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L’accordo e i suoi nodi
L’accordo quadro è morto? E se non lo fosse, perché prolungarne la lenta, interminabile agonia?
Dopo l’ennesimo incontro tra le parti i quesiti aperti sono molti. Alla base della proposta di accordo c’era la volontà di avvicinare le regole istituzionali europee e quelle svizzere. Ma le cose sono andate male da subito. Il primo grande dissidio ha riguardato la cosiddetta ripresa automatica del diritto europeo. Nonostante le rassicurazioni (centralità del parlamento, possibilità di referendum, ecc.) la perdita di autonomia e di sovranità per il nostro paese sarebbe stata significativa. Nel nostro DNA di nazione è iscritta l’idea e la pratica della democrazia semi diretta: i cittadini svizzeri non sono disposti a rinunciarci.
E c’è il resto. Pensiamo al lavoro. Secondo la UE la Svizzera dovrebbe rinunciare a tutte le misure di accompagnamento e protezione del mercato del lavoro interno se sono discriminatorie nei confronti dei lavoratori comunitari. E a decidere se sono discriminatorie sono naturalmente gli stessi europei.
Un secondo, e altrettanto aspro, terreno di scontro riguarda la proibizione degli aiuti di Stato alle aziende, se questi distorcono la concorrenza. Concretamente questa misura implicherebbe, per esempio, dover rinunciare alle banche cantonali. In questo caso l’Unione Europea ha asserito di voler prendere in considerazione questa nostra “tradizione”, tramite cavilli e postille varie. Non proprio rassicurante.
Infine, vi è la questione della cittadinanza europea con il previsto ampliamento del diritto alle prestazioni sociali per i cittadini europei. In questo come nei casi precedenti, l’Unione Europea ha lasciato intendere che la questione potrebbe essere risolta aumentando l’importo del famoso miliardo di coesione pagato dalla Svizzera all’Europa, salito nel frattempo a 1.3 miliardi. A voi ogni giudizio.
Ma se su tutti questi punti non c’è una visione condivisa, per quale ragione dovremmo proseguire su questa strada? Certo, nessuno se ne può andare sbattendo la porta. Sappiamo che la UE è importante, ma anche noi abbiamo qualche freccia al nostro arco. L’Unione Europea è il nostro principale partner commerciale, vero. Ma non dimentichiamo che la Svizzera compera più di quello che vende. Nel 2018 i nostri “acquisti” in Europa permettevano di mantenere circa 500-700 mila posti di lavoro. Possiamo sommare a questo, l’effetto degli oltre 300 mila lavoratori frontalieri. Insomma per l’Unione Europea avere buoni rapporti con la Svizzera è importante, quanto per noi averne con lei. Ricordiamocene: e quando ci siederemo al tavolo la prossima volta lasciamo fuori dalla porta una certa ingiustificata sudditanza psicologica e politica che sta risultando, in ultima analisi, dannosa per i nostri interessi nazionali.

Fonte: Corriere del Ticino, 28.04.2021

Fonte Europea Commission

La profezia di Keynes: solo un sogno infranto?

Il lavoro è una parte essenziale della vita degli uomini e delle donne. Attraverso il salario consente di vivere dignitosamente soddisfacendo i propri bisogni. Ma c’è di più: contribuisce alla realizzazione degli individui. Mai come oggi però il mondo del lavoro appare in sofferenza. O forse ci sembra così perché non abbiamo vissuto le epoche precedenti. A volte il lavoro manca. Alcuni lavori sono durissimi fisicamente. Altri sono estremamente ripetitivi. Ma a tutto questo si aggiungono altre difficoltà.
L’economista John Maynard Keynes nel 1930 prevedeva una forte riduzione del tempo di lavoro grazie allo sviluppo tecnologico. Stimava che nel 2030 sarebbero bastate 15 ore di lavoro settimanali. Keynes preconizzava l’idea di un progresso tecnologico al servizio dell’essere umano. Personalmente, credo che possa essere ancora così. Questo nonostante alcuni segnali sconfortanti. Pensiamo alla Gig economy e alle professioni legate alla digitalizzazione. La messa in rete consente l’analisi immediata tra domanda e offerta. Di per sé non c’è nulla di male in una tecnologia che riduca i costi di transazione, gli attriti del mercato, che trovi più facilmente clienti e che ottimizzi il tempo. Anzi. Peccato che una parte delle imprese trasformi i vantaggi dei collaboratori in extra-profitti fatti sulle loro spalle. Così le condizioni dell’essere “imprenditori di se stessi” nascondono coperture assicurative e previdenziali inesistenti, rischio aziendale e costi fissi sulle proprie spalle, assenza di retribuzione quando manca il lavoro. Insomma, da dipendenti precari in imprenditori precari. Non proprio una grande evoluzione.
E che dire della tecnologia che diventa la nostra controllora? Sistemi informatici stabiliscono quanto produrre in quanto tempo, programmano i nostri tempi e ritmi di lavoro e controllano quanto rendiamo. Magari ora il mio computer sta contando quante lettere scrivo al minimo o il vostro telefonino quanto tempo impiegate a leggere l’articolo.
Certo la colpa non è degli algoritmi che ottimizzano. Trovare i fattorini in maniera efficiente grazie a parametri oggettivi come la distanza, il percorso da compiere o la velocità media è solo vantaggioso. Il problema non sta nella riduzione degli errori e nell’efficienza. Il problema sta negli individui che utilizzano gli algoritmi per rendere i collaboratori schiavi del tempo. Il problema è che noi consumatori premiamo con i nostri acquisiti queste aziende.
Ma la profezia di Keynes non è per forza è svanita. Nulla ci vieta di costruire una società nuova. Una società dove la tecnologia consenta agli individui di investire anche in altre attività. Una società dove il tempo diventa al servizio degli uomini e delle donne e non il contrario.
Tratto da L’Osservatore, 1 maggio 2021

Un 1 maggio di speranza per l’economia
L’economia mondiale andrà bene. O almeno è quanto prevedono i principali istituti di ricerca. Sulla scia di un ottimismo che a dire il vero per il momento trova solo piccole conferme nei dati dei primi tre mesi, l’euforia la fa da padrona. Impressionante, attorno all’8.5%, sarà la crescita della Cina che, passati i momenti più drammatici, ha ripreso la sua attività a pieno regime. Anche gli Stati Uniti cresceranno (+6.4%), ma in questo caso sotto la spinta dell’ingente intervento pubblico che probabilmente avrebbe potuto attendere qualche mese per essere annunciato. Più mite la crescita nell’Unione Europea (attorno al 4.5%) che a differenza di quanto accaduto nei primi mesi dell’anno dovrà prendere atto che la Brexit non ha fatto così male alla Gran Bretagna come alcuni presagivano. Al contrario, di questi giorni è la notizia che il suo Prodotto Interno Lordo (PIL), grazie anche all’eccellente campagna vaccinale, potrebbe crescere di quasi l’8%.
Per un’economia fortemente aperta verso l’estero come la nostra lo stato di salute dei nostri partner commerciali è fondamentale. In effetti, nel caso svizzero il 12% circa del Prodotto interno lordo dipende dalla capacità di produrre e vendere all’estero più di quanto consumiamo. E per questo il perdurare dei confinamenti e dei rallentamenti delle attività negli altri Paesi rappresentava una minaccia importante. La situazione oggi sembra rientrata tanto da prevedere anche per la Svizzera una crescita del PIL attorno al 3.5%. Trainanti saranno i settori delle esportazioni, della spesa pubblica e dei consumi interni.
E veniamo alle prospettive regionali. L’impatto della crisi è stato differente a seconda delle regioni. Nel caso del Cantone Ticino la crisi legata al Covid-19 ha accentuato le debolezze del nostro tessuto economico. Anche se queste non spariranno automaticamente con la scomparsa del virus, tuttavia potrebbe essere un’importante occasione per sanarle o quanto meno riconoscerle e prevedere interventi a medio termine.
La storia e la collocazione geografica del Cantone Ticino hanno permesso di sfruttare da sempre un ampio bacino di manodopera qualificata a basso costo. Quello che in apparenza è stato per molto tempo un vantaggio competitivo, si è rivelato un freno allo sviluppo delle attività innovative e tecnologicamente avanzate basate principalmente sulla ricerca. Per questo rispetto a quanto avviene nel resto della Svizzera, in Ticino troviamo molti posti di lavoro nei cosiddetti settori a basso valore aggiunto come parte dell’industria, il commercio al dettaglio, il turismo, la ristorazione. Purtroppo proprio questi settori hanno pagato e stanno pagando il prezzo più alto di questa crisi. Non a caso i dati sul numero di addetti e aziende che sono ricorse all’orario ridotto confermano la maggiore necessità di intervento nel tessuto locale rispetto a quanto avviene a livello nazionale. Fatto già attestato dalla richiesta maggiore di crediti garantiti dalla Confederazione durante la prima ondata.
A queste difficoltà aggiungiamo l’analisi di dati demografici su cui vale la pena chinarsi quando si guarda alle prospettive future. La bassa natalità e la sempre più frequente migrazione di giovani ticinesi non possono lasciare indifferenti soprattutto alla luce delle prospettive dei prossimi anni.
Ma lo scenario non deve sconfortare. Il Cantone Ticino ha tutte le carte in regola per riuscire a creare condizioni quadro favorevoli a uno sviluppo e a un ripensamento del suo tessuto economico. E in questo le città saranno determinanti. La prossimità, le competenze, le capacità e la voglia di innovare non mancano. Aggiungiamo enti, istituzioni e aziende coraggiose e intraprendenti che sono già oggi sulla scena internazionale e che messe in rete potranno contribuire alla creazione del Ticino di domani. Un Ticino a tutti gli effetti parte integrante di quella Svizzera che comunque vada, riesce sempre ad attutire i colpi e a ripartire garantendo ai suoi cittadini un benessere tra i più alti al mondo.

Tratto da La Rivista di Lugano, 1.05.2021

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Il passo più difficile è dimenticare il glorioso passato
La maggioranza dei fattori con cui bisogna fare i conti sfugge al controllo.
Due differenti dinamiche hanno caratterizzato il nostro Cantone negli ultimi anni. Da una parte le città considerate fino a qualche tempo fa le “sorelline minori” hanno potuto innovare, sperimentare, costruirsi un’identità più specifica che le fa apparire oggi dinamiche e con il vento in poppa. Dall’altra parte Lugano, la locomotiva del Cantone, che faceva i conti con dei cambiamenti strutturali che ne avrebbero intaccato in parte la sua stessa identità.
Pensiamo all’impatto che hanno avuto il ridimensionamento della piazza finanziaria e delle attività collegate, la riduzione dei posti di lavoro, la diminuzione delle entrate fiscali o ancora la fine di un certo turismo “di lusso”. Questi elementi accompagnati dalla necessità di gestire problematiche tipiche delle città più grandi e multietniche hanno fatto sì che il contesto si modificasse rapidamente richiedendo attenzioni particolari.
Ora però siamo a un punto di svolta. La Nuova Lugano ha tutte le carte per programmare il suo sviluppo futuro. Il compito non è semplice, soprattutto quando richiede la capacità di estraniarsi dal presente in cui si vive e si decide, per proiettarsi nei dieci-quindici anni successivi. L’orizzonte temporale per le grandi manovre purtroppo non è mai il breve termine. Così Lugano dovrà scegliere su quali settori e ambiti scommettere. Poi dovrà avere il coraggio di costruire le condizioni quadro favorevoli e soprattutto di investire.
Di certo la città non parte da zero. Potrà sfruttare la sua posizione tra due metropoli come Zurigo e Milano; il suo essere città universitaria che si svilupperà ulteriormente grazie alla facoltà di scienze biomediche; le competenze della piazza finanziaria e del settore del commercio delle materie prime; la rinascita di un turismo di qualità. Senza dimenticare tutto ciò che si sta sviluppando nell’agglomerato luganese: dall’intelligenza artificiale, alla farmaceutica, dalle scienze infermieristiche, alla tecnologia.
Le possibilità non mancano. Tuttavia, come per ogni cambiamento, probabilmente il passo più difficile è mettere da parte il glorioso tempo che fu.
Tratto da il Caffè, 14.03.2021

