Anche le Borse si ammalano di Covid-19

Abbiamo visto in questi giorni che nemmeno le borse sono immuni dal virus e dalle sue varianti, anzi. Ieri, 21 dicembre, la maggioranza dei telegiornali apriva le sue notizie dicendo che le borse europee avevano “bruciato” oltre 200 miliardi euro. Certo che letta così una notizia un po’ di paura la fa. Ma che cosa significa veramente? Come funzionano le borse? E perché sono così sensibili alla notizia di una possibile variante del Covid-19? Proviamo a capirlo.
La borsa ha origini lontanissime; si dice che già in epoca romana avvenivano compravendite tra banchieri, mercanti e uomini d’affari nelle piazze. La forma più moderna sembra però risalire al Belgio del 16 secolo. Si narra che i banchieri e i commercianti fiamminghi si riunivano per fare affari nella piazza antistante e nel palazzo dei Van der Burse, famiglia di banchieri. Il vocabolo Borsa parrebbe nascere proprio dalle tre borse dello stemma di questa famiglia. Anche se per alcuni studiosi in realtà il cognome era la traduzione di “Della Borsa”, famiglia di ricchi mercanti veneziani.
La prima borsa moderna divenuta operativa dal 1531 nel mercato delle contrattazioni fu Anversa, seguita poi da quella di Londra, Amsterdam, Venezia,… Proprio ad Amsterdam si diffuse la compravendita di titoli che rappresentavano un credito o una merce che era in viaggio da un paese lontano. I compratori offrivano del denaro e in cambio ottenevano un documento cartaceo, la lettera, in cui vi era la promessa di trasferimento della merce o del denaro entro una certa data. Da qui, l’idea ancora moderna di acquistare titoli.
Con il tempo la borsa non solo serviva a fare compravendite di merci, ma sempre più ha iniziato a offrire alle imprese la possibilità di trovare capitali finanziari per realizzare i loro progetti. Pensate un po’: magari voi avete una bella idea imprenditoriale, ma non avete i finanziamenti. Ecco che il meccanismo della borsa vi consente di suddividere in tantissime parti la vostra azienda, vendere le azioni ad altre persone e con il ricavato realizzare i vostri progetti. È evidente che se la vostra azienda sembra avere buone possibilità di successo e quindi essere un investimento vantaggioso il suo valore aumenta e tanti vorranno comperarne un pezzettino aumentando il suo prezzo. Se invece c’è aria di crisi e c’è incertezza sui guadagni futuri dell’azienda o sulla sua sopravvivenza, le persone che hanno comperato le azioni cercheranno di venderle e questo causerà l’abbassamento del prezzo.
Ecco questo è proprio quello che è successo ieri e che è successo dall’inizio della pandemia. Date le misure di confinamento e le chiusure delle attività, ci si aspettava una riduzione importante delle cifre di affari delle aziende quotate in borsa. Così tutti i proprietari dei pezzettini di aziende hanno iniziato a vendere le loro azioni abbassandone il valore. Ma se tutti vendono si innesca una corsa al ribasso. Quindi che cosa comperare quando c’è questo tipo di crisi economica? I beni rifugio. Quindi tutti a comperare oro e metalli preziosi; ed ecco il loro prezzo salire. La notizia di ieri ha innescato lo stesso meccanismo: se fino a poche ore prima eravamo certi che il vaccino avrebbe consentito di tornare a una vita normale e consumare i beni prodotti dalle aziende, i cui utili sarebbero saliti, una nuova variante ha rigettato tutti nell’incertezza. Ecco la corsa alla vendita delle azioni e la perdita di valore delle aziende. Attenzione però, quei 200 miliardi di euro “bruciati” dalle borse sono solo in realtà la riduzione del valore delle azioni. E del valore delle azioni di chi le possiede.

