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L’Unione Europea pensa mentre la Cina fa

Il viaggio di Xi Jiping in Europa è finito. E ancora una volta è l’Unione Europea a mostrare la sua debolezza. Sì perché il presidente cinese in questa visita ha rafforzato i rapporti commerciali con Francia, Serbia e Ungheria. Questo nonostante le parole molto dure e anche stizzite della presidente uscente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen. In effetti, durante il colloquio aveva dichiarato “abbiamo discusso delle questioni economiche e di commercio; ci sono degli squilibri, che suscitano gravi preoccupazioni e siamo pronti a difendere la nostra economia, se serve”.  Continuava poi muovendo dure critiche alla Cina per quanto riguarda i sussidi di Stato nelle produzioni come le auto elettriche, l’acciaio o i dispositivi medicali che evidentemente, a causa dei prezzi più bassi, guadagnano importantissime quote di mercato in Europa nuocendo alle imprese locali. Questa non è una novità, poiché  sono mesi oramai che l’Unione Europea apre indagini contro la Cina. In aggiunta, la presidente Von der Leyen ha invitato caldamente Pechino a intervenire nel conflitto ucraino facendo pressioni sulla Russia per quanto riguarda la minaccia nucleare e a non fornirle più alcun equipaggiamento militare. Crediamo che questi auspici cadranno nel vuoto, tant’è vero che da parte del presidente cinese non vi è stata nessuna dichiarazione in merito.

Ma non finisce qui. Xi Jiping in questo viaggio è riuscito a rafforzare ulteriormente le sue relazioni con Francia, Serbia e Ungheria.  Se nel caso francese i rapporti sono stati un po’ più complessi, con la Serbia e l’Ungheria si sono rafforzate ulteriormente alleanze già solide. In effetti, il presidente cinese definisce il rapporto con la Serbia un’ “ amicizia d’acciaio” e non a caso sono stati siglati ben 28 atti, tra accordi bilaterali e protocolli di intesa, per aumentare la cooperazione. Nel caso ungherese il presidente cinese si è mostrato ancora più vicino a questa nazione: oltre a parlare di “posizioni e visioni simili”, ha elogiato l’indipendenza del governo del premier Orban rispetto alla politica estera europea. Non per niente di recente il produttore cinese di auto elettriche BYD ha aperto la prima fabbrica europea proprio in Ungheria, paese che già ospita diversi produttori di batterie al litio. Anche in questo caso i due paesi hanno sottoscritto 18 nuovi accordi per aumentare la cooperazione economica e culturale. D’altronde non è una novità che l’Ungheria e il suo premier siano una spina nel fianco per l’Unione Europea.

È evidente che la Cina ha enormi interessi a penetrare ulteriormente il mercato europeo, d’altronde se la risposta europea è esclusivamente quella di cercare di bloccare l’accesso attraverso inchieste che limitino il commercio, Pechino non avrà grosse difficoltà a vincere.

Da sempre sottolineiamo che la competitività di un paese va ricercata nella formazione, nella ricerca e nello sviluppo di prodotti innovativi, di certo non innalzando barriere. Purtroppo, lo diciamo ancora una volta, l’Unione Europea sembra aver dimenticato che per progredire bisogna prima di tutto fare. E all’orizzonte non paiono esserci grandi progetti di un ritorno alla cara vecchia “industria”. Cosa che al contrario non disdegnano i cinesi, anzi ora vengono anche in Europa a produrre.

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L’importante differenza fra ricchezza e benessere

