La disoccupazione cresce: non facciamo gli struzzi!

Nessuno ama parlare di disoccupazione, sottoccupazione e povertà, tanto meno chi governa il Paese.
“Lassù” si preferiscono narrazioni rasserenanti. Si racconta di un Cantone Ticino innovativo e all’avanguardia dove poli di eccellenza nascono come funghi. Una piccola Silicon Valley pronta a partire alla conquista del mondo.
Sfortunatamente, la realtà è ben diversa. Proprio ieri mattina sono arrivati i dati della disoccupazione nel Cantone Ticino calcolata secondo il metodo dell’organizzazione internazionale del lavoro (ILO).
Questa stima poggia su basi statistiche: include le persone che non hanno un lavoro e lo stanno ancora cercando. Differisce dalla disoccupazione “ufficiale” della Segreteria di Stato dell’economia (SECO) che si limita a contare gli iscritti presso gli Uffici Regionali di Collocamento (URC).
Non tutti i disoccupati sono iscritti, come sapete bene.
Le nostre autorità preferiscono la statistica SECO anche perché permette di raccontare una storia tranquillizzante: il canton Ticino avrebbe un tasso di disoccupazione bassissimo, 2.4%: “solo” 4’000 disoccupati.
Eppure, la nostra realtà, quella che vediamo attorno a noi, appare molto diversa: chiunque di noi conosce vicini che non trovano lavoro, hanno figli o figlie che faticano a inserirsi, lavoratori esperti licenziati che non riescono a ricollocarsi. Autorità ed esperti dicono che si tratti di una percezione. Ma non lo è.
I dati ILO confermano che quello che le persone sentono sulla loro pelle corrisponde alla realtà. Queste cifre ci dicono che in Ticino le persone disoccupate in cerca di un lavoro e disposte a lavorare sono oltre 13’200. Il tasso di disoccupazione è al 7.3%, ben tre volte il dato della SECO. Per trovare un numero così alto di persone disoccupate, dobbiamo tornare al periodo Covid. Solo chi è in mala fede può sorprendersene: basterebbe guardare ai dolorosi licenziamenti e ristrutturazioni in atto nelle aziende ticinesi.
Non sono numeri: queste sono persone e intere famiglie in difficoltà la cui situazione non fa altro che aggravarsi di mese in mese con il peso degli aumenti: cassa malati, affitti ed energia, ecc. Queste persone meriterebbero di non essere considerate “una percezione”.
Fino a qualche anno fa si poteva contare sull’appoggio delle generazioni più anziane; ora anche questo inizia a scricchiolare: non riescono ad aiutare se stesse, figuriamoci figli e nipoti. E che dire delle nuove generazioni che seguono con impegno il consiglio dei governi e dei partiti di formarsi il più possibile e che poi, una volta arrivato il diploma, devono emigrare oltre Gottardo?
Per parafrasare lo sfortunato slogan del periodo pandemico: non andrà tutto bene, tutt’altro. Se si finge di non vedere il problema, se lo si ignora o addirittura lo si nega, le cose non potranno che peggiorare. Le soluzioni non sono facili, certo. Ma qua non le si sta nemmeno cercando. E se si insiste a dire che tutto va bene, sicuramente non le troveremo. È un esercizio di negazione di massa la cui responsabilità ricade pienamente su chi dovrebbe avere in mano le redini del cantone e sceglie, invece, di tenere la testa ostinatamente nascosta sotto la sabbia.

Ascolta

Finanziamento dei sistemi previdenziali: dalle urne un invito a trovare nuovi modelli