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Cara Italia, così non va… L’Unione Europea e i suoi funzionari non dormono mai

L’Unione Europea e i suoi funzionari non dormono mai. Ed eccoli, rapidamente richiamare l’Italia al rispetto delle regole comunitarie. Ma facciamo un passo indietro per capire bene quello di cui stiamo parlando.
L’Italia lancia il Cashback di Stato (magari potevano trovare un nome in italiano…) per incentivare l’uso dei pagamenti digitali. Non che il governo attualmente in carica sia un sostenitore della tecnologia, ma sicuramente questa tracciabilità consente in parte di provare a porre un freno all’evasione. Per farla semplice se pagate in maniera tracciabile i vostri acquisti, quindi con carte di credito e debito e app di pagamento, potete ricevere un rimborso pari a 150 euro nel mese di dicembre e a 300 euro per l’anno prossimo. Inoltre il sistema consente di premiare i cittadini che faranno più transazioni con un rimborso aggiuntivo. Per non farsi mancare nulla, e forse personalmente questa terza parte la avrei evitata, l’Italia ha anche pensato di associare a questo progetto una lotteria nazionale per consumatori ed esercenti.
Orbene, la Banca centrale europea, non ha atteso molto a ricordare all’Italia che fa parte del mercato unico e che il loro tentativo di arginare il nero, rappresenta una violazione alla libera concorrenza, tanto cara all’Unione Europea. Insomma, oltre a consultarsi preventivamente con la Banca Centrale Europea all’Italia viene rimproverato il fatto di favorire un mezzo di pagamento a favore di un altro (il digitale a scapito del contante) e di non avere prova che questa misura serva a contrastare l’evasione fiscale.
Personalmente ritengo che l’Italia abbia cercato di ottenere i famosi due piccioni con una fava: incentivare una dichiarazione più veritiera delle cifre d’affari riducendo il nero e sostenere i consumatori. Ora, davvero una Nazione sta facendo del male ai suoi cittadini se li sostiene in un momento di difficoltà come quello che stiamo vivendo?
E soprattutto, è davvero necessario che la Svizzera entri sempre più in questo meccanismo di presunto libero mercato che allontana dai bisogni e dalla protezione dei propri cittadini? A voi, come sempre il giudizio…

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Conti pubblici malati (e non solo dal Covid-19)

Le finanze pubbliche sono messe sotto pressione e lo saranno anche nei prossimi anni a causa della pandemia. La responsabilità dei conti in rosso, tuttavia, non è solo del Covid-19; e di questo prima o poi bisognerà parlare. Aiutare le aziende e le famiglie in questo momento, ossia fare una politica fiscale espansiva, è la medicina migliore per la crisi economica. E guai a parlare di aumento delle imposte. Questo non significa però che non sarà necessario, prima o poi, mettere ordine nei conti pubblici, anzi. Di questo ho scritto sul Corriere del Ticino, che ringrazio per la pubblicazione.