La ricchezza degli svizzeri è aumentata. O almeno è quello che sembrerebbe da una prima lettura dei dati appena pubblicati dalla Banca Nazionale svizzera relativi al 2023. Le attività finanziarie delle economie domestiche valevano ben 3’014 miliardi di franchi, ai quali dobbiamo aggiungere 2’659 miliardi di franchi del valore di mercato degli immobili. Rispetto all’anno scorso l’aumento è stato importante e rispettivamente del 2.3% e del 3.6%. Ma allora, perché non ci sentiamo tutti più benestanti? Perché ci sembra di fare sempre fatica ad arrivare alla fine del mese?
Innanzitutto dobbiamo differenziare il concetto del reddito da quello della ricchezza. Il reddito è ciò che effettivamente guadagniamo, quello che possiamo spendere immediatamente; per semplificare pensiamo allo stipendio o nel caso degli anziani alla rendita AVS. La ricchezza, invece, rappresenta ciò che abbiamo messo da parte e che magari abbiamo investito in attività che non possono essere per forza utilizzate subito. Pensiamo all’acquisto di obbligazioni della Confederazione o magari a una casa.
È per questo che molto probabilmente la maggioranza di noi non si è assolutamente accorta di essere diventata più ricca. In effetti, in alcuni casi si tratta addirittura di un arricchimento teorico. Pensiamo all’incremento del valore della nostra casa. Sulla carta siamo più ricchi perché i prezzi sul mercato sono aumentati, ma nella realtà a meno che non la vendiamo noi non guadagniamo niente. Anzi, paradossalmente potremmo trovarci a dover pagare più imposte sulla sostanza. O ancora, il valore delle prestazioni assicurative e di quelle pensionistiche rappresenta gli accantonamenti fatti per coprire le future richieste di risarcimento da parte degli assicurati, ma non per forza ci sarà un trasferimento uno a uno.
Ma c’è una seconda ragione, forse ancora più importante. Questo dato indica il patrimonio aggregato di tutte le persone residenti in Svizzera, mentre non dice nulla sulla sua distribuzione. Per cui troveremo nello stesso raggruppamento persone che possiedono ville enormi, pacchetti azionari e migliaia di obbligazioni di Stato, e altre che invece non hanno nulla. Per valutare la distribuzione della ricchezza dobbiamo utilizzare l’indice di Gini. Ma anche questo dato non ci dice ancora tutto. Per capire bene il benessere delle persone dovremmo valutare come è distribuita la ricchezza tra le classi più benestanti, ma soprattutto mettere questi dati in relazione al sistema fiscale (tasse di successione, tasse sul patrimonio,…) e ancora di più in relazione al sistema di sicurezza sociale. Se uno Stato offre ai suoi cittadini servizi di ottima qualità gratuiti e sistemi previdenziali sicuri, è davvero così importante risparmiare e accumulare patrimonio?

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Pubblicato da L’Osservatore – 4.05.2024

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Politica: Giù le mani dalla Banca Nazionale Svizzera

La Banca Nazionale svizzera (BNS) questa settimana è stata oggetto di molta attenzione da parte della stampa. Vediamo perché.
La settimana si è aperta con la notizia che la BNS ha deciso di aumentare il tasso delle riserve minime obbligatorie dal 2.5% al 4% delle passività delle banche e di considerare tutti i depositi della clientela in questo calcolo. Ma andiamo con ordine. La riserva obbligatoria è un deposito in contanti che le banche secondarie devono tenere presso la banca centrale. Questa riserva è proporzionale ai depositi della clientela. Questa specie di “conto corrente” che le banche hanno presso le banche centrali serve a poter soddisfare la domanda dei clienti che vogliono ritirare immediatamente i loro contanti. Diciamo che è una sorta di garanzia per i clienti. In effetti, magari non tutti sanno che i contanti che noi depositiamo presso le banche vengono prestati ad altri oppure investiti. La conseguenza è che se tutti noi volessimo ritirare nello stesso momento i nostri averi, questo genererebbe la famosa corsa agli sportelli e quindi il crollo del sistema bancario. Ma la riserva obbligatoria ha anche un’altra funzione, quella di ridurre di un po’ la quantità di moneta che circola nel sistema. Se c’è meno moneta, ci sarà meno domanda e questo potrebbe far abbassare i prezzi. Ricordiamo che l’inflazione in Svizzera appare sotto controllo, ma che è sempre meglio non abbassare la guardia visto anche che la stessa Banca nazionale è stata l’unica Banca centrale a ridurre i tassi di interesse qualche settimana fa. Questa misura di aumento del tasso di riserva obbligatoria potrebbe quindi compensare un po’ questa decisione.
Qualche giorno dopo, la BNS ha annunciato un utile di 58,8 miliardi di franchi nel primo trimestre di quest’anno. Sicuramente questa è una buona notizia, soprattutto se la paragoniamo alle perdite realizzate negli ultimi due anni. Il buon risultato dipende principalmente (ca. 52 miliardi) dai guadagni fatti sulle valute estere che hanno acquisito forza rispetto al franco svizzero. Per semplificare, avendo noi tanta moneta estera, abbiamo guadagnato dal suo rafforzamento. All’aumento del valore dell’oro dobbiamo altri 9 miliardi di franchi di guadagno (in parte ridotti dalle perdite sugli investimenti in franchi svizzeri). Questa buona notizia non deve però far venire l’acquolina in bocca ai cantoni: affinché ci sia distribuzione di un utile, il risultato annuale dovrà essere superiore ai 65 miliardi. E data l’incertezza che regna in questo momento, meglio essere prudenti e non contabilizzare queste possibili entrate nei conti cantonali.
Infine ieri, venerdì 26 aprile, si è tenuta l’assemblea generale della BNS. In questo appuntamento, la presidente Barbara Janom Steiner, ha ricordato che il compito della BNS è quello di garantire la stabilità dei prezzi e non quello di realizzare utili da usare per assolvere i compiti che spettano alla politica. Quindi niente versamenti per la politica climatica o quella sociale.
Ricordiamo che l’indipendenza e l’autonomia della politica monetaria da quella fiscale è stata fino ad oggi una delle fonti più sicure del nostro benessere. Vediamo di non buttare via tutto.