Ancora una volta la maggioranza dei cittadini ha detto no alla riforma del II pilastro. Lo aveva già fatto nel 2010 e nel 2017.
Per i contrari non è stato difficile far capire ai cittadini che questa riforma avrebbe comportato una riduzione del loro benessere in relazione ai contributi versati. Eppure, non sarebbe stata la prima volta che il popolo svizzero, per garantire stabilità al sistema, votava “contro i suoi interessi di breve periodo”. Pensiamo al rifiuto delle sei settimane di vacanze, agli aumenti dell’IVA o ancora all’innalzamento dell’età di pensionamento delle donne. E allora perché questa volta il popolo svizzero ha deciso di essere meno “svizzero”?
Nei prossimi mesi gli analisti diranno quali sono state le ragioni che hanno spinto i cittadini a votare no, ma una di queste ci sentiamo di anticiparla con una certa sicurezza. A differenza di buona parte dei media mainstream e degli analisti sorpresi dal voto, molti di noi hanno da subito ritenuto che l’errore commesso nel calcolo del finanziamento dell’AVS e dichiarato nel mese di agosto con modalità a dir poco rocambolesche, avrebbe giocato un ruolo determinante. In un sistema come quello svizzero, fortemente democratico, dove i cittadini sono sovente chiamati alle urne, la certezza dei dati e dei fatti deve essere sempre garantita. I cittadini sono liberi di votare anche tirando la monetina, ma quando si tratta di cifre e quindi di qualcosa che dovrebbe essere poco opinabile, deve esserci la certezza della solidità e della fiducia nelle nostre istituzioni. Questo è venuto a mancare.
Probabilmente il Consiglio Federale avrebbe dovuto rimandare la votazione attendendo dati “certi” sull’evoluzione dei conti delle assicurazioni sociali così da riguadagnare la fiducia dei cittadini. Ma così non è stato fatto e si è andati incontro a un esito abbastanza scontato.
E ora, come risolviamo i problemi dei nostri sistemi previdenziali? Con una stagione che si preannuncia di bassi tassi di interesse la situazione potrebbe ulteriormente aggravarsi. Per questo è necessario cambiare completamente paradigma e anziché proporre cerotti che non vanno a curare il sistema bisogna creare nuovi modelli assicurativi e previdenziali pensati per la società odierna. L’ennesimo aumento dei premi cassa malati mostra tutti i limiti degli strumenti del nostro stato sociale. Se vogliamo veramente preservarlo, è ora di avere lo stesso coraggio che hanno avuto i nostri predecessori nell’introdurre l’AVS, il II pilastro e la cassa malati obbligatoria. Strumenti ottimi, ma che purtroppo non risultano più utilizzabili in una società in cui nascono meno bambini, ci si forma di più e si vive più a lungo. Ci vuole coraggio a rimettere tutto in discussione e proporre modelli nuovi, ma questo è il momento giusto.