Parità salariale: una chimera
“Essere donna è così affascinante. È una avventura che richiede tale coraggio, una sfida che non annoia mai”. Avventura, coraggio, sfida: poche parole con cui Oriana Fallaci riassume la vita delle donne. E c’è una sfida in particolare che ancora la nostra società non ha vinto: la parità nel mondo del lavoro. I dati appena pubblicati dalla statistica nazionale confermano che la differenza salariale è ancora estremamente alta e raggiunge il 19%. Vuol dire che mediamente una donna guadagna un quinto in meno di un uomo. Se si riesce a trovare alcune “giustificazioni” oggettive a questa differenza come l’età, la formazione o il ruolo ricoperto in azienda, rimane una fetta di oltre il 45% di questo divario che non trova nessuna ragione reale, se non quella che le donne guadagnano meno perché sono donne.
Ma non finisce qui. Le donne faticano troppo a raggiungere le posizioni dirigenziali. Ancora nel 2020 solo il 4% delle donne occupate è membro di direzione e solo il 17% ha una funzione direttiva. Una recente analisi ha appena confermato che nelle grandi aziende svizzere quotate nello Swiss Market Index le donne nelle direzioni sono solo il 13%; “naturalmente” non c’è nessuna presidente. Questo porta la Svizzera a occupare l’ultimo gradino della classifica.
Eppure le donne capaci, competenti e formate ci sono, eccome. Negli ultimi anni le percentuali di donne tra i 25 e i 44 anni che hanno una formazione terziaria sono addirittura più alte di quelle maschili. Ma ancora innumerevoli ostacoli impediscono loro di riuscire a raggiungere le posizioni gerarchiche più elevate. Probabilmente uno di questi è il fatto che quasi il 60% delle donne lavora a tempo parziale, mentre la percentuale scende al 20% nel caso degli uomini. Questo fa sì che quando si tratta di investire nella formazione o nella carriera di una persona tendenzialmente le aziende privilegino i profili maschili occupati a tempo pieno. Spesso si ritiene che le donne lavorino a tempo parziale per scelta personale, ma quando si consultano i dati sulla sottoccupazione si scopre che quasi il 12% di loro vorrebbe lavorare di più di quanto fa. Quindi anche quello della sottoccupazione è un problema prevalentemente femminile.
Come un problema prevalentemente femminile è quello dei bassi salari: in questo caso le donne rappresentano oltre il 60% delle persone che guadagnano meno di 4000 franchi al mese. Come facilmente intuibile, quando rovesciamo la piramide e guardiamo ai salari più alti di 16000 franchi, le donne spariscono e sono meno del 20%.
Insomma, senza alcun dubbio e senza toccare le altre dimensioni della vita, anche nel mondo del lavoro «essere donna è così affascinante. È un’avventura che richiede tale coraggio, una sfida che non annoia mai».
Fonte: L’Osservatore- -06.03.2021

Le disparità salariali crescono
Tra il 2014 e il 2018 in Svizzera sono aumentate le differenze nelle retribuzioni tra uomini e donne e con la pandemia il trend rischia di peggiorare Mauro Baranzini: «È un gap che penalizza tutta l’economia» – Amalia Mirante: «Bisogna imporre misure correttive sul mercato del lavoro»
Da anni in Svizzera si discute di disparità salariale tra uomo e donna. Tuttavia la situazione, anziché migliorare, sta decisamente peggiorando. Stando agli ultimi dati pubblicati dall’Ufficio federale di statistica, non solo la forbice tra salari di uomini e donne si allarga, ma addirittura quasi la metà delle disuguaglianze sono ormai considerate inspiegabili. Le donne, evidenzia l’UST, nel 2018 rappresentavano il 60,9% delle persone che guadagnavano meno di 4.000 franchi al mese (per un posto equivalente a tempo pieno). Al contempo l’81,2% di coloro che hanno una busta paga superiore ai 16.000 franchi sono uomini. Inoltre nel 2018 le donne guadagnavano mediamente il 19% in meno rispetto ai loro colleghi uomini. Tale dato è in crescita: era del 18,3% nel 2016 e del 18,1% nel 2014. Come è stato evidenziato sabato in occasione dell’«Equal Pay Day», in pratica è come dire che le donne, rispetto agli uomini, fino al 20 di febbraio lavorano gratis. «Purtroppo non mi aspettavo dati diversi – spiega Amalia Mirante, docente di economia presso USI e SUPSI – e temo che potrebbero peggiorare notevolmente nella prossima statistica. Ci sono ancora tante distorsioni nel mercato del lavoro che necessitano di correttivi».
Fattori chiari e meno chiari
Una parte «spiegabile» delle disparità viene ricondotta vari fattori. Ad esempio gli anni di formazione, di servizio e la posizione gerarchica occupata in azienda. Più è elevata la funzione di quadro esercitata, più marcata è la differenza salariale tra uomini e donne. Anche il ramo economico gioca un ruolo: secondo l’UST raggiungevano l’8,1% nel settore alberghiero e della ristorazione, il 17,7% nel commercio al dettaglio, il 21,7% nell’industria metalmeccanica e addirittura il 33,4% nelle attività finanziarie e assicurative. «Però ci sono alcune riserve sulla quota spiegabile», spiega Mauro Baranzini, economista e già decano della Facoltà di scienze economiche dell’USI. «Ad esempio è noto che le donne chiedano molti meno aumenti degli uomini. E poi anche i fattori biologici sono molto discriminanti. Con essi ci si riferisce non solo all’avere bambini, ma anche al fatto che l’80% delle faccende che riguardano l’economia domestica viene svolto dalle donne». D’altra parte, continua Baranzini, «è assai preoccupante la crescita della quota “inspiegabile” degli ultimi anni». Secondo i dati UST, la proporzione era al 42,4% nel 2014 ed è arrivata al 45,4% nel 2018, che corrisponde in media a 684 franchi al mese nel 2018 (contro i 657 franchi del 2016). Oltre a variare a seconda del ramo economico, è molto più elevata per le piccole imprese ma diminuisce a seconda del grado gerarchico.
Effetto pandemia
I dati UST arrivano solo fino al 2018 e con la pandemia non c’è da aspettarsi alcun miglioramento per le donne. Anzi. «Le lavoratrici sono state le grandi vittime della crisi economica», spiega Mirante. «Guadagnano meno, hanno lavori più precari, spesso concentrati nei settori più colpiti dalla pandemia. Alla perdita dei posti di lavoro si aggiunge il fatto che in vari Paesi sono state principalmente le donne a seguire i figli nella didattica a distanza o ad accudire gli anziani. Il che le ha allontanante ancora di più dal mercato del lavoro. Quindi sono state colpite due volte». E questo in tutto il mondo. «In India ad esempio – prosegue Baranzini – hanno perso il lavoro quasi solo le lavoratrici. Negli USA su cinque posti persi quattro erano occupati da donne, tra l’altro spesso alla testa di una famiglia monoparentale. E anche alle nostre latitudini, in Ticino nel 2019 e nel 2020 le donne hanno perso molti più posti di lavoro rispetto agli uomini».
Dal 1981 nella Costituzione federale si legge: «Uomo e donna hanno diritto a un salario uguale per un lavoro di uguale valore». Eppure il problema peggiora, dove sta l’inghippo? «Forse – spiega Baranzini – perché il mercato del lavoro è diventato sempre di più una giungla che premia solo la produttività. Questo va contro la tanto agognata uguaglianza. Le donne sono penalizzate dalle questioni biologiche, storiche e culturali. Sono ancora tanti i datori di lavoro convinti che il salario femminile sia solo un supplemento al bilancio familiare. Non aiuta neanche il fatto che i quadri dirigenti, più anziani, prendono decisioni che subiscono i giovani. Da un punto di vista economico il problema danneggia tutta la società, la crescita sarebbe maggiore se ci fossero pari opportunità».
Cosa fare?
I sindacati ieri hanno condannato a gran voce il problema, esigendo misure per invertire la rotta. L’Unione sindacale svizzera sottolinea come la revisione della legge sulla parità dei sessi, entrata in vigore la scorsa estate, sia arrivata troppo tardi. «Essa deve pertanto venire attuata in modo più proattivo e sistematico».
Come? «Oggi le donne sono più formate degli uomini», spiega Mirante. «Solo che i meccanismi di selezione, assunzione e promozione sono gestiti ancora prevalentemente da figure maschili influenzate da un certo vissuto. E allora ci vogliono dei correttivi sul mercato del lavoro. Ad esempio le quote rosa, introdotte dai Paesi nordici vent’anni fa. Oppure i congedi parentali, grazie ai quali si elimina la concorrenza biologica tra uomo e donna quando si diventa genitori. Si potrebbe inoltre pensare ad una società a tempo parziale per tutti, uomini e donne. Sono misure che vanno imposte, perché se si lascia la scelta non si eliminano queste forme di concorrenza tra uomini e donne che portano alle disparità. E dovessimo attendere l’evolversi naturale della situazione potremmo dover aspettare altri 50 anni almeno, prima che il tema delle disparità non sia più tale».
Fonte: Articolo Erica Lanzi- Corriere del Ticino -23.02.2021

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Il Ticino cresce, ma troppo poco
Una recente analisi fatta dalla Banca Cler insieme all’istituto BAK Economics mostra l’andamento dei redditi e dei patrimoni tra il 2007 e il 2017 per la Svizzera e i suoi Cantoni. Il documento è molto completo e interessante e conferma ancora una volta le difficoltà strutturali dell’economia del Cantone Ticino.
Anche se alcune voci sono in crescita, purtroppo questa è di gran lunga più bassa di quella del resto della Svizzera. Ciò ci porta inevitabilmente a vedere il divario tra noi e i cugini confederati aumentare. È come se diventassimo sempre più poveri rispetto al resto degli svizzeri. I dati sono chiari. Sia che analizziamo i redditi medi, i redditi mediani, i redditi più bassi o quelli più alti o ancora sia che analizziamo le diseguaglianze le cose non cambiano: il Ticino viaggia a una velocità ridotta rispetto al resto della Svizzera. Non stupiamoci quindi che i nostri giovani una volta finiti gli studi facciano le valigie ed emigrino oltre Gottardo. Come non dobbiamo stupirci che una volta andati all’università non tornino più indietro e mettano su famiglia altrove. Ma questo significa che il nostro Cantone invecchia e muore.
A costo di apparire controcorrente, ritengo che la risposta al problema della denatalità e dell’invecchiamento della popolazione non sta nella ricerca di idee geniali dell’ultima ora per attrarre persone nuove o nell’invenzione di fantasiose politiche famigliari. La risposta deve essere una sola: supportare le aziende del nostro Paese affinché possano iniziare un processo di cambiamento epocale. Dobbiamo smettere di vestire i panni della Cenerentola della Svizzera. E in questo lo Stato deve essere presente. Vanno bene gli aiuti in questo momento di difficoltà, ma la nostra società deve essere fondata su un’economia solida e florida e non su un’economia di sostegno di breve periodo o peggio ancora assistenzialista. Questo significa che gli aiuti devono diventare forme di sostegno alla transizione, al cambiamento, di messa in rete delle attività, di riqualifica e formazione, di partnership pubblico-privato nei settori innovativi. Dobbiamo superare quelli che una volta sono stati i nostri vantaggi competitivi come la vicinanza territoriale all’Italia e la possibilità di attingere a manodopera qualificata a costo più basso. Questo ci ha portati a sviluppare un’economia intensiva di lavoro sacrificando l’innovazione.
Ora dobbiamo lavorare per avere un’economia che consenta finalmente ai nostri e alle nostre giovani di trovare lavori qualificati con stipendi dignitosi che tengano conto delle loro competenze. Dobbiamo permettere ai nostri figli e alle nostre figlie di poter vivere del proprio lavoro nel proprio Cantone. Lo Stato c’è e deve esserci sempre per sostenere i suoi cittadini e le sue cittadine, ma non deve diventare l’alternativa a un’economia sana.
Tratto da “Corriere del Ticino” – 12.02.2021