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La crisi mondiale si fa sentire anche in Svizzera

I dati appena pubblicati sul commercio estero della Svizzera riferiscono di un primo trimestre di quest’anno non troppo entusiasmante. Le esportazioni hanno superato di poco i 64 miliardi di franchi mentre le importazioni si aggirano attorno ai 55,5 miliardi. Rispetto al trimestre precedente entrambi i flussi nominali, ossia i valori in franchi senza considerare l’effetto dell’inflazione, mostrano una riduzione, rispettivamente del -0.8% e del -1.9%. La situazione migliora un po’ se si va a guardare il dato in termini reali, quindi tenendo conto dell’effetto dei prezzi: in questo caso le esportazioni segnano + 0.6% e le importazioni una riduzione di “solo” -0.2%. La differenza tra esportazioni e importazioni, quindi il saldo della bilancia commerciale, chiude con una eccedenza di 8,6 miliardi di franchi.
Attenzione però, questo dato potrebbe indurci in errore. In effetti dobbiamo sempre ricordare che la Svizzera è un paese esportatore netto nonostante tre caratteristiche particolari. La prima è che la nostra nazione è piccola e questo significa che ha poca manodopera e anche poco territorio a disposizione per produrre. Nonostante ciò riusciamo a creare di più di quello che consumiamo e quindi a vendere all’estero. La seconda caratteristica è che la nostra nazione non dispone di una storia di industria pesante. Detto altrimenti non abbiamo un’industria automobilistica storica come la Germania e neppure cantieri navali come l’Italia. Infine, la terza caratteristica è che a differenza di altri paesi noi non abbiamo grandi risorse di materie prime. Questo implica che per poter produrre e vendere all’estero abbiamo bisogno di importare materie prime e prodotti semilavorati a cui aggiungeremo valore aggiunto con la nostra produzione. È proprio per questa ragione che quando le importazioni si riducono dobbiamo essere piuttosto cauti perché questo potrebbe significare che le nostre aziende esportatrici stanno vivendo un calo negli ordini e per questa ragione non comprano dall’estero. Ancora una volta comprendiamo quanto sia importante analizzare i dati economici aldilà dei semplici numeri.
In generale vediamo che la maggioranza dei settori economici ha visto le sue esportazioni ridursi. In particolare hanno sofferto il settore legato alla gioielleria, l’orologeria e gli strumenti di precisione. Anche il settore dei prodotti chimici e farmaceutici, punta di diamante delle nostre esportazioni, è rimasto pressoché stabile. Per quanto riguarda i mercati segnaliamo un certo rallentamento nelle vendite verso l’Asia (in particolare Singapore), un leggero aumento verso l’America del Nord e una certa stabilità verso l’Unione Europea. In questo caso, vediamo che purtroppo la maggioranza dei paesi (inclusi i nostri principali partner commerciali, Germania e Italia) mostra una riduzione degli acquisti, compensati in grande parte dall’aumento avvenuto con la Slovenia.
Naturalmente sappiamo che queste dinamiche dipendono fortemente dalla situazione internazionale, situazione internazionale che con l’allargarsi del conflitto Israelo-Palestinese non potrà far altro che peggiorare.

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Ticino: sempre più poveri e infelici