I disavanzi del Cantone
Il Cantone ha aggiornato i dati delle finanze pubbliche. I conti di quest’anno chiuderanno con una perdita di quasi 250 milioni di franchi. Lo Stato spenderà molto di più di quello che incasserà. L’andamento negativo dipende principalmente dal fatto che le persone e le aziende guadagneranno molto meno e questo le porterà a pagare proporzionalmente ancor meno imposte; imposte che rappresentano la fetta più importante delle entrate dello Stato. Ecco perché di solito si auspica che l’economia sia solida e in crescita: non solo per il sistema economico, bensì ancora di più per i nostri sistemi sociali. Perché con imposte dirette progressive una crescita del 2% assicura un aumento del 3% e più al fisco. Il lato delle entrate però è quello che dovrebbe preoccupare di meno: una volta passata la crisi, il sistema dovrebbe ricominciare a funzionare e le entrate a crescere. Anche se in questo caso l’impatto è stato molto forte, parleremmo di un “normale” ciclo economico.
Affinché però le cose vadano in questa direzione, l’economia adesso e per i prossimi mesi necessita di un deciso e diretto sostegno finanziario. La maggior parte delle attività economiche ha visto i ricavi scendere drasticamente, mentre i costi fissi come l’affitto, l’elettricità, i leasing dei macchinari, i prestiti sono lì da pagare. Date le misure adottate a causa della seconda ondata e il paventato avvento di una terza, le cose non sono destinate certo a migliorare.
Ora saremmo tentati di credere che le maggiori spese che appaiono nei conti del nostro Cantone siano legate proprio a questo tipo di risposta alla crisi del Covid-19. Purtroppo non sembra essere il caso. Gli aumenti della spesa registrati e previsti per quest’anno riguardano esclusivamente la gestione immediata delle conseguenze sulla salute della pandemia: costi maggiorati per i ricoveri, materiale sanitario, misure atte a garantire il distanziamento. Insomma, nelle spese sostenute quest’anno non c’è traccia, o quasi, di interventi a supporto delle attività economiche. Eppure i conti chiuderanno in negativo.
Purtroppo la stessa riflessione può essere fatta guardando alla previsione dei conti dell’anno prossimo. Anche in questo caso, il deficit previsto dipenderà principalmente da oneri e misure che sono il frutto di decisioni cantonali e nazionali, ma che nulla, o poco, hanno a che vedere con l’aiuto diretto all’economia e alla salvaguardia dei posti di lavoro di questo Cantone.
È questa la vera ragione per cui i deficit di quest’anno e dell’anno prossimo sono un problema di cui è necessario occuparsi. Se i deficit vengono fatti per rilanciare l’economia e il circuito virtuoso del mondo del lavoro, nessun problema, anzi. È proprio questo lo strumento della spesa pubblica e la medicina da somministrare all’economia. Il problema sorge quando le spese “ordinarie” non sono più coperte dalle entrate. Dimentichiamoci, tuttavia, in questo momento di crisi economica di chiedere aumenti delle imposte. Quando tutto sarà passato potremo anche pensare a contributi eccezionali per dare una svolta a questo Cantone. Non ora. Non commettiamo l’errore di aggravare ulteriormente la situazione economica delle persone e delle aziende. La tempesta si trasformerebbe in un uragano.
E concludo con un auspicio per gli addetti ai lavori: non nascondiamoci dietro alla crisi del Covid-19, le finanze pubbliche necessiteranno presto di essere curate e analizzate voce per voce, una per una. Senza dimenticare che siamo una Confederazione e che anche altri dovrebbero prenderci maggiormente in considerazione.
Tratto da “Corriere del Ticino” – 14.12.2020

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Previsioni economiche (e oroscopo)

Previsioni economiche? Galbraith diceva che “l’unica funzione delle previsioni economiche è di far sembrare rispettabile l’astrologia”. Magari avremo occasione di parlare in un prossimo articolo di questo grande economista controcorrente e arguto, ma ora dedichiamoci all’oroscopo, ops, alle previsioni economiche appena presentate.
Il KOF, che è il centro di ricerca del politecnico federale di Zurigo, prevede che il Prodotto interno lordo (PIL) di quest’anno si ridurrà del 3.5%. Le cose non sono andate proprio bene: per trovare un anno così catastrofico dobbiamo tornare indietro al 1975, in piena crisi petrolifera.
Anche se i danni sono stati minori rispetto alle altre Nazioni, non possiamo essere troppo felici: oggi le nostre economie sono strettamente legate e il nostro benessere dipende molto dalle esportazioni che facciamo negli altri Paesi. Quindi se soffrono loro, soffriamo anche noi: ecco perché si stima che quest’anno le esportazioni si ridurranno del 5.6% e le importazioni ben del 9.3%. Attenzione a non commettere un errore comune ossia di pensare che se i beni e servizi che comperiamo dagli altri Paesi diminuiscono, il valore delle nostre esportazioni nette, che è la differenza tra quello che vendiamo e quello che comperiamo, aumenta. Non per forza. La Svizzera non ha grandi quantità di materie prime per cui per produrre e vendere beni all’estero deve prima comperarle insieme ai semilavorati e poi vendere i prodotti finali. Insomma, quando importiamo meno, produciamo meno e vendiamo meno.
Anche i consumi delle famiglie svizzere si sono ridotti di quasi il 5%. Le chiusure di molte attività, i confinamenti e l’incertezza sul futuro hanno pesato molto sulla domanda di beni e servizi.
Di riflesso, pure gli investimenti registreranno un calo importante. Quasi il 4% in meno. Se le costruzioni sembrano tenere abbastanza, più preoccupante quanto accade ai macchinari e alle attrezzature che si riducono di oltre il 5%. Questo indicatore è molto importante: è un po’ come se fosse il termometro dell’economia. Se gli imprenditori ritengono che le cose andranno bene e dovranno produrre molti beni, compreranno nuovi macchinari e attrezzature e questi investimenti aumenteranno; al contrario, se ritengono che le vendite diminuiranno, non sostituiranno neppure i macchinari che si rompono e gli investimenti scenderanno.
Ed ecco che questi fattori porteranno il Prodotto interno lordo del 2020 a ridursi del 3.5%, nonostante lo Stato aumenti le sue spese del 2%.
Se i prezzi non mostreranno particolari spostamenti, lo stesso non può dirsi per gli effetti sul mercato del lavoro. Già quest’anno si stima che il tasso di disoccupazione aumenterà al 3.1% per arrivare al 3.3% l’anno prossimo (era di 1 punto percentuale minore nel 2019). Questo avverrà sempre che gli effetti della pandemia saranno contenuti e limitati e quindi sempre che si avverino le previsioni di crescita stimate in un aumento del PIL del 3.2%. Il 2021 quindi sarà caratterizzato per il KOF da un aumento dei consumi privati, un’importante crescita degli investimenti e delle esportazioni.
Ora non ci resta che sperare che anche le congiunzioni astrali siano favorevoli…