Lo Stato deve intervenire
A colloquio con Amalia Mirante, docente di economia politica alla SUPSI e all’USI: il debito pubblico del Canton Ticino che cresce, le imprese in crisi e il lavoro che scarseggia. «Ci vuole un’idea di cosa vogliamo fare di questo Cantone».
Partiamo dalla situazione economica del Canton Ticino: un debito pubblico con 250 milioni in rosso, le imprese in affanno e il lavoro che scarseggia, anche a causa del Covid…
La pandemia ha messo in evidenza le debolezze e le fragilità. Poter disporre di manodopera qualificata a costo più basso ci ha spinti a sfruttare il vantaggio competitivo del prezzo, ma non si è puntato su un’economia intensiva di capitale e sul progresso tecnologico. Ora c’è un’economia ferma, nonostante le Università e i Centri di ricerca: l’economia non ha seguìto, mentre di solito anticipa. Ci si attende assai più dall’intervento dello Stato. Pensiamo ai posti di lavoro persi delle ex regie federali. O alla perdita di centri decisionali nel ramo bancario. Abbiamo ottime possibilità formative investendo nel capitale umano, ma poi i ragazzi non trovano un mondo del lavoro che consenta loro di avere posti in funzione delle competenze acquisite. Tanti vanno via. Passano il Gottardo e trovano un “nuovo mondo”, sono assunti e valorizzati. Questo spaventa.
Che fare?
La prima cosa è riconoscere il problema e lo Stato deve intervenire. Non significa fare pianificazione economica. Ma avere un’idea di cosa vogliamo fare di questo Cantone. Non per diventare la Silicon Valley della Svizzera. Il settore della moda è stato presente con aziende a livello internazionale, ma non si è portato un binario agli stabilimenti né si è pensato a percorsi formativi, collaborazioni internazionali. Il Ticino fa parte della Svizzera. Abbiamo molti settori cui offrire una mano per i processi di automazione e digitalizzazione. Quante aziende vorrebbero e non hanno i mezzi?
C’era stato ai tempi il “Libro Bianco” di Marina Masoni.
Bene, facciamo un “Libro Fucsia”. Magari all’epoca non ne condividevo un punto, però c’era una prospettiva. Adesso se chiediamo a chiunque quali siano le linee guida non lo sanno. Lo Stato non deve mettersi a fare l’economia, ma avere un’idea di cosa vuole sul territorio. Viaggiamo invece sul terrore dei preventivi e del debito pubblico. Non siamo, con tutto il rispetto, dei contabili. Poi la perequazione può anche esser messa in discussione con le chiavi di riparto, senza chiedere l’elemosina, perché il Ticino paga un prezzo più alto nel rispetto degli accordi bilaterali. Non possiamo esser la Cenerentola della Svizzera, perché non c’è il principe.
Torniamo al debito pubblico: molti professori e pochi maestri?
Io ho avuto un grande maestro nella vita, il Prof. Mauro Baranzini. Ci ricorda spesso che nel 1850 il debito era al 300% del PIL. Eppure il Canton Ticino è qui. Il problema è cosa fare delle risorse. Manca la capacità di prender decisioni coraggiose come con la SUPSI e l’USI: non basta avere bravi amministratori. Ci possono essere progetti speciali legati al post Covid e si potrebbe sottoscriverne i titoli a tassi bassi, pure per le Casse pensioni, per finanziare investimenti coraggiosi e avere aziende competitive. Prima bisogna riconoscere il problema e poi tracciare una nuova frontiera.
Economia significa risparmio e, nell’etimologia, norme per la casa: femminile o maschile?
Riguarda la buona conduzione della casa. Ma era sempre l’uomo a preoccuparsi, almeno in apparenza, del bilancio. Ci sono state donne che hanno dato contributi importanti, come Harriet Taylor Mill, Joan Robinson e, oggi, Janet Yellen. Poche donne hanno trovato spazio nella storia dell’economia, come purtroppo è avvenuto in altre discipline. Oggi per fortuna le studentesse scelgono sempre più materie vicino all’economia, e la politica dell’anno è la Merkel.
Crede nelle differenze di genere?
Sì, proprio la diversità consente di arrivare a una soluzione migliore. Anche le grandi aziende se ne accorgono: avere persone a livello decisionale maschili e femminili consente di trovare scelte che conducono l’azienda al successo. Confronto e complementarietà sono la carta vincente.
La prassi indiana dice che la mucca è di chi ne beve il latte. Come cittadini dovremmo “nutrirci” di più di economia?
L’economia è uno degli strumenti più preziosi per capire le società. La si conosce poco, e come le scelte in suo nome siano gravide di effetti. Il sistema economico è stato creato dall’uomo per facilitargli la vita nella soddisfazione dei bisogni. È una scienza e comprende il lato psicologico, l’etica, il fatto che le decisioni non possano prescindere dal frangente storico e ambito sociale, fino a prevedere l’evoluzione futura per intervenire in modo razionale. È la regina delle scienze sociali. Se non ti occupi di economia, l’economia si occupa di te. Lo dico spesso ai miei studenti e studentesse: si ha l’abitudine di saltare nei giornali le pagine di economia. Eppure, le notizie che sembrano così lontane sono invece prossime a noi. Per questo tutti dovrebbero conoscerne le basi.
Imparandola a scuola o strada facendo?
Non penso si possa aggiungere anche l’economia nelle scuole medie. Ben venga però un avvicinamento a tematiche legate ai giovani, per esempio per prevenire i problemi dell’indebitamento. La gestione del denaro è un tema importante. Meglio diffonderne la consapevolezza, senza spaventare. Troppe persone dicono: “non guardo l’economia perché troppo difficile e non capisco”. In parte è colpa degli economisti cui piace usare un linguaggio elitario; certe parole rendono l’economia più scienza di quanto sia. Per spiegare il prodotto interno lordo (PIL) non sono necessarie conoscenze tecniche. La maggior parte dei concetti dovrebbe essere qualcosa di cui si parla come sui fatti di cronaca.
In questa linea si inserisce il blog lanciato qualche settimana fa.
All’inizio ero molto concentrata sul tecnicismo, poi ci si rende conto che per rendere i concetti comprensibili bisogna usare esempi semplici. Ho fatto piccoli video informativi, con l’uso della lavagna – uno degli strumenti didattici migliori al mondo – per esempio sulle previsioni, parlando di consumi e investimenti. Così si affrontano argomenti importanti nel quotidiano. Se il PIL quest’anno va indietro, è un problema di tutti: produzione, posti di lavoro, gettito dello Stato. Nel blog ci sono articoli di attualità e sto costruendo un vocabolario di economia con esempi. Non un libro di testo per l’università, un libro di vita.
Infine, nell’arredamento del suo ufficio non domina il color grigio, ma il rosa o fucsia. Perché?
Appartengo alla categoria degli economisti ottimisti: critici, ma alla ricerca di soluzioni. Se parliamo per esempio sulla tassa del CO2, analizzando i fattori storici, culturali e sociali, cerco di mettere in evidenza come la soluzione oggi proposta in Svizzera non sarà magari così efficace come altre.
Il ritratto
Amalia Mirante, docente di economia politica alla SUPSI e all’USI, ha conseguito a Lovanio un diploma in etica economica e sociale. Essere donna è affascinante, sta scritto nel suo ufficio a Manno. Dice di sé: «Sono e rimango figlia di operai. Non mi spaventa lavorare inginocchiandomi per pulire un pavimento. Mi spaventa di non avere un pavimento da pulire». Pubblica un blog: http://www.economiaconamalia.com
Testo: Corrado Bianchi Porro; Foto: Sandro Mahler – tratto da Cooperazione 01.02.2021

La pandemia mette a nudo la fragile struttura del Ticino
Innegabile: le attività economiche soffrono e soffriranno nei prossimi mesi. Le aziende e gli artigiani del Cantone Ticino non saranno un’eccezione, anzi. Proprio in questi giorni sono stati pubblicati i dati del prodotto interno lordo (PIL) dei Cantoni per il 2018. Il calcolo basato sul valore aggiunto permette di capire quali settori contribuiscono maggiormente alla produzione di valore dei beni e dei servizi. Siamo così in grado di scoprire quali sono le vocazioni di ogni Cantone. Con tutti i limiti di cui bisogna tener conto dei dati cantonali è possibile evidenziare le differenze principali tra il Cantone Ticino e il Canton Zurigo. E capire come la crisi sta impattando sul nostro Cantone e quali saranno le conseguenze per il futuro.
La prima considerazione da fare è che Zurigo si conferma la locomotiva nazionale producendo oltre il 22% del PIL svizzero; il Cantone Ticino contribuisce con il 4%. La seconda considerazione riguarda le principali differenze nella creazione di valore da parte dei settori. Due dati spiccano su tutti: il settore industriale composto dalle attività estrattive, di produzione e dal settore delle costruzioni produce circa un quarto del PIL ticinese. Questa percentuale si riduce al 12% nel caso zurighese. Limitiamo a questo dato la considerazione senza entrare nei dettagli delle differenti aziende che costituiscono il tessuto industriale dei due Cantoni. Il secondo settore “particolare” è quello dei servizi finanziari e assicurativi che contribuisce al 20% del PIL di Zurigo e solo al 7% del Ticino.
Queste differenze rappresentano proprio il caso da manuale: due economie strutturalmente differenti, una basata su attività ad alto valore aggiunto (che consentono la distribuzione di salari alti) e una basata su attività cosiddette a basso valore aggiunto. La terza considerazione riguarda la produttività che è il valore della produzione per ogni ora di lavoro effettuata. Anche in questo caso, purtroppo, il Ticino è il fanalino di coda e lo è da molti anni.
Se a queste considerazioni si aggiunge che il nostro tessuto imprenditoriale è composto da micro e piccole imprese, che non abbiamo sul territorio centri decisionali e che abbiamo perso posti altamente qualificati delle ex- regie federali, si comprende quanto la nostra economia sia estremamente sensibile alla congiuntura nazionale e internazionale. Quasi paradossalmente, ciò che dovrebbe accadere in queste circostanze è che ai Cantoni più fragili si riservino maggiori risorse (soprattutto attraverso la perequazione inter-cantonale). Purtroppo non andrà così e ancora una volta il Cantone Ticino potrà contare solo sulle sue forze e sulla sua resilienza.
In attesa che qualcuno prenda per mano lo sviluppo di questo Cantone e lo faccia assomigliare un po’ di più ai cugini confederati.
Tratto da “L’Osservatore” – 23.01.2021

Stato, aziende e il grido d’aiuto
Le cose in Svizzera non stanno andando così bene come previsto dagli analisti più ottimisti. La seconda ondata pandemica non accenna ad arrestarsi e le chiusure delle attività di alcuni settori, non solo potrebbero essere prolungate, ma addirittura estese ad altri. Se è vero che nulla o poco possiamo fare contro l’incertezza sanitaria legata alla diffusione del virus e all’efficacia dei vaccini, molto invece avrebbe dovuto essere fatto contro l’incertezza economica. Purtroppo in questa seconda ondata il Consiglio Federale sembra aver mancato gli obiettivi. È bizzarro che a quasi un anno dall’inizio di questa pandemia non sia stata ancora pensata ed impostata una strategia di risposta alle difficoltà economiche; diciamocelo, erano l’unica cosa certa. È pur vero che non sono molti gli strumenti a disposizione dello Stato e che non ci siano grandi manovre da inventare. Bastava dare un’occhiata a quanto stanno facendo gli altri Paesi. Eppure così non è stato. Dopo una prima risposta ottimale basata sulla garanzia statale dei crediti alle imprese e sull’ampliamento dell’orario ridotto, è venuta a mancare una strategia di lungo termine. Certo l’economia vive di cicli economici: a fasi di prosperità, seguono fasi di ristagno e difficoltà economica. Ma questa non è una situazione normale e le conseguenze sono paragonabili a quelle di un grande conflitto armato. Fortunatamente oggi abbiamo uno stato sociale che può sostenere le persone in difficoltà, ma affinché il sistema regga è necessario che l’economia lo sostenga. Questo significa che è necessario che i nostri ristoranti, i commerci, i garage, gli studi legali, le palestre sportive, i saloni d’estetica e tutte le attività economiche possano sopravvivere a quella che sarà una lunga pandemia. Per farlo, non ci vogliono miracoli, ci vuole una strategia economica. Fatichiamo a capire che a distanza di un anno non ci siano ancora le basi legali e i crediti per dare risposte concrete, immediate ed efficaci. Al grido d’allarme che arriva da tutti i settori economici bisogna rispondere. E la risposta deve essere rigorosa, efficiente ed efficace. Non è possibile andare avanti mettere cerotti qua e là.
Un buon programma economico potrebbe prendere in considerazione tre misure: un primo piano di intervento d’urgenza, una fase di interventi strutturali e infine l’elaborazione di un programma di investimenti pubblici di lungo respiro.
L’intervento d’urgenza potrebbe considerare strumenti di sostegno immediati alle aziende come contributi non rimborsabili, compensazioni per il calo del fatturato, sussidi una tantum. Le misure strutturali dovrebbero includere strumenti per permettere alle aziende di sfruttare questi tempi di sottoccupazione per implementare quei cambiamenti che consentano loro di diventare più competitive: rinnovo delle strutture e degli impianti, formazione e consulenza, progettazione del passaggio all’automazione e alla digitalizzazione. A complemento, ma questo anche in una seconda fase, si dovrebbe iniziare la riflessione per un mega-piano di investimenti con un mix pubblico-privato. Tanti i settori su cui puntare: quello clinico-ospedaliere, della farmaceutica, della meccanica ed elettronica, dell’intelligenza artificiale, e della sostenibilità energetica, per citare i più importanti. È in questi campi che il nostro Paese riuscirà a mantenere la sua forte competitività economica e commerciale superando anche questa crisi e gettando le basi per un futuro solido e sostenibile.
Tratto da “Corriere del Ticino” – 13.01.2021

