, ci rincresce dirlo, ma sta ai Cantoni e ai parlamentari fare scelte politiche che si autofinanzino o se non lo ritengono necessario, aumentare il debito pubblico. Queste sono responsabilità della politica che nulla hanno a che vedere con quelle della Banca Nazionale che ha svolto e sta svolgendo il suo ruolo.

L’Osservatore, 21.01.2023

La ragion d’essere della Banca Nazionale Svizzera