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Le tasse sul CO2 servono?

Tutti sono d’accordo che il cambiamento climatico necessita di soluzioni immediate. Ma non tutti sono d’accordo su quali siano queste soluzioni e sulla loro efficacia. Nei giorni scorsi, a ridosso del quinto anniversario dalla sottoscrizione dell’Accordo di Parigi, mi sono dedicata a un’analisi del tema, soprattutto in relazione all’efficacia delle tasse sul CO2. L’Osservatore ha pubblicato una mia riflessione nella sua edizione del 12 dicembre 2020, mentre il portale Ticinotoday ha ospitato una mia considerazione video sul tema. Ve le ripropongo qui sotto ringraziando le testate per le pubblicazioni.

Un “Green Deal” senza la Svizzera
Quando il 12 dicembre 2015, è stato sottoscritto l’Accordo di Parigi, gli obiettivi fissati dai Paesi sembravano molto ambiziosi. È con la nascita dei movimenti per il clima che sono diventati realmente realizzabili. Sono riusciti a portare all’attenzione pubblica un tema che da decenni occupava e preoccupava scienziati e tecnici.
Qualcosa è cambiato anche nell’economia. Da sempre gli economisti spiegano che il prezzo di un bene deve considerare tutti i costi, anche quelli che ricadono sulla società, come per esempio i danni ambientali. Eppure erano poche le imprese che si preoccupavano di queste esternalità negative. Oggi qualcosa è cambiato. I consumatori sono più sensibilizzati e si interessano all’impatto ambientale dei beni acquistati. Come succede (quasi) sempre in economia, la domanda influenza l’offerta. Ecco quindi le aziende rispondere di conseguenza. Obiettivi di produzione a zero emissioni nette, agricoltura rigenerativa, riforestazione, uso di energia da fonti rinnovabili, compensazione delle emissioni di gas a effetto serra; dalle compagnie aeree, ai marchi di moda, dall’high-tech al settore alimentare, non c’è multinazionale che non annunci quotidianamente questi obiettivi. Magari non sono mosse da grandi ideali, ma il risultato non cambia: se vogliono sopravvivere devono anticipare i tempi.
Anche la politica non è stata a guardare. La maggior parte delle Nazioni ha abbandonato le vecchie tasse punitive sul consumo in favore di strumenti normativi. Si sa che, per esempio, il consumo di benzina non solo non si riduce con l’aumento delle tasse, ma colpisce anche le persone più deboli. In aggiunta potrebbe pure avere effetti contrari sulla motivazione delle persone sensibili all’ambiente. La strada scelta oggi è sicuramente più coraggiosa: obbligare con le leggi i produttori ad adeguarsi. Norvegia, Olanda e India avevano già aperto la strada qualche anno fa annunciando entro un decennio il divieto della vendita di auto a benzina o diesel. Ora sempre più Nazioni seguono e di conseguenza le compagnie petrolifere si riconvertono investendo nelle energie rinnovabili.
Ma non è solo il privato a fare queste scelte. Diverse Nazioni hanno lanciato piani di investimenti pubblici sostenibili. L’unione Europea ha previsto l’apertura di un bando di gara, l’European Green Deal, di 1 miliardo di euro per progetti di ricerca e innovazione che affrontino la crisi climatica e proteggano la biodiversità.
Purtroppo in tutto questo la Svizzera è in ritardo: nessuna grande spesa di investimento pubblico, nessuna regolamentazione coraggiosa, ma solo una “vecchia” tassa punitiva sul CO2. Per fortuna che il nostro mercato è troppo piccolo per influenzare la produzione e anche noi godremo dei vantaggi delle scelte politiche fatte dagli altri Stati.
Tratto da L’Osservatore del 12 dicembre 2020

