Prezzi più stabili, economia incerta: la cautela delle banche centrali

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Le principali banche centrali si muovono oggi in un contesto di disinflazione ormai avanzata, ma non ancora del tutto stabilizzata. L’inflazione ha rallentato e, in alcuni casi, ha raggiunto livelli coerenti con l’obiettivo del 2%. Resta però elevata l’incertezza macroeconomica, legata alla crescita, al commercio globale e all’evoluzione del mercato del lavoro. È questo quadro che spinge le autorità monetarie a muoversi con estrema cautela.

Negli Stati Uniti la Federal Reserve (Fed) ha tagliato i tassi di 25 punti base il 10 dicembre, portando il federal funds rate nell’intervallo 3,50–3,75%. Si tratta della terza riduzione consecutiva. I dati sull’inflazione offrono un sostegno a questa scelta: l’indice dei prezzi al consumo cresce a un ritmo annuo del 3% e l’inflazione core (quella che non tiene conto dei prezzi altamente volatili dei generi alimentari e dei prodotti energetici) rimane stabile sullo stesso livello. All’interno del comitato di politica monetaria, tuttavia, non manca chi invita alla prudenza. Alcuni membri hanno infatti votato contro l’abbassamento dei tassi, segnalando timori sulla tenuta complessiva del quadro macroeconomico.

Il presidente Powell ha ribadito la necessità di procedere con cautela. Le nuove previsioni per il 2026 vanno in questa direzione: la crescita attesa è pari all’1,8%, mentre il tasso di disoccupazione è previsto in aumento fino al 4,5%. Ne emerge uno scenario di rallentamento più marcato rispetto alle stime precedenti.

Nell’Eurozona la situazione appare ancora più delicata. L’inflazione annua si colloca al 2,2% a novembre, con una componente core al 2,4%. Si tratta di valori prossimi al target della Banca centrale europea (BCE), ma che non consentono ancora un cambio di passo. La crescita economica rimane debole, con una previsione di appena lo 0,8% nel 2026, mentre il settore dei servizi continua a esercitare pressioni sui prezzi e la dinamica salariale resta sotto stretta osservazione.

A pesare sulle scelte della BCE contribuiscono le tensioni geopolitiche e le incertezze sul commercio internazionale, in particolare sul fronte transatlantico.

La Svizzera, infine, rappresenta un caso a sé. A novembre l’inflazione è tornata esattamente a zero, confermando una situazione di piena stabilità dei prezzi. La Banca nazionale svizzera (BNS) ha quindi mantenuto il tasso guida allo 0% da dicembre, rivedendo al ribasso le proprie previsioni per il 2026, quando l’inflazione attesa è stimata intorno allo 0,2%. Il rafforzamento del franco e la debolezza economica restano i principali fattori di attenzione. Al momento non vi sono indicazioni di un ritorno a tassi negativi, anche se il tema del cambio forte continua a occupare un ruolo centrale.

Per la Svizzera e il Cantone Ticino questo quadro di stabilità dei prezzi offre vantaggi in termini di competitività per un’economia orientata all’esportazione. Allo stesso tempo, però, la debolezza della crescita impone cautela.

In definitiva, il messaggio che arriva dalle banche centrali è chiaro. La fase più acuta dell’inflazione sembra alle spalle, ma il ciclo economico resta incerto. Le prossime decisioni non saranno dettate dalla politica o dagli equilibri elettorali, bensì dall’evoluzione dei dati su lavoro, inflazione e commercio. Una navigazione a vista, ma con il timone ben saldo.