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I disavanzi del Cantone
Il Cantone ha aggiornato i dati delle finanze pubbliche. I conti di quest’anno chiuderanno con una perdita di quasi 250 milioni di franchi. Lo Stato spenderà molto di più di quello che incasserà. L’andamento negativo dipende principalmente dal fatto che le persone e le aziende guadagneranno molto meno e questo le porterà a pagare proporzionalmente ancor meno imposte; imposte che rappresentano la fetta più importante delle entrate dello Stato. Ecco perché di solito si auspica che l’economia sia solida e in crescita: non solo per il sistema economico, bensì ancora di più per i nostri sistemi sociali. Perché con imposte dirette progressive una crescita del 2% assicura un aumento del 3% e più al fisco. Il lato delle entrate però è quello che dovrebbe preoccupare di meno: una volta passata la crisi, il sistema dovrebbe ricominciare a funzionare e le entrate a crescere. Anche se in questo caso l’impatto è stato molto forte, parleremmo di un “normale” ciclo economico.
Affinché però le cose vadano in questa direzione, l’economia adesso e per i prossimi mesi necessita di un deciso e diretto sostegno finanziario. La maggior parte delle attività economiche ha visto i ricavi scendere drasticamente, mentre i costi fissi come l’affitto, l’elettricità, i leasing dei macchinari, i prestiti sono lì da pagare. Date le misure adottate a causa della seconda ondata e il paventato avvento di una terza, le cose non sono destinate certo a migliorare.
Ora saremmo tentati di credere che le maggiori spese che appaiono nei conti del nostro Cantone siano legate proprio a questo tipo di risposta alla crisi del Covid-19. Purtroppo non sembra essere il caso. Gli aumenti della spesa registrati e previsti per quest’anno riguardano esclusivamente la gestione immediata delle conseguenze sulla salute della pandemia: costi maggiorati per i ricoveri, materiale sanitario, misure atte a garantire il distanziamento. Insomma, nelle spese sostenute quest’anno non c’è traccia, o quasi, di interventi a supporto delle attività economiche. Eppure i conti chiuderanno in negativo.
Purtroppo la stessa riflessione può essere fatta guardando alla previsione dei conti dell’anno prossimo. Anche in questo caso, il deficit previsto dipenderà principalmente da oneri e misure che sono il frutto di decisioni cantonali e nazionali, ma che nulla, o poco, hanno a che vedere con l’aiuto diretto all’economia e alla salvaguardia dei posti di lavoro di questo Cantone.
È questa la vera ragione per cui i deficit di quest’anno e dell’anno prossimo sono un problema di cui è necessario occuparsi. Se i deficit vengono fatti per rilanciare l’economia e il circuito virtuoso del mondo del lavoro, nessun problema, anzi. È proprio questo lo strumento della spesa pubblica e la medicina da somministrare all’economia. Il problema sorge quando le spese “ordinarie” non sono più coperte dalle entrate. Dimentichiamoci, tuttavia, in questo momento di crisi economica di chiedere aumenti delle imposte. Quando tutto sarà passato potremo anche pensare a contributi eccezionali per dare una svolta a questo Cantone. Non ora. Non commettiamo l’errore di aggravare ulteriormente la situazione economica delle persone e delle aziende. La tempesta si trasformerebbe in un uragano.
E concludo con un auspicio per gli addetti ai lavori: non nascondiamoci dietro alla crisi del Covid-19, le finanze pubbliche necessiteranno presto di essere curate e analizzate voce per voce, una per una. Senza dimenticare che siamo una Confederazione e che anche altri dovrebbero prenderci maggiormente in considerazione.
Tratto da “Corriere del Ticino” – 14.12.2020

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Un “Green Deal” senza la Svizzera
Quando il 12 dicembre 2015, è stato sottoscritto l’Accordo di Parigi, gli obiettivi fissati dai Paesi sembravano molto ambiziosi. È con la nascita dei movimenti per il clima che sono diventati realmente realizzabili. Sono riusciti a portare all’attenzione pubblica un tema che da decenni occupava e preoccupava scienziati e tecnici.
Qualcosa è cambiato anche nell’economia. Da sempre gli economisti spiegano che il prezzo di un bene deve considerare tutti i costi, anche quelli che ricadono sulla società, come per esempio i danni ambientali. Eppure erano poche le imprese che si preoccupavano di queste esternalità negative. Oggi qualcosa è cambiato. I consumatori sono più sensibilizzati e si interessano all’impatto ambientale dei beni acquistati. Come succede (quasi) sempre in economia, la domanda influenza l’offerta. Ecco quindi le aziende rispondere di conseguenza. Obiettivi di produzione a zero emissioni nette, agricoltura rigenerativa, riforestazione, uso di energia da fonti rinnovabili, compensazione delle emissioni di gas a effetto serra; dalle compagnie aeree, ai marchi di moda, dall’high-tech al settore alimentare, non c’è multinazionale che non annunci quotidianamente questi obiettivi. Magari non sono mosse da grandi ideali, ma il risultato non cambia: se vogliono sopravvivere devono anticipare i tempi.
Anche la politica non è stata a guardare. La maggior parte delle Nazioni ha abbandonato le vecchie tasse punitive sul consumo in favore di strumenti normativi. Si sa che, per esempio, il consumo di benzina non solo non si riduce con l’aumento delle tasse, ma colpisce anche le persone più deboli. In aggiunta potrebbe pure avere effetti contrari sulla motivazione delle persone sensibili all’ambiente. La strada scelta oggi è sicuramente più coraggiosa: obbligare con le leggi i produttori ad adeguarsi. Norvegia, Olanda e India avevano già aperto la strada qualche anno fa annunciando entro un decennio il divieto della vendita di auto a benzina o diesel. Ora sempre più Nazioni seguono e di conseguenza le compagnie petrolifere si riconvertono investendo nelle energie rinnovabili.
Ma non è solo il privato a fare queste scelte. Diverse Nazioni hanno lanciato piani di investimenti pubblici sostenibili. L’unione Europea ha previsto l’apertura di un bando di gara, l’European Green Deal, di 1 miliardo di euro per progetti di ricerca e innovazione che affrontino la crisi climatica e proteggano la biodiversità.
Purtroppo in tutto questo la Svizzera è in ritardo: nessuna grande spesa di investimento pubblico, nessuna regolamentazione coraggiosa, ma solo una “vecchia” tassa punitiva sul CO2. Per fortuna che il nostro mercato è troppo piccolo per influenzare la produzione e anche noi godremo dei vantaggi delle scelte politiche fatte dagli altri Stati.
Tratto da “L’Osservatore” – 12.12.2020

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E ora tocca allo Stato
Nessuno vuole un secondo lock-down. Eppure, a distanza di pochi mesi, siamo tornati al punto di partenza e le attività economiche soffrono, persino quelle che parevano essersi riprese. E soffriranno ancora di più nelle prossime settimane e nei prossimi mesi.
Qualunque saranno le decisioni prese dal governo, un solo messaggio conta: il governo sosterrà e garantirà le piccole e medie imprese, gli artigiani e tutte le attività che saranno messe a dura prova nei prossimi mesi.
Durante la prima chiusura, la Confederazione ha messo in atto misure immediate che hanno dato i loro frutti. Tra le più importanti c’è stata la garanzia statale ai crediti e l’ampliamento e la facilitazione all’accesso all’orario ridotto. Queste due misure sono state fortemente utilizzate nei primissimi mesi della crisi. Tuttavia, anche allora sapevamo che se l’emergenza fosse proseguita, avremmo dovuto valutare misure supplementari. Ed è proprio ciò che dobbiamo fare ora, quando si prospettano mesi molto difficili le cui conseguenze, dal punto di vista economico, si potrebbero paragonare a quelle di una guerra.
Le piccole e medie imprese, gli artigiani, i ristoratori, le attività legate al trasporto e al turismo: tutti gli attori economici ma anche quelli che svolgono un ruolo più sociale hanno fatto quanto era nelle loro possibilità per sopravvivere. Ciò va riconosciuto. Ora, in questa fase di ulteriore incertezza che tocca tutta l’Europa, la Svizzera e il Canton Ticino devono mandare un segnale chiaro di rassicurazione, sostegno e stabilità. Devono trasformare l’incertezza in sicurezza; sicurezza che lo Stato c’è e ci sarà.
La politica fiscale, in particolare quella legata alla spesa pubblica, si può modulare per ottenere impatti specifici e sostenere i bisogni nella maniera più efficace, efficiente ed equa. Ed è questo che deve essere fatto. Regioni, settori, e addirittura attività all’interno di un medesimo settore vivono questa situazione in maniera differente. Per questo le misure devono essere mirate in modo molto preciso.
Il primo passo sarà pensare misure per arginare le conseguenze immediate di questa crisi: compensazioni per cali di fatturato, contributi una tantum, sussidi diretti per piccole imprese, creazione di fondi specifici per i settori, sovvenzioni, tanto per citarne qualcuna. Nulla ci vieta di guardare a ciò che già altri Paesi hanno fatto.
Il passo successivo sarà trasformare queste misure congiunturali in misure che consentano di risolvere problemi strutturali: pensiamo per esempio al settore del turismo e al rinnovo degli stabili. O ancora la possibilità di sostenere la messa in rete delle attività, la creazione di banche dati, la formazione e la consulenza per le aziende che potranno così migliorarsi ed essere più competitive al momento della partenza.
Infine, lo Stato dovrà ideare (finalmente!) un piano di investimenti a sostegno non solo dell’economia, ma in favore di una vera svolta ambientale.
Di fronte a una crisi economica di portata tale da poter essere paragonata a una guerra mondiale, i governi non potranno permettersi il lusso di fare i contabili. Dovranno rispondere con forza e coraggio per mantenere, sostenere e magari rindirizzare il nostro tessuto economico. L’economia (e la storia) ci insegna che è nei momenti come questi che bisogna sostenere direttamente le attività economiche. Smettiamola di alimentare presunti conflitti tra salute ed economia. L’economia è il nostro quotidiano: quando cambiamo l’olio al motore, quando andiamo dal dentista, quando prendiamo il bus, quando mangiamo una pizza al ristorante, quando chiamiamo l’elettricista. Questa è l’economia che deve essere aiutata; questi sono i posti di lavoro che rischiamo di perdere. Smettiamola di associare il pensiero dell’economia alle grandi multinazionali; probabilmente, e fortunatamente, loro sopravvivranno anche questa volta. Sono i piccoli e medi imprenditori che bisogna aiutare. Affitti, leasing di macchinari, prestiti per aprire la propria attività: queste spese devono oggi essere compensate.
Non si tratta di spendere per spendere. Dobbiamo aiutare le imprese a salvare migliaia di posti di lavoro, i nostri e quelli dei nostri figli e figlie. La Svizzera è una delle nazioni meno indebitate al mondo: lo possiamo fare, lo dobbiamo fare. Magari creando un debito pubblico ad hoc, una specie di piano Marshall.
È il momento delle grandi decisioni: sapremo essere all’altezza?
Tratto da “Corriere del Ticino” – 29.10.2020

