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Dazi sì, dazi no…

Domanda: A suo avviso perché Trump ha fatto retromarcia, congelando per 90 giorni i super dazi per la maggior parte dei paesi? Era una strategia negoziale prevista fin dall’inizio, come sostiene il Governo americano, oppure il presidente si è spaventato per la reazione turbolenta dei mercati, con particolare riferimento ai titoli di Stato americani?
Probabilmente la decisione di rinviare per tre mesi l’applicazione dei super dazi – mantenendoli però nei confronti della Cina – era uno degli scenari già considerati a Washington. A supporto di questa ipotesi si può citare l’intervento del 7 aprile del Consigliere economico della Casa Bianca, Kevin Hassett, che aveva lasciato intendere la possibilità di una sospensione, poi smentita ufficialmente. La moratoria è comunque entrata in vigore il 9 aprile, proprio il giorno in cui le nuove tariffe sarebbero dovute scattare.
L’evoluzione successiva si è sviluppata secondo schemi ben noti all’analisi economica. Primo: la minaccia tariffaria ha avuto l’effetto desiderato, mostrando un alto grado di credibilità e spingendo i partner internazionali a muoversi in direzione di un confronto negoziale. Secondo: il crollo dei mercati azionari a livello globale era un effetto annunciato, così come la reazione immediata delle grandi imprese coinvolte, preoccupate per l’impatto sui margini e sulle catene di fornitura. Terzo: le vendite di titoli di Stato americani e il conseguente aumento dei rendimenti erano del tutto in linea con le aspettative, così come l’indebolimento del dollaro, che potrebbe essere stato anche un obiettivo indiretto dell’operazione. In sintesi, se si decide di generare deliberatamente uno shock – come quello rappresentato da dazi elevatissimi annunciati unilateralmente – le reazioni del sistema sono anticipabili. Ciò che, forse, ha sorpreso è stata la rapidità e l’intensità con cui queste reazioni si sono manifestate. Ed è verosimile che proprio questa risposta anticipata e molto violenta abbia indotto la Casa Bianca a sospendere l’applicazione delle misure, prima ancora che venissero materialmente applicate a un solo paese.


Domanda: L’escalation con la Cina invece prosegue senza esclusione di colpi. Quali sono le conseguenze per l’economia globale della guerra commerciale in atto tra Pechino e Washington?
La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina – le due principali potenze economiche globali – è destinata ad avere ripercussioni rilevanti sull’economia mondiale. L’imposizione di dazi statunitensi fino al 145%, a cui la Cina ha risposto con contromisure tariffarie (al 125%) e contromisure su tecnologie strategiche e materie prime critiche, come le terre rare, mette sotto pressione le catene globali del valore. Le conseguenze sono già osservabili: l’aumento dei costi per le imprese si traduce in una pressione al rialzo sui prezzi finali per i consumatori. Parliamo di beni ad ampia diffusione come smartphone, abbigliamento o automobili. L’inflazione, da poco sotto controllo, torna quindi a essere un tema centrale nel dibattito economico.
Quanto all’impatto sul commercio internazionale, formulare previsioni precise in questa fase è prematuro. Tuttavia, una contrazione – seppur ancora da quantificare – è un esito plausibile, anche solo per effetto dell’incertezza. E l’incertezza è notoriamente una delle condizioni più penalizzanti per l’economia. Da un lato, può spingere i consumatori a rallentare i consumi; dall’altro, può paralizzare le decisioni strategiche delle imprese, che si trovano in bilico tra investire, delocalizzare o attendere.
Sul fronte delle due superpotenze, la Cina comunica fiducia e stabilità. Ha diversificato i propri mercati di sbocco, rafforzando i legami con l’Asia, l’Africa e l’America Latina. Tuttavia, il ruolo delle esportazioni verso economie ad alto reddito resta determinante per la sua crescita. Gli Stati Uniti, pur apparendo oggi meno affidabili come partner commerciali, mantengono una posizione dominante: restano la prima potenza economica, finanziaria, militare e tecnologica globale.
A fronte di questo scenario, ciò che desta maggiore preoccupazione è la posizione dell’Unione Europea. Pur rappresentando un attore economico di rilievo, l’UE non ha la stessa forza negoziale né la stessa coesione politica delle due potenze in campo. L’assenza di una vera unione politica – con una governance comune e una politica estera condivisa – limita fortemente la capacità dell’Europa di incidere sulle dinamiche globali.
Di fatto, anche in questo contesto, l’UE agisce in modo reattivo. Non detta l’agenda, ma risponde agli stimoli esterni. Questo squilibrio strutturale indebolisce il suo peso nella definizione delle regole del commercio internazionale, rendendola esposta alle decisioni unilaterali di Washington e Pechino.