I fatti sono testardi.
Denuncio da tempo la situazione economica del nostro cantone e il generale e graduale impoverimento. E per questo sono spesso etichettata come disfattista o populista. La mia colpa? Ingigantire fenomeni “tutto sommato contenuti” se non addirittura, disturbare il manovratore.
Sfortunatamente, un’altra volta “cassandra” ha ragione. Vediamoli, questi fatti.
Il tasso di povertà in Ticino (2022) è del 12.8%, quattro punti sopra quello svizzero (8.2%). I ticinesi che non guadagnano abbastanza per vivere sono quasi 45 mila. Questi poveri (chiamiamoli con il loro nome!) vivono con al massimo 2’248 franchi al mese se sono soli o 4’010 franchi per due adulti con due bambini. Per darvi una misura ulteriore del problema, i ticinesi in Svizzera sono circa il 4%. I poveri ticinesi sono invece il 6.4%. rispetto ai poveri in Svizzera.
E la situazione è peggiorata rispetto all’anno prima, quando i poveri in Ticino erano 3’400 in meno.
Il nostro “povero” cantone vince anche la poco invidiabile classifica dei working poor, ossia coloro che pur avendo un lavoro non riescono a guadagnare abbastanza: sono oltre 7’000 persone. Il nostro tasso è del 5% contro una media nazionale del 3.8%. Siamo sul podio anche qui, ahimé.
Siamo al primo posto in Svizzera anche per il rischio di povertà. Mediamente a livello nazionale una persona su sette guadagna meno del 60% del reddito mediano, in Ticino siamo a più di una persona su cinque.
Se consideriamo il rischio di povertà a un livello ancora più precario, ossia le persone che guadagnano meno della metà del salario mediano, scopriamo che queste sono ben il 13.5% dei cittadini del Cantone (a livello nazionale la percentuale è del 9.2%). E questo numero di persone è aumentato di novemila unità dal 2021 al 2022: oggi sono quasi 47 mila.
Non è per niente un fenomeno “tutto sommato contenuto”.
Dietro queste cifre e percentuali, ci sono persone con le loro difficoltà quotidiane per vivere: persone che non si possono permettere una spesa imprevista, non possono (mai!) andare in vacanza, hanno arretrati di pagamenti, non possono comperare mobili nuovi. Tutte le cose che per il resto della popolazione sono acquisite, scontate, per questa gente sono un lusso inarrivabile.
E oltre questi dati, comincia ad emergere una rottura del tessuto sociale: in Ticino le persone che dichiarano di poter contare in caso di bisogno sull’aiuto morale, materiale o finanziario di terzi sono meno della media svizzera. Non siamo “solo” più poveri, siamo anche più soli.
Il Ticino è la regione svizzera dove più persone dichiarano di non sentirsi mai felici, sono insoddisfatte della propria situazione finanziaria, faticano a mettere soldi da parte e a sbarcare il lunario.
E non a caso il Ticino è anche il Cantone svizzero con il grado più basso di fiducia nelle istituzioni politiche. Triste, preoccupante. Ma non sorprendente.
È, come dicono gli americani, un incidente ferroviario al rallentatore. In passato la classe politica poteva far finta di non vedere la crisi, proprio per il suo procedere graduale. Ora questo treno sta accelerando e le conseguenze del problema, e della sua negazione a livello politico istituzionale, stanno per piombarci addosso in tutta la loro gravità.
L’inazione su questi temi non è più ormai una mancanza minore: è una colpa grave nei confronti dei nostri concittadini.

Pubblicato da diversi portali: TIO, Ticinonews, ETiCinforma

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Salari in Ticino: tutti giù per terra

In Ticino, per molti il sogno di una vita migliore si sta dissolvendo come neve al sole. Lo suggeriscono i dati sui salari pubblicati dall’ufficio federale di statistica. Queste cifre confermano una tendenza che denunciamo da tempo. La teoria economica, con le sue promesse di prosperità legata alla crescita, sembra beffarsi di noi, lasciandoci a mani vuote. Un lieve aumento dei salari rispetto al 2020? Una misera consolazione, quando si scopre che i redditi più alti hanno subito tagli drastici. Un vero e proprio schiaffo per chi ha sempre dato il massimo, tra questi i residenti svizzeri che sono i più colpiti da questa diminuzione.

Non siamo di fronte a una semplice battuta d’arresto, ma a quella che potrebbe diventare, se non si fa nulla, una vera e propria emergenza sociale: nemmeno i salari dei lavoratori più qualificati, come chi ha una formazione superiore, sono al sicuro. I settori che annunciano aumenti sono pochissimi, ad es. la ristorazione, la maggior parte invece lamenta diminuzioni importanti dei salari. In generale, vediamo i salari scendere nelle attività manifatturiere, nei servizi finanziari e assicurativi, nelle attività legali e in quelle legate alla contabilità, nelle professioni tecniche e scientifiche e in quelle della sanità e socialità.

E poi c’è la favola della riduzione del divario salariale tra uomini e donne. La beffa oltre al danno: in realtà, si tratta di un’uguaglianza al ribasso, dove tutti perdono, senza eccezioni. Il differenziale si rimpicciolisce non tanto perché le donne guadagnano di più, quanto perché gli uomini guadagnano di meno. Questa parità al ribasso non è quella che vogliamo.

Forse adesso che la crisi tocca anche i lavoratori più “fortunati” che dovrebbero essere i meglio rappresentati politicamente, i partiti storici finalmente si decideranno a fare qualcosa in difesa dei nostri salari.

Ma data la paralisi politica degli ultimi anni, ci vorrebbe un miracolo. Si potrebbe cominciare smettendo di negare la gravità della situazione con narrazioni di comodo. Il Ticino ha un problema di salari che adesso tocca anche i lavoratori meglio qualificati. La classe politica deve smetterla di guardare dall’altra parte. I nostri concittadini meritano di meglio.