La versione audio: Un “Green Deal” senza la Svizzera
Pubblicato da Ticinotoday il 14.12.2020

Scontro sui cambi tra Stati Uniti e Svizzera

L’economia ha sempre bisogno di situazioni equilibrate. Questo capita anche nel caso della moneta. Una moneta può essere debole o forte. Questa definizione dipende dal valore che la moneta ha in rapporto al cambio con le monete degli altri Paesi. Una moneta forte di solito è considerata anche un bene rifugio affidabile e stabile: questo significa che le persone, le aziende o le altre nazioni per essere sicure di mantenere il valore dei loro possedimenti li convertono in queste monete. Il problema si pone quando la domanda di questa moneta diventa troppo grande e quindi il suo prezzo cresce ancora di più, apprezzando ulteriormente la moneta. È un po’ come quello che succede in un’asta: se tutti vogliono un quadro, il prezzo continua a salire e vincerà chi è disposto a pagarlo di più.
Di solito la forza di una moneta dipende da molti fattori, tra i quali una situazione economica e politica stabile, bassa disoccupazione, inflazione sotto controllo, grande competitività internazionale.
Di primo acchito sembrerebbe che avere una moneta forte sia solo un vantaggio. Ma non è sempre così. Una moneta molto forte può mettere in difficoltà le aziende che vendono i loro prodotti principalmente all’estero.
Per questa ragione le banche centrali cercano di mantenere il valore della propria moneta entro certi limiti e lo fanno con molti strumenti: noi semplifichiamo immaginando che la Banca Nazionale Svizzera (BNS) utilizzi franchi svizzeri per comperare altre monete così da aumentare il loro valore.
Ora, pare che il Dipartimento americano del tesoro abbia messo la Svizzera nei paesi che manipolano i cambi per trarre vantaggio nella politica commerciale. Secondo le regole degli Stati Uniti questo avviene quando un Paese interviene con un ammontare superiore al 2% del suo Prodotto Interno Lordo (PIL), ha un surplus commerciale di più di 20 miliardi di dollari con gli Stati Uniti e un rapporto tra il surplus delle partite correnti e il PIL maggiore al 2%. La Svizzera “viola” tutte queste tre condizioni. Per esempio nei primi 6 mesi dell’anno ha speso circa 90 miliardi di franchi per contrastare l’apprezzamento del franco, l’equivalente di oltre il 12% del nostro prodotto interno lordo.
Per il momento questa decisione non ha conseguenze dirette, ma gli Stati Uniti potrebbero decidere di applicare sanzioni e dazi nei confronti dei prodotti svizzeri. Dal canto suo la Svizzera spiegherà che gli interventi sono stati fatti per garantire la stabilità economica e non per avere vantaggi commerciali, anche perché, vedremo nei prossimi articoli, le bilance dei rapporti con l’estero sono un punto forte dell’economia elvetica.

La versione audio: Scontro sui cambi tra Stati Uniti e Svizzera

La tua casa per un bulbo di tulipano?