Domanda: Intanto Europa e Pechino flirtano apertamente, come mai prima d’ora. Il presidente XI JINPING ha lanciato un appello all’UE ad unirsi alla Cina contro il bullismo americano, ricordando tuttavia che nessuno può vincere una guerra commerciale. A preoccupare maggiormente però è la crisi di fiducia nella stabilità del sistema Paese USA che Trump ha provocato con la sua politica tariffale, oltre al clima d’incertezza che angoscia le imprese ti tutto il Mondo, Svizzera compresa. Tra Europa e Cina sarà solo un flirt o si andrà oltre? E dovremo abituarci a una nuova era di precarietà?
L’invito rivolto da Xi Jinping all’Unione Europea a contrastare il cosiddetto “bullismo” americano si inserisce in una strategia chiara da parte della Cina: approfittare dell’instabilità generata dalle politiche tariffarie statunitensi per proporsi come interlocutore affidabile. Per l’Europa, tuttavia, la posizione è delicata. Da un lato, deve preservare l’alleanza con gli Stati Uniti, fondamentale per la sicurezza e la cooperazione geopolitica. Dall’altro, le imprese europee colpite dalle misure protezionistiche americane vedono nella Cina un mercato prioritario e un importante bacino d’investimenti. Al di là delle dichiarazioni fatte anche sull’onda di una certa necessità, non dimentichiamo che pochi mesi fa, nell’ottobre 2024, Bruxelles ha deciso di imporre dazi fino al 35% sulle automobili elettriche cinesi, una mossa per proteggere l’industria automobilistica europea dalla concorrenza a basso costo di marchi come BYD o NIO. Questa decisione riflette il timore dell’UE di perdere terreno in un settore strategico, ma ha anche irritato Pechino che ha risposto con indagini antidumping su prodotti europei come il brandy francese.
Questi sviluppi mostrano come un eventuale riavvicinamento tra UE e Cina sia tutt’altro che semplice e rappresenti un grande rischio per l’Unione Europea. Sul piano economico, una maggiore esposizione commerciale verso la Cina comporta rischi non trascurabili. La dipendenza in settori chiave – come le tecnologie avanzate o le materie prime critiche – potrebbe trasformarsi in una leva di pressione politica. La Cina, in passato, ha già limitato l’esportazione di risorse strategiche come strumento di risposta alle tensioni diplomatiche. A questo si aggiunge il rischio di compromettere i rapporti con gli Stati Uniti su temi come la sicurezza e l’innovazione. Infine, e forse rischio ancora più grande, l’Europa potrebbe trovarsi schiacciata dalla Cina, una superpotenza con un’economia di certo non liberale e che non condivide i valori democratici dell’UE. Aumentare gli scambi senza garanzie di reciprocità potrebbe portare a una competizione sleale, con le imprese europee penalizzate da sussidi cinesi e mancanza di accesso equo al mercato di Pechino.
In un mondo dominato da due superpotenze, l’Europa rischia di rimanere un attore secondario, costretta a navigare tra i due giganti senza poter imporre la propria visione. La Svizzera, fatte le debite proporzioni, al contrario, adotta un approccio più flessibile verso la Cina. È stata il primo paese europeo a firmare un accordo di libero scambio con la Cina, siglato nel 2013 ed entrato in vigore nel 2014. L’intesa ha contribuito a ridurre le barriere tariffarie su settori ad alta specializzazione come la farmaceutica, l’orologeria e la meccanica. È significativo che l’intesa non includesse, per la prima volta, un preambolo esplicito sul rispetto dei diritti umani, riflettendo la priorità svizzera di massimizzare i benefici economici senza farsi scrupoli in questioni ideologiche. Questo orientamento ha permesso alla Svizzera di costruire relazioni commerciali stabili con Pechino, a differenza dell’UE, che continua a oscillare tra la tutela dei principi e la difesa degli interessi. Ne è prova l’Accordo Globale sugli Investimenti (CAI) negoziato per anni e che è stato sospeso nel 2021 dal Parlamento Europeo a seguito di tensioni diplomatiche e divergenze sui diritti umani.