La discriminazione inconscia mina il lavoro femminile
Le donne guadagnano meno, occupano posizioni gerarchiche inferiori, lavorano principalmente in settori peggio pagati e, anche a parità di competenze, faticano a raggiungere i colleghi uomini: sono tutti fatti ormai acquisiti.
La crisi del coronavirus ha accentuato ancora di più la fragilità del lavoro femminile. Le donne si sono fatte carico dell’accudimento dei figli e dei famigliari più degli uomini. Ma sono anche state le prime vittime silenziose della crisi economica. In Ticino, per esempio, nel II trimestre di quest’anno 5’700 occupati sono spariti dalla statistica. Di questi 5’600 sono donne.
Tante sono le cause che portano a questi scompensi; alcune molto studiate in letteratura, altre iniziano a farsi strada. Vediamone una.
Nel mercato del lavoro esistono meccanismi che escludono le donne dalle posizioni che meritano; oltre ai “classici” stereotipi di genere, ci sono i bias o stereotipi inconsci. Questi fanno sì che una buona parte delle nostre scelte avvenga attraverso decisioni immediate, veloci e istintive, quelle che vengono chiamate scorciatoie mentali o, per usare un termine più tecnico, euristiche. I processi mentali veloci e istintivi fanno sì che, se non riflettiamo in modo cosciente e deliberato, le nostre decisioni siano influenzate da pregiudizi che nemmeno sappiamo di avere.
Questi pregiudizi inconsapevoli possono portare le persone a prendere decisioni aziendali discriminatorie, senza che ve ne sia la volontà cosciente. Può succedere nel processo di selezione, nell’assunzione, nella contrattazione salariale, nelle promozioni, nella scelta di chi formare; insomma in ogni attività manageriale.
Famoso è il caso della scelta dei membri delle orchestre: il numero di donne selezionate è aumentato notevolmente dal momento in cui è stata introdotta una separazione fisica che impediva alla commissione di vedere il candidato. Alcune ricercatrici hanno stimato che con questo correttivo la possibilità per una donna di essere scelta aumenta del 50%.
Un’altra conferma sulla presenza di questi bias viene da un esperimento che ha mostrato come, se non è indicato il genere su una candidatura, la percentuale di donne selezionate aumenta notevolmente.
Il vantaggio di iniziare a parlare di bias inconsci nelle aziende è duplice, oltre che grande. Da un lato consente di prendere coscienza degli errori inconsapevoli che possiamo fare; dall’altro permette di apportare correttivi molto semplici per evitare discriminazioni.
Il primo passo per consentire finalmente a uomini e donne di accedere alle stesse posizioni e di essere giudicati in funzione del merito è proprio quello di prendere coscienza che tutti noi, uomini e donne, siamo vittime di pregiudizi inconsci e di euristiche che, pur avendo giustificazioni evolutivo-neurologiche, ci portano a prendere decisioni sbagliate. Senza nemmeno che ce ne rendiamo conto.
Tratto da “L’Osservatore” – 07.11.2020

Il ruolo antivirus dello Stato
Dal mese di febbraio ad oggi un’unica parola governa il mondo economico: incertezza. Passato il periodo di confinamento l’ottimismo regnava: importante ripresa dei consumi, indici industriali positivi, aspettative generali buone. Oggi purtroppo assistiamo nuovamente a una rapida diffusione del virus che potrebbe portare a misure di confinamento e sospensione delle attività economiche. Abbiamo già toccato con mano le conseguenze di una prima limitazione: aziende e attività fallite, migliaia di persone licenziate, ingenti spese pubbliche per cercare di limitare i danni e tensioni sociali che si accrescono di giorno in giorno.
In questo contesto fare previsioni è arduo, e forse non è nemmeno compito dell’economista. Compito dell’economista, tuttavia, è mettere in guardia dall’idea che la mano invisibile sistemerà tutto quanto. Al contrario, solo un intervento mirato e ben indirizzato dello Stato potrà contenere le conseguenze nefaste di un ulteriore rallentamento economico.
Il nostro Cantone non fa eccezione, anzi. Già alla fine del 2019 i maggiori indicatori economici segnavano un rallentamento e una fase di stallo. La crisi che ne è seguita non ha fatto altro che accelerare alcuni processi già in atto che purtroppo toccano tutti i principali settori economici. Il settore manifatturiero, a differenza di quanto accade nel resto della Svizzera, dichiara di non avere una quantità di ordinativi sufficienti per prevedere una stagione invernale sicura. Il settore delle costruzioni non sembra mostrare una tendenza differente da quella nazionale: domande di costruzione e volume delle transizioni al ribasso non sono segnali incoraggianti. Anzi, che in Ticino si sia costruito troppo, è una consapevolezza da molti anni. Il settore bancario cantonale, che è quello che ha pagato un prezzo minore in questa crisi e che è il settore che mostra previsioni più ottimiste, purtroppo si comporta diversamente da quanto avviene sul piano nazionale. Da anni assistiamo a importanti ristrutturazioni e ridimensionamenti sia in termini di personale che di istituti; l’attuale crisi non fa altro che accelerare questi processi. Purtroppo diversi centri decisionali che prima si trovavano in Ticino sono stati spostati altrove, sovente a Zurigo; è il caso, solo per fare un esempio dell’ex Banca della Svizzera italiana. Il commercio al dettaglio dal canto suo è confrontato con cambiamenti radicali: automazione e digitalizzazione stanno già sopprimendo posti di lavoro. E infine il settore del turismo che rappresenta un settore fondamentale per l’economia cantonale e che è stato vittima di ingenti perdite nei mesi della pandemia e in alcuni casi anche dopo; basti pensare alla ristorazione delle città dove il telelavoro ha causato riduzioni importanti anche dopo le riaperture. Le perdite potrebbero non essere finite: oltre alle limitazioni di spostamento già annunciate da alcune nazioni, la necessità di stare in spazi chiusi potrebbe dissuadere molti avventori.
Purtroppo le prospettive per il nostro Cantone non sono per nulla rosee; alle debolezze già note si aggiungono le conseguenze della crisi sanitaria. Inutile sperare nella mano invisibile che tutto sistema, massimizzando il benessere di tutti. L’unica medicina per l’economia potrà essere somministrata dall’ente pubblico: politiche economiche mirate e ben indirizzate a creare posti di lavoro duraturi, valore aggiunto, contributi sociali e gettito fiscale diretto e indiretto. E usciti da questa crisi ci rimboccheremo le maniche e risaneremo anche il debito pubblico.
Tratto da “L’Osservatore” – 10.10.2020

Ma i problemi rimarranno
Il voto del Canton Ticino sarà almeno in parte l’espressione delle difficoltà economiche con cui i cittadini si confrontano da qualche anno a questa parte. Purtroppo il dibattito, tranne rare eccezioni, non è stato fatto sulla sostanza, quanto piuttosto sugli slogan, i video o i manifesti. Peccato: comunque vada questa votazione, infatti, in Ticino i problemi rimarranno.
La storia dello sviluppo economico e sociale del Cantone Ticino, con le sue fragilità, ha sicuramente influenzato il presente. Una serie di svantaggi e handicap non ci hanno permesso di viaggiare alla medesima velocità del resto della Svizzera: l’accesso a una manodopera abbondante e competente con costi più bassi, l’assenza di un vero sviluppo industriale avanzato con una cultura imprenditoriale moderna, la mancanza di centri decisionali nei settori finanziari e assicurativi, la perdita di posti di lavoro qualificati delle ex regie federali. Negli ultimi anni il divario con il resto del Paese si è ulteriormente allargato.
A tutto questo si sono aggiunte condizioni quadro che hanno peggiorato la situazione aumentando la pressione sul mercato del lavoro e sui salari.
Il nostro cantone nell’ultimo ventennio non ha fatto i progressi che ci attendevamo. La produttività è stagnante; la qualità e le competenze professionali accresciute dei lavoratori e delle lavoratrici non hanno quindi trovato spazio. Le attività produttive sono ancora principalmente attività a basso valore aggiunto e nei settori più fragili dell’industria manifatturiera, del commercio, del turismo e della ristorazione. I contributi in termini di ricerca, sviluppo e innovazione sono stati molto contenuti. L’occupazione delle donne non mostra i miglioramenti del resto della Svizzera, sia in termini salariali che di posizioni ricoperte; il fatto che le donne siano le maggiori perdenti in questi mesi di pandemia è sintomatico della fragilità di certi segmenti della nostra economia. La creazione di nuovi posti di lavoro – poco retribuiti come attestano le recenti statistiche – è andata principalmente a beneficio di lavoratori non residenti. Questa disponibilità di impieghi a basso costo per i non residenti ha di fatto messo sotto pressione tutti i salari, anche quelli dei residenti.
Non solo non abbiamo raggiunto i livelli salariali medi del resto della Svizzera ma addirittura abbiamo aumentato il divario. E questo pur avendo notevolmente migliorato la nostra offerta formativa e quindi le competenze dei nostri giovani.
La migliore formazione dei nostri figli pare non bastare purtroppo per risalire la china: terminati gli studi o l’apprendistato, i nostri ragazzi faticano a trovare posti di lavoro in linea con le loro capacità. Sempre più giovani devono andare oltre Gottardo per lavorare. Aggiungiamo l’aumento dei costi fissi come i premi cassa malati, per l’affitto e pensiamo all’impatto che hanno sulle persone anziane con la sola rendita AVS. L’impoverimento e la necessità dell’intervento dello Stato diventano ancora più evidenti.
Questo è lo scenario per il Cantone Ticino.
Nel resto della Svizzera, ad eccezione dei Cantoni di frontiera, gli accordi con l’Unione Europea hanno portato anche benefici. Ma proprio perché in tutti questi anni non si è saputo o voluto trovare misure di compensazione per il nostro Cantone, i ticinesi voteranno forse diversamente dal resto dei confederati. Certo, è possibile chiedere sacrifici nel nome della nazione, ma questo sacrificio deve essere prima riconosciuto e, poi, compensato.
In questi anni nessuno è riuscito a imporre questa discussione a livello federale. Il Ticino non vuole la carità dal resto della Svizzera, ma vuole e deve avere la giusta compensazione. Necessitiamo di risorse per creare posti di lavoro qualificati. Dobbiamo poter allineare i nostri stipendi al livello del resto della Svizzera. Abbiamo sufficiente spazio e capacità per accogliere autorità e istanze federali che garantirebbero anche in Ticino posti di lavoro qualificati.
Le soluzioni per dare risposta al freno tirato dello sviluppo cantonale esistono già. La perequazione finanziaria, quel meccanismo che prevede una redistribuzione delle risorse dai Cantoni ricchi a quelli poveri e un supporto dalla Confederazione, è uno di questi. Purtroppo negli anni i segnali del malessere economico non sono stati colti e neppure ora pare esserci la volontà di affrontare questi temi in maniera tecnica, prescindendo da ideologie e dogmi. E questo, qualunque sarà l’esito della votazione, lascerà al Cantone i suoi problemi.
Auspichiamo che dopo il 27 settembre se ne possa parlare seriamente. Altrimenti, di nuovo, ci stupiremo del Sonderfall ticinese delle urne, senza trovare soluzioni per il Sonderfall ticinese della realtà.
Tratto da “Corriere del Ticino” – 23.09.2020

È giunta l’ora della mano visibile
Le conseguenze sanitarie del Coronavirus sono state immediate e drammatiche. Quelle economiche invece iniziano a manifestarsi ora. Sarà necessaria una “grande mano visibile” dello Stato per impedire che siano drammatiche.
I primi dati confermano che l’interruzione di tutte le attività economiche e la limitazione degli spostamenti delle persone hanno causato riduzioni drastiche del prodotto interno lordo in tutte le economie del globo. Chi più, chi meno, tutti hanno visto la produzione nazionale crollare. E non poteva essere diversamente: il mondo intero si è fermato, se non per le attività strettamente necessarie.
In generale, gli Stati hanno dato risposte immediate ed efficaci nell’urgenza. Per esempio in Svizzera con la garanzia statale dei crediti alle aziende e con l’ampliamento delle prestazioni legate alle indennità per orario ridotto. Oggi però gli stessi Stati paiono aver ridotto la voglia di intervenire. Proprio quando il loro intervento diventa necessario. E i licenziamenti quotidiani lo confermano.
Ma non tutti i licenziamenti sono uguali. Nel contesto attuale troviamo almeno quattro ragioni per le quali le aziende stanno riducendo i collaboratori.
Ci sono aziende che erano già in difficoltà, che sono sopravvissute grazie agli aiuti dello Stato e che adesso che giungono al termine, purtroppo falliscono.
Ci sono altre aziende che stanno approfittando della situazione per fare ristrutturazioni che avevano previsto in futuro: grazie alla crisi del Covid l’opinione pubblica non mette in discussione questi ridimensionamenti di personale.
Ci sono aziende, invece, che grazie all’esperienza fatta durante la crisi hanno deciso di anticipare processi di digitalizzazione, automazione e nuove forme di organizzazione del lavoro che senza la crisi avrebbero probabilmente introdotto tra qualche anno.
E infine, ci sono le aziende di settori specifici che sono oggi in estrema difficoltà. Esse se aiutate potrebbero tornare entro un paio di anni ad essere imprese floride.
Se nei primi due casi lo Stato può (e deve) far poco, un discorso diverso vale per le aziende che possono superare questa fase di transizione. Gli aiuti non devono essere solo monetari, anzi. Pensiamo al sostegno nella gestione del cambiamento, nella formazione, nella messa in rete e nel coordinamento delle attività. Quando invece si tratta di finanziamenti la regola deve essere una: sostegni specifici e mirati a garantire miglioramenti strutturali che consentano alle attività di uscire da questo periodo ancora più competitive.
Senza dimenticare che il Covid ha anche drammaticamente aumentato le diseguaglianze tra nazioni industrializzate e quelle in via di sviluppo; tra le classi sociali all’interno delle nazioni, tra quelle a reddito sicuro e quelle invece in situazione di precarietà; e tra le varie etnie, in quanto ad esempio nel Regno Unito e negli USA più colpite sono le minoranze etniche rispetto alle classi bianche. Dopo 40 anni (1980-2020) di politiche monetarie e sociali che hanno invertito il processo di livellamento sociale faticosamente portato avanti dal 1960 al 1980, siamo confrontati con una pandemia che arrischia di aumentare in modo incontrollato i conflitti sociali. Una sfida non da poco per gli anni a venire.
E così daremo una mano, alla mano invisibile.
Tratto da “L’Osservatore” – 05.09.2020