Politica: Giù le mani dalla Banca Nazionale Svizzera

La Banca Nazionale svizzera (BNS) questa settimana è stata oggetto di molta attenzione da parte della stampa. Vediamo perché.
La settimana si è aperta con la notizia che la BNS ha deciso di aumentare il tasso delle riserve minime obbligatorie dal 2.5% al 4% delle passività delle banche e di considerare tutti i depositi della clientela in questo calcolo. Ma andiamo con ordine. La riserva obbligatoria è un deposito in contanti che le banche secondarie devono tenere presso la banca centrale. Questa riserva è proporzionale ai depositi della clientela. Questa specie di “conto corrente” che le banche hanno presso le banche centrali serve a poter soddisfare la domanda dei clienti che vogliono ritirare immediatamente i loro contanti. Diciamo che è una sorta di garanzia per i clienti. In effetti, magari non tutti sanno che i contanti che noi depositiamo presso le banche vengono prestati ad altri oppure investiti. La conseguenza è che se tutti noi volessimo ritirare nello stesso momento i nostri averi, questo genererebbe la famosa corsa agli sportelli e quindi il crollo del sistema bancario. Ma la riserva obbligatoria ha anche un’altra funzione, quella di ridurre di un po’ la quantità di moneta che circola nel sistema. Se c’è meno moneta, ci sarà meno domanda e questo potrebbe far abbassare i prezzi. Ricordiamo che l’inflazione in Svizzera appare sotto controllo, ma che è sempre meglio non abbassare la guardia visto anche che la stessa Banca nazionale è stata l’unica Banca centrale a ridurre i tassi di interesse qualche settimana fa. Questa misura di aumento del tasso di riserva obbligatoria potrebbe quindi compensare un po’ questa decisione.
Qualche giorno dopo, la BNS ha annunciato un utile di 58,8 miliardi di franchi nel primo trimestre di quest’anno. Sicuramente questa è una buona notizia, soprattutto se la paragoniamo alle perdite realizzate negli ultimi due anni. Il buon risultato dipende principalmente (ca. 52 miliardi) dai guadagni fatti sulle valute estere che hanno acquisito forza rispetto al franco svizzero. Per semplificare, avendo noi tanta moneta estera, abbiamo guadagnato dal suo rafforzamento. All’aumento del valore dell’oro dobbiamo altri 9 miliardi di franchi di guadagno (in parte ridotti dalle perdite sugli investimenti in franchi svizzeri). Questa buona notizia non deve però far venire l’acquolina in bocca ai cantoni: affinché ci sia distribuzione di un utile, il risultato annuale dovrà essere superiore ai 65 miliardi. E data l’incertezza che regna in questo momento, meglio essere prudenti e non contabilizzare queste possibili entrate nei conti cantonali.
Infine ieri, venerdì 26 aprile, si è tenuta l’assemblea generale della BNS. In questo appuntamento, la presidente Barbara Janom Steiner, ha ricordato che il compito della BNS è quello di garantire la stabilità dei prezzi e non quello di realizzare utili da usare per assolvere i compiti che spettano alla politica. Quindi niente versamenti per la politica climatica o quella sociale.
Ricordiamo che l’indipendenza e l’autonomia della politica monetaria da quella fiscale è stata fino ad oggi una delle fonti più sicure del nostro benessere. Vediamo di non buttare via tutto.

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La ragion d’essere della Banca Nazionale Svizzera

La Banca Nazionale Svizzera l’anno scorso ha perso oltre 130 miliardi di franchi e tutta la classe politica, da destra a sinistra, si è arrabbiata. Ma c’è veramente ragione per lamentarci dell’operato della nostra banca centrale?
Superate le gravi turbolenze degli anni ’30, gli Stati hanno capito l’importanza di dover intervenire tempestivamente sull’andamento economico per contenere l’ampiezza degli sbalzi del ciclo economico. Così a partire dagli anni ‘50 i governi e le banche centrali hanno iniziato a utilizzare gli strumenti fiscali e monetari che consentono di influenzare l’andamento generale dell’economia, il comportamento dei consumatori e dei produttori, nonché le relazioni commerciali con l’estero.
Il governo mette in atto la politica fiscale che si basa sul prelievo delle imposte e sulla spesa pubblica. La banca centrale si preoccupa della politica monetaria che consiste principalmente nella manipolazione dell’offerta di moneta, dei tassi di interesse e dei termini del credito. Le due politiche comportano vantaggi e svantaggi che fanno sì che la prima sia più indicata per il rallentamento economico e la disoccupazione. La politica monetaria invece è più efficace nei momenti di surriscaldamento e serve a contrastare la crescita dei prezzi (inflazione). Oltre a questo obiettivo le banche centrali devono garantire la stabilità del sistema dei pagamenti. È chiaro a questo punto che il compito della Banca Nazionale non è quello di fare degli utili né per sostenere le decisioni prese dalle autorità politiche e neppure per contribuire alle assicurazioni sociali come chiederebbe qualcuno. La Banca Nazionale deve preoccuparsi principalmente della stabilità monetaria e di quella dei prezzi; ed è quello che ha fatto anche l’anno scorso.
Se si guarda al passato, i vertici della banca nazionale non hanno mai mostrato particolare entusiasmo per gli utili conseguiti: ai loro occhi era chiaro che essi rappresentavano solo delle riserve per quanto sarebbe accaduto negli anni a venire. E così è stato. La politica, al contrario, si è fatta ingolosire. Dopo aver modificato la legge per aumentare i contributi versati ai Cantoni, ha iniziato a fantasticare sull’uso dei profitti. Dalla politica ambientale a quella previdenziale, le proposte non sono mancate. Ma vi è stato un errore di fondo. La Banca Nazionale è un ente autonomo che non dipende dalla politica e che soprattutto non deve essere utilizzato per finanziare le sue decisioni. Così, ci rincresce dirlo, ma sta ai Cantoni e ai parlamentari fare scelte politiche che si autofinanzino o se non lo ritengono necessario, aumentare il debito pubblico. Queste sono responsabilità della politica che nulla hanno a che vedere con quelle della Banca Nazionale che ha svolto e sta svolgendo il suo ruolo.