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Pensiamo ad una nuova AVS

Il popolo svizzero è stato chiaro: vuole la tredicesima AVS e non vuole lavorare un anno di più. Almeno non per il momento. Le ragioni per l’esito di questa votazione possono essere molteplici, e forse alla fine non hanno neppure una grande importanza.
Ora bisogna capire come finanziare questa ulteriore indennità. Il primo pilastro è basato su un sistema a ripartizione: le persone che lavorano attualmente pagano le pensioni delle persone che non sono più attive. Esiste un piccolo fondo di compensazione che deve essere almeno pari a un anno di contributi erogati (ca. 45-55 miliardi di franchi). In questo caso quindi il sistema si fonda sulla solidarietà: dai giovani agli anziani, dagli attivi ai pensionati, dai sani ai malati e dai “fortunati” alle vedove e agli orfani.
Se si considera il sistema attuale le soluzioni non sono molte: aumentare i contributi sul lavoro, aumentare la quota che versa la Confederazione o aumentare direttamente l’imposta sul valore aggiunto o la tassa sulle case da gioco o la loro quota. Tutte queste misure però comportano una riduzione del potere d’acquisto per la fascia toccata o la rinuncia ad altri compiti (nel caso dell’aumento della quota parte della Confederazione). Soluzioni che paradossalmente potrebbero esercitare l’effetto contrario della nuova politica pubblica: per esempio aumentare l’IVA significa rendere più povere le persone meno abbienti.
Per questo bisogna avere coraggio e ripensare i nostri sistemi sociali e previdenziali. E bisogna farlo guardando alla società tra vent’anni e non più a quella del 1950, quando è stata istituita l’AVS. Questa riflessione deve essere fatta subito cogliendo l’occasione data da questa votazione. Purtroppo gli scontri generazionali iniziano a farsi sentire e potrebbero mettere in pericolo la coesione della nostra società. Pensiamo ai premi cassa malati e alla colpevolizzazione degli anziani, ritenuti da alcuni i responsabili perché vanno nelle case per anziani o hanno bisogno di aiuti a domicilio. In maniera ripensabile, oggi questi costi rientrano anche nelle spese di malattia. Ma l’invecchiamento non è una malattia, l’invecchiamento è il decorso della vita.
A partire da queste riflessioni dobbiamo avere il coraggio di pensare una nuova assicurazione sociale che tenga conto del decorso della vita. L’uscita dal mercato del lavoro dovrà essere considerato il punto di svolta per creare nuovi strumenti che diano le giuste risposte ai bisogni che nascono da quel momento e che trovino i giusti finanziamenti. Smettiamola con i cerotti e troviamo il coraggio di salvaguardare la pace intergenerazionale che è una delle componenti più importanti delle nostre società. Per farlo dobbiamo studiare una nuova assicurazione sociale.

Pubblciato da L’Osservatore, 09.03.2024

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Ticino terra di bassa salari… per sempre?

Intervista pubblicata da Il Federalista, 01.03.2024 e ripresa da Liberatv, che ringraziamo

Manodopera a basso costo, croce e delizia dell’economia ticinese?
“Il fatto di ricorrere a manodopera a basso costo, spesso anche qualificata, è stato da sempre uno dei nostri vantaggi competitivi. Questo ha portato a sviluppare un tessuto di industrie (rispetto per esempio alla Svizzera interna, dove occorreva competere sulla qualità e non tanto sul prezzo) che vengono definite “intensive di lavoro” anziché “intensive di capitale”. È così mancata tutta quella fase di competizione basata sul progresso tecnologico, sull’innovazione. Quindi, il nostro tessuto economico era già piuttosto fragile. Quello che poi è accaduto con gli accordi bilaterali è che non c’è stato più nemmeno un minimo di -se vogliamo- contenimento di un’economia che già andava nella direzione sbagliata. Ecco perché quelli che erano dei vantaggi competitivi che venivano messi a frutto in modo ragionevole sono diventati, purtroppo, la regola del gioco. Per cui ci ritroviamo oggi con un tessuto produttivo che potrebbe essere sicuramente più sano”.

Si riferisce in particolare alle aziende venute da fuori Cantone?
“Mi riferisco a quelle aziende che non sono in grado di versare dei salari per i residenti e che hanno esclusivamente manodopera non residente. Sebbene io non neghi che l’arrivo di alcune aziende che mettono a frutto giustamente i vantaggi competitivi che offre la Svizzera (con l’aggiunta del vantaggio competitivo geografico del Canton Ticino) abbia avuto aspetti positivi. Ma chiediamoci: è sano che siano qui se poi esercitano una pressione al ribasso su tutta l’economia?”.

Non solo sui salari bassi, a suo parere?
“Fino a qualche anno fa la pressione si esercitava sui bassi salari, adesso ormai riguarda i salari medi e medio alti. Questo vuol dire che la concorrenza non è più limitata esclusivamente alle realtà delle professioni per così dire “meno qualificate”, ma si sta portando anche su quelle più qualificate. E il fattore su cui si gioca rimane purtroppo ancora sempre il prezzo, quindi il salario. Sono convinta che i prossimi dati che usciranno lo confermeranno”.