Intervista pubblicata da Liberatv, 12.04.2025

Le nuove incertezze geopolitiche e il loro prezzo economico

Il panorama economico globale è una fonte costante di sorprese. Da oltre un anno ci occupiamo del problema dell’inflazione e ora che i dati delle principali economie sembrano rassicurarci, dobbiamo fare i conti con nuove incertezze e nuove preoccupazioni.
Il conflitto tra Russia e Ucraina è ancora aperto e purtroppo non sembra dare segnali di essere vicino a una conclusione. Se è vero che fino a qualche giorno fa potevamo sostenere che le principali nazioni nel frattempo avevano risolto i problemi di approvvigionamento energetico dovuti alla decisione di embargo di gas e petrolio dalla Russia e si stavano avvicinando a un inverno abbastanza tranquillo, ora la nostra opinione è decisamente cambiata. Al dramma ucraino se ne aggiunge ora un altro nel Medio Oriente. Naturalmente la nostra attenzione primaria rimane quella delle vite umane.
Tuttavia, sarebbe imprudente ignorare le ripercussioni di questa situazione sugli equilibri geopolitici ed economici futuri. E ancora una volta, purtroppo, il mondo sembra dividersi tra due blocchi che tanto ricordano quelli della guerra fredda.
A differenza di allora, però, oggi le economie sono ancora più collegate e connesse: qualunque piccola incertezza o instabilità si propaga a macchia d’olio. Questo porta, se possibile, ad aumentare ancora di più i dubbi su quello che sarà il futuro. Se da una parte abbiamo visto dati incoraggianti dei prezzi sia negli Stati Uniti che in Europa, dall’altra la paura di una stagnazione economica rimane nell’aria. E anche su questo dovrà fare importanti riflessioni la Federal Reserve (che ricordiamo è la Banca Centrale degli Stati Uniti) tra un paio di settimane quando sarà chiamata a decidere sull’aumento o meno dei tassi di interesse.
A questo si aggiungono le notizie negative che giungono dalla Cina. È notizia proprio di pochi giorni fa che anche Country Garden, uno dei più importanti costruttori e venditori cinesi di case, non è riuscito a pagare gli interessi su un debito estero. Questo possibile fallimento segue quello di qualche mese fa di Evergrande. Ma non finisce qui. Al rischio di bolla immobiliare oggi si aggiunge un debito pubblico molto elevato, una disoccupazione giovanile preoccupante e un rischio sempre più credibile di deflazione. Sì perché anche la riduzione dei prezzi, quando è causata da una mancanza di domanda, diventa un problema economico molto importante. E una sorte simile sembra viverla anche la Germania, fino a qualche mese fa considerata la locomotiva di Europa.
Insomma, anche se al momento i dati dell’economia svizzera non sembrano destare particolare preoccupazione, non possiamo fingere di essere un’isola felice in questo mondo che, anche da un punto di vista economico, non sembra andare proprio nella direzione giusta.

Pubblicato da L’Osservatore, 21 ottobre 2023

Le criticità dell’economia

Tantissimi auguri per il nuovo anno, cara economia! Sì, perché ne hai proprio bisogno. Il nuovo anno sarà duro per tutti e quindi un po’ di fortuna e di buon auspicio non guastano. Le ultime settimane dell’anno appena finito hanno mostrato tutte le criticità che ritroveremo anche nel prossimo.
A differenza di quanto si era prospettato, purtroppo il virus non si è arrestato, anzi una nuova variante si è fatta strada. Questo ha nuovamente causato problemi ai settori economici che già soffrivano, e non poco, a causa degli ultimi due anni di pandemia. Il settore del turismo, dei trasporti privati, degli eventi, della ristorazione, ma anche i piccoli commercianti, gli artigiani che aspettavano il periodo natalizio per poter dare una svolta alle loro attività, hanno purtroppo dovuto fare i conti con l’ennesima ondata. Emblematico quanto successo negli ultimi giorni nel settore dei trasporti aerei. Alle difficoltà legate alle restrizioni dei viaggi tra le nazioni che avevano causato molti annullamenti, si sono aggiunte quelle relative alle quarantene del personale di bordo e di terra. Questo ha portato alla cancellazione di migliaia di voli; fatto che pregiudicherà ulteriormente la già delicata situazione delle compagnie aeree e degli aeroporti. E le quarantene non si limitano a questo settore, anzi. Si arrischia ora di tenere a casa migliaia di collaboratori e collaboratrici paralizzando l’intero sistema economico.
Ma non finisce qui. Ai problemi legati alla pandemia si aggiungono quelli degli approvvigionamenti internazionali. Le catene di fornitura sono in difficoltà e lo sono oramai da mesi. Non c’è ragione di credere che la situazione si risolverà miracolosamente a breve. E che dire dell’aumento vertiginoso dei prezzi delle materie prime? I nostri imprenditori e le nostre aziende devono fare i conti anche con questo. Ritardi, aumenti dei prezzi, mancanza di materiale stanno mettendo sotto pressione tutti i nostri comparti produttivi.