Qualche giorno fa il Bitcoin (che ricordiamo è una moneta virtuale creata “a computer”) ha raggiunto il suo valore storico massimo di circa 20’000 dollari. Nulla di straordinario, se non guardiamo alla sua crescita da marzo quando valeva 5’000 dollari. Insomma, un rendimento del 300% in pochi mesi. Per chi ha investito nel momento giusto, decisamente un affare.
Questa criptovaluta è stata creata nel 2009 e da oltre un decennio appassiona gli economisti, ma anche gli investitori e gli ingegneri.
All’inizio si credeva che potesse diventare una moneta, ma di fatto non lo è. La moneta per essere considerata tale deve avere almeno tre caratteristiche: essere accettata generalmente come mezzo di pagamento, essere riconosciuta come unità di conto da uno Stato e rappresentare una riserva di valore, ossia non oscillare troppo e troppo in fretta. Quindi, no il Bitcoin non è una moneta.
Questa criptovaluta ha inoltre un’altra particolarità: tranne in casi speciali, il suo uso è assolutamente anonimo e quindi essa è ritenuta una via per il riciclaggio. Proprio in questi giorni l’Autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari (FINMA) ha deciso che sarà necessario identificarsi per svolgere transazioni a partire da 1’000 franchi.
Detto questo, alcuni cantoni e anche alcuni Comuni in Svizzera, hanno provato a utilizzare i Bitcoin come mezzi di pagamento, ma riscontrando poco interesse nella popolazione.
Ora però gli esperti valutano un’altra possibilità per le criptovalute: diventare piano, piano una forma di investimento come l’oro.
A me però piace ricordare come finì la corsa ai tulipani nella metà del ‘600. I tulipani arrivati dalla Turchia, avevano subito conquistato il cuore degli olandesi. In pochi anni il loro valore raggiunse cifre astronomiche. Un bulbo poteva costare fino a 20 volte il salario di un anno. C’era chi vendeva terreni, case e altri beni per comperare bulbi di tulipano che addirittura dovevano ancora nascere.
I tulipani finirono perfino per essere quotati in Borsa. Ma a un certo punto anche questa bolla scoppiò: un focolaio di peste mandò deserta un’asta di bulbi facendo cambiare improvvisamente l’opinione degli investitori. E quando si tirarono le somme, qualcuno aveva fatto guadagni enormi, ma molti, la maggior parte, avevano perso tutto.
Bizzarro, vero, pensare di vendere la propria casa per dei bulbi di tulipani? Eppure qualche volta azzardiamo investimenti in alcuni prodotti finanziari o in criptovalute che si differenziano di poco dai nostri tulipani…

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Il lavoro ridotto scende e la disoccupazione sale

I numeri confermano le nostre paure. I dati sulla disoccupazione pubblicati dalla Segreteria di Stato dell’economia (SECO) testimoniano il periodo difficile che stiamo vivendo. In Svizzera oltre 153 mila persone sono in cerca di un lavoro. Se la crescita rispetto al mese precedente è abbastanza ridotta, non possiamo dire lo stesso rispetto a un anno fa: oggi contiamo quasi 50 mila persone disoccupate in più, 50 mila persone che hanno perso il loro posto di lavoro. Che siano giovani o ultracinquantenni, la musica non cambia: l’aumento è di oltre il 40%. La disoccupazione tocca maggiormente i settori più colpiti dalla crisi legata al Covid-19 come l’alloggio e la ristorazione, l’industria manifatturiera e le attività di intrattenimento. Purtroppo però vediamo che i licenziamenti iniziano a diffondersi anche negli altri settori, sintomo questo di una economia sofferente.
Ma un altro dato ci deve preoccupare e soprattutto deve mettere in guardia lo Stato: l’orario ridotto. Le aziende possono chiedere per un certo periodo di non far lavorare i propri collaboratori senza però licenziarli. In cambio i collaboratori ricevono l’80% del salario. Nel mese di settembre oltre 200 mila persone che lavoravano in 14 mila aziende erano in orario ridotto, l’equivalente di quasi 12 milioni di ore di lavoro perse. Numeri questi che sembrano non dirci nulla (il grafico sotto qualcosina di più): eppure un anno fa le persone in orario ridotto erano 2 mila (in 111 aziende) e le ore di lavoro perse solo 100 mila. Perché questo dato deve preoccuparci? Perché purtroppo la seconda ondata non è stata ben gestita e nulla ci garantisce che queste persone, una volta esaurito il diritto all’orario ridotto, non saranno licenziate.
E che succede in Ticino? I disoccupati sono oltre 6 mila persone. L’aumento rispetto all’anno scorso è più contenuto di quello nazionale, ma non dobbiamo farci ingannare da queste cifre. Nel nostro Cantone abbiamo delle particolarità che possono posticipare e in parte nascondere il problema della disoccupazione. Le aziende del nostro Cantone sono ricorse maggiormente all’orario ridotto, hanno chiesto in proporzione più prestiti garantiti e hanno valvole di sfogo, come i posti di lavoro per frontalieri e temporanei (che non danno diritto alle indennità di disoccupazione), che non rientrano nelle statistiche.
Quello che dobbiamo augurarci è che l’economia grazie a un intervento dello Stato mirato ed efficace possa superare al meglio questa seconda ondata così da mantenere i posti di lavoro e consentire alle persone di vivere dignitosamente con il proprio salario.