Nella polemica in corso si rileva criticamente che l’afflusso di queste aziende sia in gran parte dovuto alle politiche economiche messe in atto in Ticino a partire dalla metà degli anni 90 e fino ai primi anni 2000, che puntavano su agevolazioni fiscali allo scopo di attirare le imprese, anche estere, sul nostro territorio. Condivide la critica?
“Le politiche economiche che si possono adottare non sono molte. Quindi, puntare il dito su scelte fatte in passato secondo me serve a poco. Quello che rincresce è che non si sia riusciti, una volta entrati in contatto con determinate aziende, a costruire un vero “tessuto industriale” sul territorio. Prendiamo il settore della moda. Anzitutto non si tratta di aziende arrivate qui solo grazie alle agevolazioni cantonali, ma anche grazie al contesto internazionale che inquadrava comunque la Svizzera come un Paese dove risparmiare fiscalmente in maniera assolutamente legale: è questo che ha portato alcuni grandi marchi a trasferirsi da noi. Il problema sta nel fatto che l’immobilismo del Cantone ha fatto sì che non si siano create delle condizioni e coltivate delle relazioni tali da mantenere queste aziende sul territorio anche una volta poi passati i periodi di agevolazioni fiscali che, secondo me, non sono tanto quelle cantonali bensì quelle a livello nazionale”.

Nel Cantone, quelle politiche furono promosse da Marina Masoni, nell’ambito del cosiddetto pacchetto delle “101 misure”. Alcuni dati statistici mostrano, tra il 1996 e il 2008, un costante miglioramento dei parametri economici cantonali, la cui crescita si è progressivamente attenuata in seguito.
“L’economia è fatta di talmente tanti fattori che individuare -togliendo tutto il contesto internazionale- quali siano stati i fattori che hanno portato a quei risultati è davvero molto difficile. Pur non condividendo molte di quelle 101 proposte, da un punto di vista economico, di una politica economica, devo riconoscere che purtroppo quello è stato l’ultimo periodo politico in cui ci sia stata quantomeno una strategia di sviluppo. Quantomeno c’era un’idea di che cosa si voleva fare, di che tipo di economia volevamo avere. Adesso è il vuoto, adesso in quel campo non c’è nulla”.

Accidenti, si tratta di incompetenza, di interessi o di cos’altro?
“Non incompetenza, neppure interessi, che è normale che vi siano, com’è legittimo che una parte della classe politica veda nel libero mercato portato all’estremo la soluzione a tutti i mali. Com’è chiaro che riflettere su quello che sarà il Canton Ticino fra 10 anni probabilmente elettoralmente non paga. Col massimo rispetto… però è chiaro che la politica di sviluppo economico e di sostegno all’economia, o lo stesso tema del lavoro, non siano una priorità di questo Governo, come non mi sembra lo sia stato dei Governi passati. Se non c’è la priorità del lavoro, tutto quello che riguarda l’economia viene meno”.

Lei dice spesso, l’ha detto più volte anche a noi del Federalista, che sarebbe ora, per uscire da questo circolo, di alzare i salari. Sarebbe ora che in Ticino ci fossero finalmente dei salari svizzeri. Ma quante aziende attive sul nostro territorio hanno veramente la possibilità di alzare i salari. E quali dovrebbero chiudere (cancellando posti di lavoro) se si volesse andare in quella direzione?
“Occorre essere anche un po’ coraggiosi. Essere coraggiosi vuol dire riconoscere che probabilmente ci sono delle aziende nel territorio – non abbiamo niente contro queste aziende – che di fatto, da un punto di vista -paradossalmente- dell’economia di mercato, non hanno ragione di stare qui. Cioè se un’azienda non fa utili tali da permetterle di pagare degli stipendi che consentano ai suoi dipendenti di risiedere nel Cantone, evidentemente non farà neppure dei grandi profitti: in termini di imposte lascerà poco o niente, generando però conseguenze negative, a cominciare dalla pressione sui salari, passando per il traffico ecc. Ecco, bisogna mettere sulla bilancia queste cose e avere il coraggio di dire che queste aziende non devono stare nel Canton Ticino. Insomma, se si versano salari italiani è buono e giusto che si operi in Italia”.

Ma come tutto ciò incide sul fatto che sempre più persone in Ticino chiedono aiuti sociali? Lo Stato sostiene i redditi bassi perché questo tipo di economia non riesce a pagare i propri collaboratori che risiedono in loco?
“La domanda è: vogliamo un Cantone-fabbrica? Quello che sta accadendo è che i giovani, quelli che finiscono di studiare qui, se ne vanno. I giovani che hanno studiato all’estero non rientrano. E questo significa che le famiglie le fanno fuori Cantone difficilmente rientreranno in Ticino. Siamo in una situazione nella quale un cinquantenne che perde un posto di lavoro non riesce a trovarlo e tanti iniziano a lavorare, ad esempio, due o tre giorni in Svizzera interna, mentre negli altri due fanno home office. In Ticino abbiamo gli anziani che non riescono più a vivere con la loro pensione, che iniziano a pensare di andarsene dal Ticino. Qui ci rimarranno solamente frontalieri, che vengono al mattino, lavorano e se ne vanno la sera? Il dramma di questo Cantone è questo”.