Come se non bastasse, si aggiunge la penuria di energia che fa lievitare anche questi prezzi. E pare che non sarà una fase transitoria come alcuni sperano. La necessità di utilizzare sempre di più forme di energia pulita, ci sta purtroppo riportando verso l’energia nucleare. In maniera un po’ bizzarra è come se i giovani che scendono oggi nelle piazze a manifestare per il clima avessero fatto scacco matto ai giovani che scendevano in piazza vent’anni fa contro il nucleare.

E che dire dei precari equilibri geo-politici con Russia e Cina sempre sul piede di guerra? Di certo non ci fanno dormire sonni tranquilli.

Dati tutti questi drammi e queste incertezze non ci resta che tenere le dita incrociate e fare tantissimi auguri per il nuovo anno alla nostra cara economia!
Tratto dal Corriere del Ticino del 12.01.2022

La versione audio: Le criticità dell’economia
Iniziativa per l'abbandono del nucleare - DATEC
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Russia, Cina e Kazakistan sono grandi “amiche”

L’aumento dei prezzi ha scatenato l’ennesima rivolta dei cittadini. Questa volta in Kazakistan.
Il Kazakistan è la nazione più grande dell’Asia Centrale: il suo territorio ha una superficie pari a quella dell’Europa Centrale. Conta circa 19 milioni di abitanti (la Svizzera circa 8.5 milioni). Oltre a confinare con diversi stati dell’ex Unione Sovietica di cui è stata una Repubblica fino al 1991, annovera tra i suoi vicini, la Russia e la Cina. E non a caso questi due “amici” sono intervenuti a sostegno del governo per reprimere la rivolta scoppiata a inizio gennaio, quando il popolo è sceso in piazza per protestare contro l’aumento vertiginoso del prezzo del gas, in particolare del Gpl (gas di petrolio liquefatto). Fino a quel momento il governo era intervenuto fissando un limite massimo al prezzo. Questo limite è stato tolto ufficialmente per consentire alle imprese produttrici private di fare profitti dato che è necessario ammodernare gli impianti e costruirne di nuovi. Ma il prezzo è raddoppiato in pochi giorni. Da qui la protesta di piazza. Ma come mai Cina e Russia sono intervenute così in fretta per sostenere questo Paese? Le ragioni sono molte; anche economiche.
L’economia del Kazakistan è abbastanza particolare. Pur non essendo un paese molto sviluppato, può contare su una ricchezza incredibile in termini di risorse naturali. Già, proprio quelle risorse di cui ha fame il mondo.
Questa nazione possiede innumerevoli giacimenti di idrocarburi, terreni ricchi di metalli (il 60% delle risorse minerarie dell’ex Unione Sovietica si trova in questa nazione), è il nono paese esportatore al mondo di petrolio e il decimo di carbone. Senza dimenticare che l’alleanza con la Russia è siglata anche dalla presenza sul suo territorio della base di lancio della stazione aerospaziale russa.
E non finisce qui. Il Kazakistan è il primo produttore al mondo di uranio; ne fornisce oltre il 40%. Questo metallo in forma arricchita serve per alimentare le centrali nucleari che oggi stanno diventando l’alternativa “pulita” all’uso del carbone e la risposta alla crisi climatica. Insieme alla Russia c’è un altro importante cliente di questa risorsa. La Cina, che necessita di molta energia e che ha iniziato la transizione energetica, conta sul suo territorio 54 impianti nucleari e 14 in progettazione. Insomma, l’uranio le serve.
In aggiunta negli ultimi anni il paese è diventato il secondo estrattore al mondo di Bitcoin, dietro solo agli Stati Uniti. Le aziende che prima avevano sede in Cina si sono trasferite in Kazaskistan dopo il divieto cinese di svolgere transazioni in criptovalute e l’introduzione di normative che ne limitavano fortemente la produzione. Peccato che i super computer che creano i Bitcoin divorano energia; anche per questo nel Paese ci sono stati aumenti dei prezzi, blackout e la necessità di rivolgersi alla Russia per compensare la forte domanda.
Insomma, questa nazione di cui conoscevamo poco fino a qualche giorno fa, in realtà ha una grande importanza strategica ed economica. E forse proprio per questo Russia e Cina sono sue grandi amiche.