L’Osservatore, 21.01.2023

La ragion d’essere della Banca Nazionale Svizzera

Previsioni economiche per la Svizzera: bene, ma non benissimo

L’economia svizzera tiene, ma si vedono all’orizzonte delle nubi nere. La Segreteria di Stato dell’economia (SECO) ha pubblicato le previsioni economiche per la fine di quest’anno e per il prossimo anno. Il tasso di crescita previsto per il Prodotto Interno Lordo (PIL) del 2022 è stato ridotto al 2%, in confronto al 2.6% di qualche mese fa. Peggio ancora sarà il PIL l’anno prossimo: la sua crescita è stimata solo all’1.1%.
Le cause di questo rallentamento sono da ricercare nell’andamento dell’economia internazionale: Stati Uniti, Unione Europea, Regno Unito e persino la Cina mostrano una certa frenata. Sicuramente su queste economie pesano i fattori che oramai la fanno da padrona negli ultimi mesi: aumenti dei prezzi, penuria di fonti energetiche e possibile nuova ondata di pandemia. Questi elementi oltre a causare importanti cali delle produzioni, sono fonte di grande incertezza. E l’incertezza è forse la più grande nemica dell’economia.
Dando un’occhiata alla situazione Svizzera si vede che i consumi privati ancora per quest’anno alimentano la crescita; discorso contrario invece quello sugli investimenti in costruzioni che chiuderanno con una riduzione del 2.2% rispetto all’anno scorso. Che il settore dell’edilizia fosse in difficoltà si intuiva da qualche mese. Certamente la politica monetaria restrittiva che sta spingendo verso l’aumento dei tassi di interesse non sarà di aiuto. Ma anche un altro settore preoccupa un po’ ed è quello delle esportazioni di beni, che proprio perché collegato agli acquisti da parte degli altri paesi, mostra una riduzione importante della sua crescita, passando dal 4.7% a solo l’1.3%. Dato questo che non sembra progredire troppo nemmeno l’anno prossimo.
Oltre a ciò nel 2023 si stima un rallentamento all’1.4% della crescita dei consumi e addirittura una riduzione della spesa pubblica di 2.5 punti percentuali. Evidentemente gli esperti stimano che lo Stato non andrà in soccorso alla politica monetaria restrittiva contrapponendovi una politica fiscale espansiva (aumento della spesa pubblica).
Guardando agli effetti sul mercato del lavoro fortunatamente l’aumento del tasso di disoccupazione appare ancora contenuto (2.3%), anche se la creazione di nuovi posti di lavoro risulta molto più bassa di quella conosciuta quest’anno. Sul fronte dei prezzi, se le aspettative sono peggiorate per il 2022 passando da un aumento del 2.5% al 3%, la SECO prevede una riduzione dell’inflazione per l’anno prossimo al 2.3%. Non vogliamo essere troppo pessimisti, ma allo stato attuale e con l’inverno alle porte un aumento dei prezzi così contenuto ci sembra una bella speranza, ma niente di più.

La versione audio: Previsioni economiche per la Svizzera: bene, ma non benissimo

Finanze pubbliche fuori controllo. Colpa di Keynes?