Cosa pensa dell’adeguamento delle aliquote fiscali per gli alti redditi? Un’inutile “regalo ai ricchi” o un modo sensato per non farli scappare?
“Non ho niente a priori contro la riduzione delle aliquote, quello che ho trovato sbagliato in questa decisione è la tempistica: cioè, in un momento così delicato per il Canton Ticino sono certa che queste persone ad alto reddito erano e sono disposte a veder posticipare questo tipo di misure di qualche anno. Per me il concetto è che lo Stato deve prendere le risorse ai cittadini nella minor misura possibile, ma che sia compatibile con i compiti che i cittadini decidono di fargli svolgere. Come sono disposta a scendere sulle aliquote, se si vogliono più compiti sono anche disposta ad aumentarle. Non ci sono tabù “fiscali”. Secondo me si dovevano mettere in atto tutte le altre tre misure e per quest’ultima attendere, quantomeno, la revisione dei conti dello Stato”.

Ci sarebbero altre “questioncine” in ballo, come quella della perequazione intercantonale o quella del “freno alla spesa”, ma ci fermiamo qui, perché i lettori hanno da leggere il prossimo contributo che offriamo loro quest’oggi, non meno importante a nostro avviso…
” … sulla perequazione (quei 3-400 milioni in più che dovrebbero arrivarci da Berna) mi lasci dire solo che forse non è un tema molto “sexy” da portare in campagna elettorale, perché è un tema tecnico. Ma mi sembra che quantomeno il Governo se ne stia occupando e anche i nostri deputati a Berna qualcosa stiano pensando di fare”.

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«Il Cantone lo ammette: i ticinesi hanno problemi di soldi»

Questa settimana riprendiamo l’intervista fatta qualche settimana fa da Patrick Mancini, che ringraziamo, in merito ai salari e all’occupazione in Ticino. Tema su cui torneremo nei prossimi giorni, visti i dati pubblicati di recente che mostrano un ulteriore peggioramento nella creazione di posti di lavoro. In aggiunta, le notizie delle chiusure di diverse aziende e dei loro licenziamenti, non fanno altro che peggiorare una situazione difficile.

Freno alla spesa in Italia, il Governo tentenna di fronte al sondaggio di Berna. L’economista Amalia Mirante: «Ora alziamo i salari».

BELLINZONA – Freno alla spesa oltre confine. Meglio andarci piano. Ed è meglio che per ora il valore della spesa da dichiarare non venga dimezzato (da 300 a 150 franchi). È in sintesi quanto emerge dalla risposta del Governo ticinese alla consultazione lanciata da Berna ai Cantoni. Il testo lascia perplessa Amalia Mirante, economista ed esponente del movimento Avanti con Ticino&Lavoro.

Il Governo ticinese temporeggia sulla proposta del Consiglio federale. Preoccupante?
«Io sono una grande sostenitrice del commercio locale. Va sostenuto in tutti i modi. Ma anche io sono contraria all’abbassamento della franchigia per chi fa la spesa in Italia. Principalmente perché ci sono famiglie ticinesi che purtroppo hanno davvero bisogno di fare la spesa oltre confine. È questo che mi preoccupa».

Il Governo nella sua lettera parla di un momento storico delicato. 
«Finalmente anche il Governo ammette che in Ticino ci sono problemi di reddito e di potere d’acquisto. E questi si sono ulteriormente aggravati negli ultimi anni».

Questa ammissione che valore ha?
«Dopo questa ammissione dovrà seguire per forza qualcosa di concreto. La popolazione è preoccupata e ha bisogno di segnali chiari e forti e di misure concrete da parte delle autorità. Le difficoltà sono note: redditi troppo bassi, mercato del lavoro sofferente, concorrenza fortissima generata dal frontalierato, giovani che non tornano dopo gli studi, persone che partono per sempre. La scelta volontaria di andare via è legittima. Diventa un problema quando non è più una scelta libera».

Domanda provocatoria: il Ticino a lungo andare rischia di diventare un posto in cui si nasce per poi partire? 
«La tendenza se non interveniamo è quella. Siamo confrontati con tantissimi giovani che se ne vanno e fanno famiglia altrove. Con decine di migliaia di frontalieri. Con anziani in pensione che fanno sempre più fatica e che iniziano a pensare di trasferirsi all’estero per vivere con un po’ più di tranquillità finanziaria».