Gli imprenditori quelli veri
Le piccole medie imprese sono l’ossatura del nostro tessuto economico, sociale e culturale. La recente pandemia ha messo a dura prova la loro capacità di sopravvivere in queste circostanze; tuttavia, la maggior parte delle nostre aziende ha dato e sta dando il meglio di sé.
Fare impresa non è cosa da tutti; fare “piccola impresa” è cosa ancora più difficile. Perché il successo, in questo caso, non dipende solo dal prodotto; anzi, è quasi come se il prodotto diventasse il valore aggiunto, la condizione necessaria, ma non sufficiente. Il cuore delle piccole imprese batte perché batte il cuore dell’imprenditore. La conoscenza e il rispetto del territorio in cui si opera, i valori umani, l’attenzione per i collaboratori e le collaboratrici, fanno sì che l’impresa diventi una piccola comunità che contribuisce allo sviluppo e alla crescita del Paese sentendosi parte integrante.
L’obiettivo per l’imprenditore non è il profitto; l’obiettivo per l’imprenditore è la sopravvivenza della sua impresa e l’occupazione dei propri dipendenti, che magari da lunghi anni hanno dimostrato dedizione all’impresa. Il profitto serve a poter giustamente remunerare i propri collaboratori e investire in miglioramenti produttivi che garantiscano all’azienda di essere sempre al passo con i tempi, se non addirittura di precederli.
L’impresa diventa una famiglia allargata e la preoccupazione di ogni imprenditore è quella di tutelare il buon nome dell’azienda e dei suoi collaboratori. Non si vuole aumentare il profitto a fine anno per pagare dividendi più alti; bensì si vuole aumentare il profitto per rendere più solida l’impresa e per garantirne la crescita futura.
Non sentirete mai un piccolo o medio imprenditore gioire della riduzione dei costi fatta con dei licenziamenti; non sentirete mai un imprenditore rallegrarsi del fallimento di un concorrente; non vedrete mai un imprenditore non tener fede alla stretta di mano data per siglare un accordo.
Vi pare un’immagine troppo romanzesca? Se così fosse pensate alle persone che conoscete che fanno impresa e pensate alle ultime vostre conversazioni. Probabilmente vi hanno parlato dei tempi duri che stanno affrontando, ma si sono dichiarati fiduciosi per il futuro. Probabilmente vi hanno detto che nonostante le difficoltà, il loro apprendista ha ultimato il percorso di formazione e seppur a fatica, lo terranno in azienda. Probabilmente vi hanno detto di mandare vostro figlio a fare uno stage da loro.
Ecco, questo è il tessuto sano micro-imprenditoriale di un Cantone come il nostro. Questo è il mondo imprenditoriale che ci ha portati a raggiungere il livello di benessere che conosciamo. È innegabile che l’apertura porti con sé esempi che nulla hanno a che vedere con le nostre tradizioni e la nostra cultura aziendale; e anche se la concorrenza è spietata non possiamo arrenderci a modelli che non ci appartengono e che progressivamente distruggono il nostro tessuto sociale. Certo gli imprenditori possono fare tanto, ma è questo il momento in cui lo Stato deve intervenire per proteggere la nostra impresa sana.
Tratto da “Info PMI” settembre 2020

Parità salariale, più controlli e incentivi
Il 1° luglio 1996 entrava in vigore in Svizzera la Legge sulla parità dei sessi che mirava a rendere effettiva nel mondo del lavoro l’uguaglianza tra donna e uomo sancita dall’articolo 8 della Costituzione. A distanza di 24 anni esatti, il 1° luglio 2020, si aggiunge un ulteriore tassello rendendo obbligatorio per le aziende che occupano più di 100 persone svolgere un’analisi sulla parità salariale.
Anche se la disposizione arriva con grande ritardo rispetto a quanto fatto in altri Paesi e anche se si può affermare che l’assenza di sanzioni annulla l’effetto deterrente tanto importante per il diritto, prendiamo questa modifica positivamente cercando di trarne il massimo beneficio.
Ma è davvero necessario nel 2020, nella ricca Svizzera, regolamentare, controllare, incentivare e anche sanzionare il mercato del lavoro per raggiungere la parità di genere? Assolutamente sì. I dati parlano chiaro: la mano invisibile non funziona.
Le statistiche pubblicate relative al 2018 confermano quanto oramai si verifica da anni: il tasso di attività delle donne è più basso; le donne lavorano molto di più a tempo parziale; le donne che lavorano guadagnano molto meno anche a parità di funzione; le donne occupano prevalentemente posti di lavoro gerarchicamente inferiori; le donne sono più colpite dalla disoccupazione; l’impegno e le responsabilità famigliari ricadono principalmente sulle donne; la povertà tocca maggiormente le donne. E tutto questo nonostante le donne siano, oggi, altrettanto formate, se non di più, degli uomini. Quindi, sì: nel 2020, nella ricca Svizzera, è necessario regolamentare, controllare, incentivare e anche sanzionare il mercato del lavoro per raggiungere la parità di genere.
Che lo si voglia o no, il salario influenza considerevolmente le nostre vite e fintantoché quello femminile sarà più basso, non ci sarà mai una vera libertà di scelta. Pensiamo al caso di due genitori che decidono di voler essere presenti nei primi anni dalla nascita dei figli. In una società attenta alle famiglie questo desiderio non è un problema: potendo usufruire entrambi i genitori di congedi parentali e potendo decidere di lavorare tutti e due a tempo parziale, non ci sarebbe per nessuno una scelta obbligata tra lavoro e famiglia. Non è il caso in Svizzera. Il congedo parentale è ancora un sogno lontanissimo, come pure la possibilità di lavorare a tempo parziale soprattutto per gli uomini. Quindi, quando la nostra coppia dovrà decidere chi dei due genitori rimarrà a casa, la variabile determinante sarà il salario. E visto che quello femminile è inferiore a quello maschile, la scelta sarà pressoché imposta. Ma attenzione, le differenze salariali, hanno un peso anche nel caso in cui le donne non debbano scegliere tra lavoro e carriera. Si pensi all’impatto di un salario basso sul livello di vita una volta usciti dal mercato del lavoro: un salario basso significa bassi contributi e bassa pensione. O ancora, si considerino le difficoltà finanziarie delle famiglie monoparentali che rendono ancora più pesanti quelle organizzative.
Non nascondiamoci dietro le analisi che parlano di un 55% di differenza salariale imputabile a fattori oggettivi. Certo il settore, la posizione professionale, il tasso di occupazione, la professione esercitata e il livello di qualifiche richieste sono fattori oggettivi. Ciò non significa che questi non siano il risultato anch’essi il di processi discriminatori, anzi. La mano invisibile non funziona. I regolamenti, i controlli, gli incentivi e le sanzioni, sì.
Tratto da “L’Osservatore” – 04.07.2020

Tassa sul CO2, tassa sbagliata
Funzionerà la tassa sul CO2 di recentissima introduzione? La risposta purtroppo è no. Le emissioni di anidride carbonica si ridurranno nei prossimi anni. Ma ciò non avverrà grazie alla nuova tassa decisa a livello politico.
La teoria economica insegna che il consumo di un bene dipende dal suo prezzo. Ma i beni che comperiamo non sono tutti uguali: alcuni sono più sensibili alla variazione del prezzo rispetto ad altri. Esiste un indicatore che esprime questa sensibilità: si parla di “elasticità della domanda rispetto al prezzo”. Un’elasticità superiore a 1 indica una forte sensibilità del consumo rispetto al prezzo: cioè se il prezzo di un bene aumenta per esempio del 10% il suo consumo si ridurrà di più del 10%. In caso contrario, con valore inferiore a 1, la domanda è rigida e quindi meno sensibile alla variazione del prezzo. Sostanzialmente il consumo del bene non dipende da esso. E purtroppo questo è il caso della benzina.
L’elasticità dipende da diversi fattori: per esempio, dalle alternative a disposizione. Tante più ce ne sono, tanto più la quantità consumata del bene sarà sensibile alla variazione del prezzo. Questo avviene perché il bene può essere sostituito con estrema facilità se diventa troppo caro (pensiamo al burro e alla margarina). E purtroppo non è il caso della benzina.
Ma anche la necessità è un fattore: più un bene è essenziale, meno il suo consumo dipenderà dall’andamento del prezzo (pensiamo ai farmaci specifici). E purtroppo questo è il caso della benzina.
C’è un’altra importante considerazione tecnica da fare.
La tassa sul CO2 è uguale per tutti: va a colpire in maniera indifferenziata tutte le categorie di cittadini. È quindi molto iniqua e, dal mio punto di vista personale, ingiusta. Questa iniquità si esprime non solo tra i singoli cittadini ma anche tra le regioni. Le regioni rurali o montane e quelle in cui la rete di trasporti pubblici non è ben sviluppata sono svantaggiate. Il Ticino e i suoi abitanti ancora una volta pagheranno il prezzo più elevato. Facciamo il paragone con Zurigo. Non solo i ticinesi guadagnano mediamente il 25% in meno, ma possono contare su una rete di trasporto pubblico molto meno performante e sviluppata. Non per nulla, il nostro cantone ha un tasso di motorizzazione ben superiore: contiamo 632 automobili per 1’000 abitanti mentre Zurigo solo 488. In Ticino la necessità del trasporto privato è maggiore che a Zurigo: quindi sostituire il bene “automobile” è meno facile. Nonostante queste considerazioni, la tassa sarà pagata in maniera uguale dal cittadino di Zurigo e da quello del Cantone Ticino. Ne consegue che da noi la tassa risulterà sia più pesante, sia meno efficace.
Ma torniamo alla benzina. Andrea Baranzini e Sylvain Weber in un lavoro del 2013 stimano che l’elasticità della domanda di benzina in Svizzera nel breve periodo è -0.09, mentre nel lungo periodo arriva a -0.34 (i consumatori necessitano di tempo per modificare le loro abitudini di consumo e le aziende abbisognano di tempo per inventare beni sostitutivi). Questo significa di fatto che, purtroppo, la domanda di benzina dipende molto poco, quasi nulla, dal prezzo.
Non ci sono ragioni per credere che tale elasticità sia cambiata di molto nel tempo; anzi, altri studi hanno mostrato i limiti di questo genere di tassazione. Quindi, una tassa di 12 centesimi al litro avrà, prevedibilmente, un effetto nullo o quasi sulla riduzione del consumo di benzina.
Sarà invece (e fortunatamente) un altro fattore a portarci alla diminuzione sperata: l’innovazione che sta spingendo sempre più le case automobilistiche a progettare automobili più efficienti dal punto di vista energetico o che utilizzano nuovi carburanti meno inquinanti. Ecco perché, forse, un sostegno effettivo alla ricerca e allo sviluppo sarebbe stato ben più indicato e producente, ma anche più efficiente, rispetto alla tassa sul CO2. Come più efficace sarebbe fare pressione sugli importatori, introdurre regolamentazioni più severe sui limiti di emissione o sostenere una vera mobilità lenta. Misure che non graverebbero su cittadini poveri e regioni discoste.
La tassa sul CO2, purtroppo non otterrà il risultato sperato. E inoltre toglierà mezzi finanziari ai cittadini più poveri e periferici per redistribuirli in maniera del tutto arbitraria ad ambiti che nulla c’entrano con la politica ambientale, come il fondo per i premi cassa malati o l’AVS. Ma si può ancora correggere il tiro e pensare, perlomeno, a una redistribuzione degli introiti verso le regioni e i cittadini che saranno veramente penalizzati da questa tassa. Insomma, le intenzioni sono buone ma il mezzo è sbagliato.
Tratto da “Corriere del Ticino” – 18.07.2020