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Acque agitate per l’Unione Europea… e non solo nel Regno Unito

L’Unione Europea sta vivendo delle ore molto agitate, sia sul fronte esterno che su quello interno.
La trattativa con la Gran Bretagna per siglare l’accordo definitivo di separazione potrebbe saltare da un momento all’altro. Dopo essersi messi d’accordo sulla maggior parte de temi, rimane il disaccordo su tre punti: la pesca, gli aiuti di Stato e la risoluzione delle dispute.
Per quello che riguarda la pesca, gli accordi in vigore prevedono il libero accesso alle acque. Negli scorsi anni i pescherecci europei si sono portati via circa il 60% del pesce pescato, lasciando alle aziende britanniche il restante 40%. Ora Johnson, primo ministro inglese, vorrebbe introdurre una quota dell’80% a vantaggio dei suoi pescherecci. La seconda controversia riguarda la possibilità di sostenere liberamente le aziende del proprio paese con gli aiuti statali: anche in questo caso le direttive europee per garantire la concorrenza tra le aziende mettono dei limiti importanti. Infine, l’ultimo punto riguarda l’istituzione che dovrà decidere nel caso in cui ci fosse una violazione dei patti tra le due parti. Evidentemente il Regno Unito non accetta che sia la Corte di giustizia europea ad esprimersi in questi casi. Difficile che le due parti trovino un accordo che consenta entro il 31 dicembre di seguire una via condivisa.
Ma i problemi dell’Unione Europea non finiscono qui: anche tra membri interni c’è maretta. L’Unione Europea vorrebbe mettere a disposizione dei Paesi membri 750 miliardi di euro per sostenerli nella crisi causata dal Covid-19; il programma si chiama Recovery Fund. Per la prima volta nella storia l’UE emetterebbe un debito pubblico comunitario. L’accesso a questi fondi, oltre che da criteri tecnici, è vincolato da una clausola che obbliga i Paesi al rispetto dello Stato di diritto. Ungheria e Polonia si sono opposte subito perché ritengono violata la sovranità nazionale. Nessun problema, direte voi, se non fosse che questo fondo potrà partire solo con il consenso di tutti i Paesi. Pare quindi che la presidenza di turno tedesca abbia dato un ultimatum alle due nazioni “ribelli”: nel caso in cui non sostenessero questo programma, gli altri 25 paesi ne metterebbero in atto un altro, con conseguenze finanziarie pesanti anche per loro.
Nelle prossime 24 ore dovremo conoscere l’esito di questi due tavoli di lavoro.
Certo è che, in questo momento, l’Unione Europea non naviga in acque tranquille.

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Il debito pubblico fa paura?

La crisi sanitaria del COVID-19 sta causando una gravissima crisi economica. Gli Stati limitano i danni aiutando le aziende e le persone. Ma questo ha un costo: deficit e debito pubblico aumenteranno. Dobbiamo avere paura del debito pubblico? Fino a che punto le politiche fiscali e quelle monetarie possono impedire licenziamenti, povertà e aumento delle disuguaglianze? E se è vero che il debito pubblico non dovrà per forza essere pagato, perché ce ne preoccupiamo così tanto? Dieci minuti per avere queste e tante altre risposte.