Crisi economica uguale intervento dello Stato. Quella che oggi ci sembra un’equazione scontata è frutto invece di una lunga evoluzione storica, e anche teorica. Quando John Maynard Keynes nel 1936 pubblica la “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” ha di fronte a sé economie industriali occidentali dilaniate dalla disoccupazione e dalla sottoutilizzazione dei macchinari.
La teoria marginalista, che andava per la maggiore in quel periodo, sosteneva due concetti fondamentali: l’importanza della produzione e il raggiungimento automatico dell’equilibrio economico in tutti i mercati. Keynes li stravolgerà entrambi.
Ma vediamo che cosa sostenevano. Primo: si dava un’attenzione esclusiva all’offerta. Se noi produciamo dei beni dovremo pagare dei lavoratori che a loro volta compreranno con i salari quanto prodotto. Concetto abbastanza semplice, ma che non ha retto al confronto con la realtà degli anni ’30. Così come non ha retto l’idea che la disoccupazione si sarebbe risolta da sola portando il sistema in equilibrio. Il meccanismo è abbastanza intuitivo: se le risorse degli imprenditori sono limitate, nessun problema. La disoccupazione in eccesso porterà a un abbassamento dei salari cosicché gli imprenditori potranno assumere i lavoratori in esubero. Anche in questo caso, problema risolto. Peccato che aprendo la finestra lo scenario che si aveva davanti era quello di un tasso di disoccupazione elevato persistente e di macchinari inutilizzati.
E qui arriva il genio di Keynes che rivoluzionerà il pensiero economico. Innanzitutto l’economista sostiene che i sistemi economici debbano essere analizzati attraverso le variabili aggregate, come la produzione nazionale, l’occupazione totale, il livello dei prezzi generale. In particolare poi l’attenzione deve essere messa sulla domanda aggregata, che altro non è che quello che consumano le famiglie, che investono le aziende, che spende lo Stato e che si esporta all’estero. Ma non è tanto questa la rivoluzione, quanto quella di invertire il pensiero: non vendiamo tutto quello che produciamo, ma, al contrario, produciamo solo quello che vendiamo. E se immaginiamo di vendere poco, allora produrremo poco e questo causerà licenziamenti. Quando si verifica una situazione di disoccupazione siamo in presenza di una domanda che non è abbastanza grande rispetto all’offerta che garantisce il pieno impiego.
Ma Keynes si spinge oltre. Dimostra che in presenza di questo genere di crisi economica e di questa specifica disoccupazione, solamente un agente può intervenire per aumentare la domanda e quindi la produzione e quindi l’occupazione: questo agente è lo Stato. In effetti, se ci pensiamo, non possiamo obbligare i consumatori a comperare più prodotti come non possiamo obbligare gli imprenditori ad aumentare gli investimenti e, men che meno, abbiamo un potere sulla domanda dell’estero. Insomma solamente lo Stato in maniera diretta attraverso la politica fiscale o indiretta attraverso la politica monetaria può far aumentare la domanda.
Ma la grande accettazione della teoria di Keynes passa anche attraverso un punto che spesso viene sottovalutato: l’intervento dello Stato deve essere limitato esclusivamente ai momenti di crisi. E anche in questi momenti deve essere concessa la massima libertà ai consumatori e agli imprenditori. Keynes è un sostenitore di un capitalismo “saggio” e di un intervento dello Stato mirato.
E allora com’è possibile che le teorie keynesiane abbiano portato a una spesa pubblica fuori controllo? Purtroppo come spesso accade, prendiamo solo quello che ci piace. E così nel corso dei decenni la classe politica ha preferito non applicare la parte della teoria di Keynes che prescrive che nei momenti di crescita economica lo Stato debba ridurre la sua spesa pubblica e addirittura aumentare le entrate fiscali. Ma come dargli torto? Ve lo immaginate il successo elettorale di un politico che con tono fiero dichiara “Cittadine, cittadini sono veramente felice dell’ottimo momento economico che stiamo vivendo. Per questo abbiamo deciso di ridurvi i sussidi e nel contempo di aumentarvi le tasse.”

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Il debito pubblico fa paura?

La crisi sanitaria del COVID-19 sta causando una gravissima crisi economica. Gli Stati limitano i danni aiutando le aziende e le persone. Ma questo ha un costo: deficit e debito pubblico aumenteranno. Dobbiamo avere paura del debito pubblico? Fino a che punto le politiche fiscali e quelle monetarie possono impedire licenziamenti, povertà e aumento delle disuguaglianze? E se è vero che il debito pubblico non dovrà per forza essere pagato, perché ce ne preoccupiamo così tanto? Dieci minuti per avere queste e tante altre risposte.