Pregi e difetti di lavorar da casa
Con l’emergenza sanitaria innescata dal COVID19, anche il mercato del lavoro ha subito quello che potremmo definire uno shock esterno fortissimo. La maggioranza delle aziende e dei collaboratori ha trovato soluzioni di emergenza a una situazione assolutamente non programmata né immaginabile. In questi mesi e in men che non si dica, si sono consolidate forme di organizzazione del lavoro inedite. Tra le tante spicca il telelavoro. In realtà, questa modalità di lavorare non è nata con questa crisi, ma è una possibilità già conosciuta, anche se poco praticata almeno alle nostre latitudini.
La particolarità di questa forma di lavoro è che si esercita al di fuori degli spazi aziendali e con l’ausilio di strumenti informatici. Proprio perché la professione viene svolto senza il controllo costante del datore di lavoro, le aziende sono state da sempre piuttosto restie a concedere il telelavoro a chi la richiedeva, in particolare donne con necessità maggiori di conciliare famiglia e lavoro. Ma come spesso succede bisogna fare di necessità virtù e quindi l’impossibilità di avere contatti, relazioni personali e di recarsi sul posto di lavoro ha obbligato le imprese ad aumentare il grado di fiducia nei confronti dei collaboratori e delle collaboratrici.
Dal canto loro, purtroppo, i dipendenti e le dipendenti si sono trovati a svolgere le attività professionali in prevalenza al domicilio e senza essere sufficientemente attrezzati. Se a questo si aggiunge la presenza di più persone attive nello stesso nucleo famigliare, i bambini che non andavano a scuola, ma che dovevano essere seguiti per la formazione a distanza e l’impossibilità di essere aiutati nelle mansioni domestiche da terze persone, si comprende quanto l’attività professionale al domicilio si sia svolta in condizioni critiche.
Nonostante ciò, ricerche svolte in queste settimane, tenderebbero a mostrare un certo interesse verso questa forma di lavoro. Pur avendo il telelavoro dei vantaggi inequivocabili (riduzione del tempo degli spostamenti, impatto ambientale, possibilità di conciliare meglio lavoro e famiglia) presenta anche degli svantaggi, su cui saremo chiamati a riflettere nei prossimi mesi. Il primo riguarda le nostre regolamentazioni e leggi che non sono pensate specificatamente per il telelavoro. Ad esempio, citiamo gli infortuni a casa mentre si lavora, oppure la responsabilità della sicurezza dei dati trasmessi o ancora la maniera in cui tassare un collaboratore che non si reca più fisicamente nel Paese dove ha sede l’azienda. In aggiunta, non bisogna sottovalutare il rischio che il telelavoro diventi una forma di lavoro a “cottimo” senza più orari e in cui il collaboratore si addossa costi e rischi altrimenti a carico dell’azienda. Infine, non si deve sottovalutare l’importanza della componente relazionale che consente il lavoro in presenza: confrontarsi con i colleghi, fare la pausa caffè insieme, discutere di persona sono valori aggiunti al lavoro che non si possono trascurare.
Proprio per riuscire a ottenere i vantaggi legati al telelavoro e scongiurare gli svantaggi legati all’isolamento e alla mancanza di relazioni, si potrebbe investire maggiormente nella creazione di uffici condivisi nei Comuni più periferici. Questa possibilità offerta per un paio di giorni alla settimana, potrebbe consentire quindi da una parte di poter lavorare in condizioni ottimali (postazioni di lavoro, sicurezza dei dati, apparecchiature, …) e dall’altra di poter conciliare meglio famiglia e lavoro.
Tratto da “L’Osservatore” – 06.06.2020

Luci e ombre per il dopo pandemia in Svizzera
A distanza di quasi due mesi e mezzo dalla chiusura di tutte le attività in Svizzera possiamo fare un primo bilancio della gestione pubblica della crisi. Sicuramente il Consiglio Federale si è mosso per tempo mettendo in atto misure immediate per impedire il crollo del sistema produttivo del Paese. Gli strumenti abituali a disposizione delle aziende sono stati estesi e adattati alle circostanze; pensiamo per esempio alla possibilità di ricorrere all’orario ridotto anche per gli indipendenti e per gli apprendisti.
La garanzia statale del credito alle aziende implementata in modo facilmente accessibile e con un meccanismo per nulla burocratico, è stata sicuramente un’ottima risposta per evitare i problemi di liquidità nel brevissimo periodo; ma anche una sorta di cuscinetto a cui ricorrere in caso di necessità nei prossimi mesi. In effetti, molte medie e grosse imprese che hanno richiesto questi crediti, hanno solo parzialmente utilizzati.
Passata l’emergenza, gli strumenti dovranno essere perfezionati. Per esempio, ci sono situazioni aziendali che erano già difficili ben prima dello stop imposto dal COVID19. Su queste ora si hanno il tempo e le risorse per valutare se ha senso perseverare aggravando di oneri la collettività. D’altra parte, è probabile che il Consiglio Federale dovrà valutare di prolungare alcuni aiuti messi in atto; a titolo di paragone la Gran Bretagna ha deciso di stanziare un credito di ben 350 miliardi di sterline di cui 35 miliardi a sostegno degli stipendi fino al mese di ottobre.
Certo, il tessuto economico svizzero è solido: è dal 1970 che nonostante un franco in forte apprezzamento la bilancia commerciale e quella dei pagamenti sono in attivo. Vendiamo più di quello che produciamo perché siamo sempre stati dinamici, flessibili, innovativi e capaci di soddisfare in tempi brevi le richieste dei clienti. Vero però che anche se uno è bravissimo a fare dei prodotti, ma non li ordina nessuno, il problema c’è. Ed è per questo che guardiamo con grande apprensione a quello che succede nel resto del mondo, visto che circa il che il 12% del nostro prodotto interno lordo è rappresentato dalle nostre esportazioni nette (esportazioni-importazioni).
Un discorso molto differente va fatto sul tessuto produttivo ticinese. Questa crisi sta mettendo in evidenza le debolezze della nostra economia che sembra viaggiare a una velocità diversa dal resto della Svizzera. Per ragioni storiche e geografiche abbiamo da sempre potuto sfruttare un ampio bacino di manodopera qualificata a basso costo; in aggiunta, il nostro Cantone è passato più o meno da un’economia primaria a una fortemente basata sul settore finanziario saltando la fase industriale. Questo ha portato le nostre aziende a sviluppare attività basate principalmente sul lavoro e poco sul capitale; quindi attività storicamente poco improntate sulla ricerca, sul progresso tecnologico, sull’innovazione e su una avanzata organizzazione del lavoro. Non è un caso quindi che la nostra economia sia composta da una parte importante di posti di lavoro in attività a valore aggiunto inferiore alla media nazionale, come parte dell’industria, il commercio, il turismo e la ristorazione. Questi sono proprio i settori che soffrono maggiormente in questa crisi.
Infine, i nostri posti di lavoro sono retribuiti in media meno rispetto a quelli svizzeri, questo dovuto anche all’assenza dei centri decisionali, come nel caso delle banche. Il salario mediano in Ticino è di circa il 18-20% in meno di quello nazionale. Se lo paragoniamo a quello di Zurigo arriviamo addirittura a un differenziale del 25%. Se poi analizziamo i settori, il divario aumenta ancora di più. Per esempio, il settore della farmaceutica paga in Svizzera mediamente un salario di quasi 10’000 franchi al mese; in Ticino questo salario scende alla metà. Questo ci conferma che nel nostro Cantone purtroppo andiamo avanti a svolgere le mansioni che richiedono meno competenze e qualifiche, mentre le attività meglio retribuite come ricerca, sviluppo e marketing, restano dislocate oltre Gottardo.
La conclusione è quindi inevitabile: sì all’immediata risposta a questa situazione di emergenza da parte dello Stato e quindi sì al sostegno alle aziende e alle persone in difficoltà, ma poi sarà necessario affrontare il problema andando alla radice. Bisognerà pensare ad una strategia di rilancio strutturale, al fine di riuscire a recuperare sul livello e la struttura salariale, perché da sempre il ricorso all’aiuto dello Stato è maggiore qui che altrove. E questo succede, come ogni padre e madre di famiglia ben capisce, per due semplici ragioni: o perché gli stipendi sono troppo bassi oppure perché la produttività ristagna. Insomma, rimbocchiamoci le mani, perché il lavoro è appena cominciato.
Tratto da “Corriere del Ticino” – 03.06.2020

Consumi al contagocce
Regna un’enorme incertezza. In ambito sanitario, certo, dove i dubbi sulla pericolosità del virus, sui contagi, sulle terapie o sui vaccini rimangono ancora tanti. Ma anche in ambito economico indeterminatezza e preoccupazione non sono minori. L’aggiornamento recente delle previsioni economiche della Segreteria di Stato (SECO) fornisce un ulteriore indizio in tal senso.
In marzo la SECO aveva pubblicato le sue consuete previsioni trimestrali: vi si stimava una riduzione del Prodotto interno lordo svizzero per l’anno 2020 dell’1.5%. Questo risultato dipendeva da una leggera riduzione dei consumi ma soprattutto da un importante calo (5%) degli investimenti produttivi e delle esportazioni. Già quei dati ci sembravano preoccupanti ma pochi immaginavano che un mese dopo avremmo strabuzzato gli occhi.
Data la grande incertezza e l’evoluzione della situazione, la SECO ha ritenuto qualche giorno fa di dover aggiornare i suoi dati. E ora la musica è ancora più preoccupante. I consumi crolleranno del 7.5%, gli investimenti produttivi in macchinari e attrezzature del 16% (il tanto paventato effetto di accelerazione) e le esportazioni del 10.7%. Questo porterà il PIL a ridursi del 7%. Avete letto bene, del 7%!
Rimangono naturalmente ancora molte incognite e tutti noi auspichiamo che nelle prossime previsioni, la contrazione dell’economia sia decisamente più contenuta. Una variabile che potrebbe giocare un ruolo determinante sono i consumi, che rappresentano circa il 55% del PIL. Possiamo ragionevolmente supporre che ci sarà una certa prudenza per le persone al di sopra dei 60-65 anni che risparmieranno di più e quindi consumeranno di meno; incognite rimangono invece sul comportamento delle fasce di età più giovani. Potrebbe accadere, ipotizziamo, che al momento della riapertura delle attività le persone abbiano una grande voglia di “normalità” e quindi ricomincino a spendere in beni e servizi come prima del blocco.
Se questa ripresa dei consumi si generalizzasse nelle economie avanzate, allora potremmo supporre che le conseguenze di questa crisi potrebbero essere più contenute. Difficile che però questo accada perché non tutti i Paesi hanno reti di protezione che consentono alle persone di compensare la perdita del posto di lavoro e neppure strumenti a sostegno diretto delle aziende.
In aggiunta dobbiamo considerare, oltre alla voglia di normalità dei consumatori, anche le possibilità effettive di consumare beni e servizi. Pensiamo alle limitazioni imposte per ragioni di tutela della salute per esempio ai parrucchieri o nei commerci o ancora nei bar e ristoranti. Evidentemente la cifra d’affari di queste attività risentirà di questa riduzione forzata dell’offerta. E qui gli ottimisti però potrebbero vedere anche un lato positivo: se la domanda dovesse essere effettivamente molto alta potrebbe andare a sostenere l’apertura di nuove attività. Ma attenzione, anche in questo caso, la nostra mano invisibile, non basterebbe. Se, prima del Coronavirus, parrucchieri, commerci, bar e ristoranti necessitavano di un certo numero di clienti per mantenere aperte le loro attività, anche dopo le cose non cambieranno. Quindi probabilmente la mano visibile dello Stato dovrà intervenire a sostegno di molte attività, ma dovrà farlo in maniera mirata e ben indirizzata: gli aiuti generalizzati non servono né all’economia, né ai consumatori, né ai cittadini.
Tratto da “L’Osservatore” – 02.05.2020