La versione audio: Russia, Cina e Kazakistan sono grandi “amiche”

Patrimoni miliardari immuni dal Covid-19

Il Bloomberg Billionaires Index fornisce una classifica aggiornata quotidianamente delle persone più ricche al mondo. Per ogni miliardario dà la composizione del suo patrimonio. Certo è lo stesso esercizio che facciamo anche noi quando compiliamo la dichiarazione delle imposte e dobbiamo stimare la nostra sostanza. Ma se andate a spulciare uno dei tanti profili dei miliardari vi renderete conto che c’è una bella differenza tra i nostri patrimoni e i loro. Partecipazioni in società quotate in borsa, sconti da applicare in funzione dei rischi legati ai Paesi in cui si detengono partecipazioni pubbliche, valutazioni degli hedge fund, stima della liquidità; insomma deve essere proprio difficile capire quanto si è ricchi quando si è veramente ricchi.
Una cosa però è certa. Anche il COVID-19 colpisce in maniera diversa le classi sociali. Mentre milioni di persone hanno perso il lavoro e stanno chiudendo le loro attività a causa della pandemia, possiamo tirare un sospiro di sollievo perché i 500 miliardari più ricchi della terra hanno visto il loro patrimonio aumentare anche quest’anno. E pensare che subito dopo il primo lockdown mondiale eravamo preoccupati per la loro sorte, dato che i loro patrimoni avevano mostrato perdite importanti.
La notizia bizzarra è che addirittura sono i miliardari cinesi (Wuhan vi ricorda qualcosa?) ad aver visto la loro ricchezza aumentare di più: in effetti, essa è cresciuta quasi del 54%. Saremmo tentati di pensare a uno strano scherzo del destino se non fosse che anche negli anni passati la Cina ha mostrato crescite impressionanti. Non dimentichiamo che proprio studi recenti affermano che la Cina diventerà la prima potenza mondiale scavalcando gli Stati Uniti in anticipo rispetto a quanto previsto.
Ma non preoccupiamoci troppo dei miliardari statunitensi: anche loro hanno visto aumentare la loro ricchezza di oltre il 25%, un po’ di più dei “cugini” inglesi. In Europa, dove la ricchezza è aumentata mediamente “solo” del 15%, c’è anche chi si è impoverito: i miliardari spagnoli (quasi del -12%) e quelli ciprioti (-8%).
Naturalmente la ricchezza dipende dalla performance dei diversi settori economici: i servizi, la sanità, le tecnologie hanno registrato guadagni superiori al 50%, le materie prime “solo” del 32% e i settori industriali del 26%.
Ma com’è possibile che ci siano delle disuguaglianze così grandi? E la storia ha sempre mostrato queste differenze?
Da una parte è vero che la teoria economica ci insegna che per raggiungere lo sviluppo è necessario passare attraverso una certa concentrazione della ricchezza produttiva. Averla nelle mani di poche famiglie consente di accumulare macchinari e mezzi per produrre. Oggi però la situazione che viviamo è ben diversa.
Le differenze e le disuguaglianze stanno diventando insostenibili. Oltre a creare tensioni importanti tra le classi sociali, esse non sono più ritenute necessarie allo sviluppo economico, anzi.
A onor del vero, dall’inizio del XX secolo l’intervento dello Stato, le imposte progressive, l’istruzione pubblica e la maggiore solidarietà hanno ridotto le disuguaglianze. Queste politiche hanno portato nel 1980 in Europa il 10% più ricco a possedere circa il 40-50% del patrimonio. Purtroppo questo trend positivo si è arrestato attorno agli anni Ottanta, con le politiche liberiste di deregolamentazione e globalizzazione di Ronald Reagan e Margaret Thatcher oltre a quelle della finanza internazionale.
Ora, questa nuova crisi dovrà essere l’occasione per ripensare anche alla validità delle nostre politiche fiscali e soprattutto ai meccanismi che consentono un’accumulazione eccessiva.

La versione audio: Patrimoni miliardari immuni dal Covid-19