Perché i politici non prendono misure concrete? 
«Purtroppo finora il lavoro non è stato la priorità del nostro Governo. Si accampano mille scuse per evitare di parlarne concretamente. Sappiamo tutti di non avere salari attrattivi. O di avere uffici regionali di collocamento da riformare. Vogliamo parlare della necessità di qualificare il personale residente con una vera politica di formazione continua? E gli apprendisti? Stato e aziende non sono sufficientemente in contatto. Eppure il Ticino è pieno di aziende brillanti che potrebbero emergere».

Riformuliamo la domanda: perché non si muovono le acque?
«In Parlamento si perde un sacco di tempo. I tempi di discussione sono troppo lunghi. Si passano giornate intere solo ad ascoltare le posizioni di vari partiti. Non c’è concretezza. E intanto poi salta fuori che il preventivo del Cantone è disastroso».

Torniamo ai commerci locali. Enzo Lucibello, presidente della DISTI, ha definito “uno schiaffo” la lettera del Governo.
«Lo ripeto: i commerci locali vanno sostenuti a spada tratta. Ma bisogna agire a vari livelli. Non creando inutili paletti a chi già sta male. I ticinesi devono avere salari dignitosi per potere spendere sul proprio territorio. Quello dei salari non è più un tema da posticipare». 

Intevista di Patrick Mancini – pubblicata su TIO 17.02.2024

https://www.tio.ch/ticino/attualita/1733100/spesa-governo-ticinesi-salari-cantone-italia-problemi-ammette

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Ci sono i disoccupati in Ticino? Sì, no, forse…

Ancora una volta i dati sulla disoccupazione in Ticino litigano. E lo fanno anche in maniera plateale. Il tasso di disoccupazione del quarto trimestre del 2023 in Ticino calcolato secondo il metodo dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) è stato di ben il 6.2%. Stabile rispetto ai tre mesi precedenti, ma in aumento rispetto allo stesso periodo dell’anno 2022, in cui il tasso era del 5.6%. In termini numerici si parla di quasi 11.000 persone alla ricerca di un posto di lavoro.

I dati invece pubblicati mensilmente dalla Segreteria di Stato dell’economia (SECO) indicavano per lo stesso periodo dell’anno, ossia settembre-dicembre 2023, una media sul trimestre del 2.4% e di circa 4’400 persone.

Insomma, tra i due dati ancora una volta c’è una differenza di ben 2.5 volte. Ma chi ha ragione? Quanti sono davvero i disoccupati in cerca di lavoro in Ticino? Se ci basassimo sulle nostre sensazioni e sul nostro vissuto quotidiano non avremo alcun dubbio nel dire che il dato che maggiormente si avvicina alla realtà è quello calcolato secondo il metodo dell’ILO; anzi, forse anche questo risulta sottostimato. Alla stessa considerazione arriviamo se riflettiamo in termini più scientifici. Vediamo perché.

Il tasso di disoccupazione calcolato dalla SECO è corretto nel senso che conta tutte le persone iscritte presso gli uffici regionali di collocamento (URC) e poi le rapporta alla popolazione attiva. Un metodo decisamente corretto che dà un risultato altrettanto veritiero. Peccato che questo indicatore si riferisca esclusivamente alle persone disoccupate e contemporaneamente iscritte presso gli URC. Nella realtà noi sappiamo che tendenzialmente si iscrivono agli URC solamente le persone che hanno diritto all’indennità di disoccupazione. Anche perché sappiamo che purtroppo questi uffici non sono di grande aiuto nella ricerca effettiva di lavoro. Nella realtà tuttavia, ci sono tantissime persone disoccupate e in cerca di un lavoro che però non sono iscritte in questi uffici. Pensiamo a coloro che hanno finito il diritto alle indennità, agli studenti che hanno appena concluso la loro formazione, alle persone scoraggiate e in generale a tutti coloro che non hanno diritto al versamento dell’indennità.

Per compensare le lacune di questo indicatore, la statistica ha creato uno strumento che potesse quantificare meglio il fenomeno. In effetti, il tasso di disoccupazione calcolato secondo il metodo dell’ILO, si basa non sul conteggio effettivo ma su una stima dei disoccupati che viene fatta attraverso sondaggi telefonici.

È evidente che questo secondo metodo si avvicina meglio al concetto comune di disoccupati. A questo punto ci chiediamo perché non cercare di risolvere questa confusione di pensiero semplicemente specificando meglio che il tasso di disoccupazione calcolato dalla SECO in realtà non rappresenta tanto questo fenomeno quanto esclusivamente i beneficiari dell’indennità. Non sarebbe quindi più corretto semplicemente cambiargli nome, anziché andare avanti a generare un’immagine falsata dello stato di salute del nostro mercato del lavoro?

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