Sarà lo Stato a salvare l’economia svizzera?
Il Coronavirus ha infettato anche l’economia svizzera. Le previsioni della Segreteria di Stato dell’economia (SECO) parlano chiaro. Quest’anno l’economia svizzera, dopo 10 anni di crescita, soffrirà. La riduzione del Prodotto Interno Lordo (PIL) dell’1.5% è il risultato di diversi fattori. I consumi scenderanno di mezzo punto percentuale perché le persone avranno meno reddito per comperare e perché avranno paura. E quando c’è paura gli individui spendono meno.
Ancora più preoccupanti sono le previsioni per gli investimenti. Se quelli per le costruzioni terranno il passo, lo stesso non può dirsi degli investimenti in macchinari e attrezzature che si ridurranno del 5%. Questo dato porta con sé una considerazione molto importante: le aziende non compreranno strumenti utili alla produzione perché le loro aspettative di vendita sono negative e quindi non sostituiranno macchinari rotti e neppure aumenteranno la capacità produttiva.
Che dire delle esportazioni che rappresentano per la Svizzera il 12% circa dell’intero prodotto interno lordo? Anche in questo caso il tasso di riduzione sfiora il 5%. Ancora più accentuata la diminuzione delle importazioni; materie prime e semilavorati sono per noi fondamentali per la produzione dei beni venduti al resto del mondo.
Il risultato di questa crisi economica sarà un aumento della disoccupazione e la soppressione di molti posti di lavoro. Che fare quindi? Lasciare al libero mercato e alla mano invisibile?
Le risposte della Confederazione, ma anche quelle di tutte le economie avanzate sono chiare e univoche. C’è bisogno di un forte intervento della mano visibile dello Stato. Politiche fiscali e politiche monetarie non venivano invocate così a gran voce da molto tempo.
Diverse sono le misure già attuate in Svizzera, ma altre dovranno ancora essere implementate.
La liquidità alle imprese per pagare i loro costi fissi, ma in parte anche variabili, è stata garantita attraverso le fideiussioni dello Stato: le aziende possono ottenere dei prestiti dalle banche in maniera rapida grazie alla garanzia pubblica. Altri Stati hanno aggiunto a questo tipo di aiuti una politica monetaria estremamente espansiva con lo scopo di abbassare ulteriormente i già bassissimi tassi di interesse. Seppur riconoscendo la bontà della misura e la tempestività della stessa, la stessa non mi trova pienamente favorevole. Il rischio di eccessivo indebitamento e di semplice differimento dei problemi rimangono incognite importanti a cui potrebbe dar meglio risposta una politica fiscale diretta a sostegno dei mancati guadagni.
Sul fronte dell’orario di lavoro ridotto la semplificazione delle pratiche, la diminuzione dei tempi di attesa, come pure l’ampliamento a categorie che prima ne erano escluse, sono stati dei miglioramenti importanti. Questa è sicuramente una misura efficace su due fronti: da una parte consente alle aziende di non licenziare il personale che non utilizza temporaneamente, dall’altra permette alle persone di avere un reddito con cui provvedere al proprio sostentamento.
Come per tutte le altre crisi del passato, anche in questo caso molto dipenderà dalla sua durata e solamente alla fine potremo capire chi sarà chiamato a pagarne il conto. Per il momento prendiamo atto che i sostenitori della mano invisibile sembrano diventati anche loro impercettibili a occhio nudo.
Tratto da “L’Osservatore” – 02.05.2020

Il Coronavirus contagia la globalizzazione
Strade deserte, scuole chiuse, aeroporti, musei, teatri, stadi vuoti… Capita anche nel nostro Paese. L’epidemia del Coronavirus è innanzitutto un’emergenza sanitaria e come tale dev’essere trattata. Ma rappresenta anche un’emergenza economica.
Tutto è iniziato sul fronte dell’offerta. Saggiamente, per impedire la diffusione in alcune regioni della Cina è stato bloccato tutto: lavoratori obbligati a stare a casa, chiusura di stabilimenti produttivi, stop alle aziende. Abbiamo però pensato, sbagliando, che la Cina fosse molto lontana; abbiamo pensato, sbagliando, che quanto stava accadendo non ci avrebbe toccati. Invece, in un mondo così interdipendente e globalizzato la Cina è davvero molto vicina. I nostri vestiti, le nostre posate, le componenti delle nostre automobili, i nostri farmaci: tutto comincia in Cina. Ecco perché se la Cina si ferma, anche noi abbiamo dei seri problemi.
In un secondo tempo, il virus si è permesso di varcare i confini continentali. Ha iniziato a diffondersi in Italia. Anche in questa occasione abbiamo sbagliato l’analisi, illudendoci che tra noi e l’Italia ci fosse la dogana. Ma i contagi sono iniziati anche in Svizzera. Se nel primo caso con la Cina, sono le merci a spostarsi e a renderci dipendenti l’uno dall’altro, nel secondo caso con l’Italia sono le persone che vanno e vengono da questo Paese a renderci dipendenti l’uno dall’altro.
Questa dipendenza ci ha fatto toccare con mano l’altro lato della crisi. Le persone non possono uscire di casa, non possono lavorare, non possono passare il loro tempo libero insieme. Dal punto di vista economico non possono consumare e quindi anche la domanda soffre.
Le difficoltà contemporanee di domanda e offerta fanno sì che le previsioni relative alla crescita economica subiscano un brusco rallentamento. I nostri sistemi economici hanno bisogno che il Prodotto interno lordo cresca ad un certo livello per poter mantenere stabile il tasso di disoccupazione.
Affinché questo succeda è necessario che il PIL aumenti almeno per compensare la crescita della forza lavoro e l’aumento della produttività (che spesso dipende dal progresso tecnologico). In altre parole, se la quantità di beni e servizi prodotti da una nazione in un anno non è abbastanza grande, le persone non avranno un lavoro e di conseguenza un reddito con cui vivere.
Superata l’emergenza sanitaria, che deve rimanere la priorità, questa crisi economica è occasione per ripensare i nostri sistemi che si sono fondati troppo sull’idea che la “mano invisibile” avrebbe portato solo benefici. La mano invisibile, in nome di un’illusoria efficienza dei costi e di un altrettanto illusorio abbattimento delle distanze, ci ha portati a delocalizzare le nostre produzioni in Paesi lontani, a diventare dipendenti dal volere altrui, a mettere a repentaglio settori vitali per l’autonomia di una Nazione. Telecomunicazioni, energia, trasporti, industria alimentare, farmaceutica: sono solo alcuni dei beni e servizi a cui una nazione, nell’interesse della tutela dei suoi cittadini, non può rinunciare.
Ora che questa strategia evidenzia i suoi limiti, chiediamo a gran voce l’intervento della “mano visibile”, quella dello Stato: sussidi, sovvenzioni, abbassamento dei tassi di interesse, esenzioni fiscali sono in agenda per aziende e cittadini. Ottima risposta nel breve periodo. Insomma, disinfettiamo bene le mani e aspettiamo che passi l’emergenza. Poi però stiamo attenti: i problemi legati alla globalizzazione e a questo modello economico non passeranno lavandocene le mani.
Tratto da “L’Osservatore” – 07.03.2020

L’insostenibile ambiguità dei numeri
C’è qualcosa che sta cambiando nel nostro rapporto con i numeri. Una volta attendevamo le statistiche ufficiali per capire meglio il mondo. Oggi invece è come se dai numeri cercassimo la conferma alle nostre sensazioni. E spesso, purtroppo, la troviamo. Questo succede quando analizziamo la situazione economica e professionale nel Cantone Ticino. La nostra sensazione di vivere in un momento di difficoltà, viene, ahimè, confermata dalle statistiche.
Se è vero che negli ultimi anni nel Cantone sono stati creati molti posti di lavoro, è altrettanto vero che questi posti di lavoro non rappresentano un grande valore aggiunto per lo sviluppo del nostro Cantone. Posti di lavoro in prevalenza a tempo parziale, con salari bassi e principalmente occupati da frontalieri. Tutto questo porta a fenomeni nuovi come l’aumento della precarizzazione, la necessità di svolgere più di un lavoro alla volta e la nascita di forme di occupazione atipiche. Insomma, continuiamo ad alimentare la spirale negativa che vede il nostro Cantone viaggiare a una velocità ridotta in confronto al resto della Svizzera.
Anche i salari confermano questa tendenza. Non solo la differenza con i cugini d’oltralpe è mediamente del 16-20%, ma addirittura questa differenza anziché ridursi, aumenta. Non a caso gli ultimi dati pubblicati qualche giorno fa fotografano un Cantone con il tasso di povertà più alto di tutta la nazione. Più di una persona su dieci vive con un reddito disponibile inferiore alla soglia di povertà. Una persona su otto vive in una condizione di deprivazione materiale che le impedisce di sentirsi integrata nella comunità. Addirittura una persona su tre non potrebbe affrontare una spesa imprevista di 2’500 franchi.
Diventa quindi indispensabile la presenza di uno stato sociale forte che sostenga i suoi cittadini. E il Ticino, per fortuna, appare in questo senso uno dei Cantoni più generosi sia in termini di fiscalità sia in termini di sussidi. E che dire del confronto tra generazioni? Gli anziani fanno sempre più fatica a vivere con le pensioni, basti pensare all’incidenza dell’aumento costante dei premi cassa malati, da pagare con rendite che marciano sul posto o addirittura in contrazione. I cinquantenni vengono licenziati di punto in bianco e non riescono più a rientrare nel mondo del lavoro vivendo situazioni personali e familiari drammatiche.
Ma ancora peggio sono le prospettive future. Se guardiamo a quanto sta accadendo da un decennio scopriamo che i nostri giovani che giustamente desiderano un futuro si trovano costretti ad emigrare oltre Gottardo o a non rientrare nel loro Cantone di origine una volta terminati gli studi. E non per scelta di fare un’esperienza professionale altrove, bensì perché non siamo più in grado di offrirgli un posto di lavoro che valorizzi le loro capacità e che dia loro un salario dignitoso per vivere. Lo sanno bene i genitori che vivono questa separazione e che si ritrovano, se del caso, a fare i nonni oltre Gottardo.
Presentati in questa maniera i dati potrebbero dare una fotografia di un Cantone spacciato e scoraggiarci. Ma non è così. I dati ci consentono finalmente di mettere a fuoco i problemi di un’economia cantonale troppe volte lasciata a sé stessa, un’economia in cui la mano invisibile da sola non può funzionare. Ora è il momento di agire. È necessario pensare a un piano di sviluppo economico cantonale che ci consenta non solo di viaggiare alla velocità svizzera, ma soprattutto di dare ai nostri figli e figlie il futuro che si meritano in questo Cantone.
Tratto da “L’Osservatore” – 08.02.2020

Le donne tra parità, indipendenza e uguaglianza
Sono donna e sono contenta di esserlo. Se potessi scegliere probabilmente sceglierei di essere donna. Ma non tutto quello che sta accadendo attorno alle donne mi piace. Lotto da sempre per l’autonomia, l’indipendenza e la parità delle donne: probabilmente da quando ho capito che ce n’era bisogno. Ma per me lottare per la parità di genere ha un chiaro significato. La nostra società, tutta la nostra società, deve volere le pari opportunità per uomini e donne, perché è una questione di giustizia sociale. In questo posso riconoscermi nello sciopero del 14 giugno. Ma lottare per le pari opportunità non significa che collettivi di donne, sezioni femminili di partiti o associazioni abbiano il diritto di parlare a mio nome, anzi. Dopo secoli in cui gli uomini hanno detto alle donne cosa pensare, cosa dire e come vestirsi, ora non vorrei succedesse di nuovo, ma ad opera delle donne.
No. Io sono io; io penso quello che voglio; io parlo per mio conto; io decido come mi vesto. E pure quanto mi svesto. Questa è la libertà che la società deve garantire alle donne e agli uomini; da qui partono le pari opportunità. Niente condanne mediatiche, niente giudizi, niente specialisti del linguaggio del corpo che anziché chiedere direttamente a una donna cosa prova, si permettono di supporlo. Io parlo e penso per me stessa, senza nessun intermediario, senza nessun portavoce, né maschile, né femminile. E questo senza se e senza ma.
In piazza il 14 giugno ci saranno molte donne accomunate alle altre “solo” perché chiedono la parità. Per il resto saranno persone meravigliosamente diverse che vogliono essere liberamente diverse: ognuna con il suo credo, ognuna con i suoi valori, ognuna con la sua appartenenza politica. E nessuno, uomo o donna che sia, deve sentirsi autorizzato a dare giudizi e pagelle a quanto si è rappresentativi del genere femminile. Nella mia recente campagna elettorale hanno scritto e detto cose abominevoli sul mio essere donna: dalla mia voce, al mio modo di pormi, dal mio modo di vestire, ai miei presunti amori. Gli uomini mi hanno attaccata perché ero donna; alcune donne mi hanno attaccata perché non ero il prototipo di donna che volevano loro.
Ora, per favore, non cadiamo nell’errore di confondere la parità con l’uguaglianza. Ciò che ci accomuna, e spero nel profondo del cuore ci accomuni anche agli uomini, è la richiesta di pari opportunità e parità di trattamento. E la prima cosa che dobbiamo difendere è proprio la nostra libertà di essere diverse, la nostra libertà di parlare ognuna per se stessa. Abbiamo ideali, principi, schieramenti politici diversi, ma ciò per cui lottiamo è il diritto delle donne di essere diverse in un mondo che garantisca le pari opportunità. Niente di meno, ma nemmeno niente di più.
Tratto da “Corriere del Ticino” – 18.05.2019