Ascolta

Pubblicato da L’Osservatore, 28.09.2024

Previsioni economiche Svizzera: bene, ma non benissimo…

Mentre la Federal Reserve (Fed) decideva di ridurre i tassi di interesse di 50 punti base, portandoli in un intervallo tra il 4.75 e il 5%, in Svizzera venivano pubblicati dei dati non altrettanto rassicuranti.
Nel mese di agosto, le esportazioni e le importazioni di merci in termini reali sono scese rispetto al mese precedente che già registrava una riduzione di entrambe le voci. Per quanto riguarda le vendite all’estero, i settori principalmente toccati sono stati quello dei prodotti chimici e farmaceutici, quello dei metalli come pure i macchinari di precisione. Sul fronte delle importazioni si segnalano le riduzioni importanti di prodotti energetici, di strumenti di precisione e nel settore dell’elettronica. Al contrario, in questo caso si è registrato un aumento dei prodotti chimici e farmaceutici. Quest’ultimo andamento potremmo leggerlo con un po’ di ottimismo pensando che parte di queste importazioni sarà destinata alla produzione dei prossimi mesi e quindi a una possibile crescita del settore chimico farmaceutico.
Nonostante questi dati, le previsioni per la fine dell’anno delle esportazioni restano positive. La Segreteria di Stato dell’economia (SECO) ha stimato per il 2024 una crescita dei beni del 5.1% e dei servizi del 2.3%. L’andamento dei consumi privati rimane positivo (+1.5%) esattamente in linea con quello dei consumi dell’amministrazioni pubbliche. Anche il settore delle costruzioni, che l’anno scorso aveva segnato una riduzione del -2.7%, sembrerebbe confermare il suo momento positivo (+0.5%). Ciò che preoccupa un po’ gli economisti sono gli investimenti in macchinari, la cui previsione si colloca al -2%. Questo, potrebbe significare che gli imprenditori pensano che la domanda non andrà troppo bene e che quindi non sarà necessario aumentare la produzione e di conseguenza gli investimenti. Ma noi sappiamo che le cose possono cambiare e quindi speriamo in bene. In totale, la previsione dell’aumento del prodotto interno lordo (PIL) sarà per il 2024 dell’1.2%.
Questa crescita, seppur positiva, rimane una crescita abbastanza contenuta e, in effetti, il tasso di disoccupazione medio per quest’anno dovrebbe salire dal 2% al 2.4%. Una buona notizia però c’è: l’indice dei prezzi del consumo, ossia l’inflazione, dovrebbe finalmente tornare a livelli stabili. Il tasso previsto per quest’anno sarà dell’1.2%.
Notizie ancora più buone riguardano l’anno prossimo, anno in cui l’aumento dei prezzi dovrebbe limitarsi allo 0.7%. Questo, insieme all’andamento positivo dei consumi privati, della spesa dello Stato, degli investimenti in costruzioni e della ripresa di quelli in beni di equipaggiamento, come pure della crescita delle esportazioni, dovrebbero portare il prodotto interno lordo a crescere nel 2025 dell’1.6%.
Anche per l’anno prossimo, quindi non sarà prevista una crescita esorbitante, ma probabilmente dobbiamo anche abituarci che è finita l’epoca di tassi di crescita superiori al 2%. Questo, non significa per forza che le cose andranno male. Se questo tasso sarà sufficiente a garantire di compensare l’aumento della popolazione e l’impatto del progresso tecnologico, le persone potranno andare avanti ad avere un lavoro e di conseguenza un reddito. Per cui ancora una volta, leggiamo la realtà oltre i dati.

Ascolta

La Banca Centrale Europea abbassa i tassi

“Tanto tuonò che … piovve” La Banca centrale europea (BCE) ha finalmente deciso di abbassare i tassi di interesse di riferimento di 0.25 punti percentuale. Ad oggi i tassi oscillano tra il 3.75% e il 4.5%. La notizia era talmente attesa che i mercati di fatto non hanno avuto nessuna reazione. Ancora una volta vediamo quanto siano importanti le aspettative in economia. Se l’annuncio fosse arrivato in maniera inattesa o se al contrario la Banca centrale europea non avesse abbassato i tassi di interesse, il mercato avrebbe avuto reazioni molto diverse. Invece, in questo caso la notizia era stata stra-annunciata. Non siamo in grado di dirlo con certezza, ma è molto probabile che questi mesi di continue anticipazioni e conferme che si sarebbe andati in questa direzione, siano proprio serviti a fare in modo che le reazioni fossero piuttosto contenute e controllate.

Questo in effetti accade quando le strategie di politica economica delle banche centrali sono ritenute valide e il comportamento preannunciato attendibile. In questo caso quindi gli agenti si comportano di conseguenza fidandosi delle istituzioni monetarie.

Così è stato anche nel caso del tasso di interesse di riferimento in Europa, l’Euribor a un mese. In concreto, questo tasso che è quello utilizzato come riferimento per i prestiti a tasso variabile, è passato dal 3.85% del 6 maggio al 3.68% del 5 giugno. La comunicazione della BCE è avvenuta il giorno dopo. In questo caso il mercato ha di fatto modificato il suo andamento in funzione di quello che sarebbe successo in seguito.

Sono celebri i casi in economia in cui si cerca attraverso le aspettative di modificare il comportamento degli agenti economici. Pensiamo al 6 settembre 2011 quando la Banca nazionale svizzera (BNS) in maniera del tutto inaspettata dichiarava che avrebbe mantenuto una soglia minima del tasso di cambio di 1.20 franchi per un euro. In quel momento la speculazione era molto grande e con questa comunicazione la BNS sperava di spingere gli investitori a rallentare la loro rincorsa al franco svizzero. A onor del vero, in questo caso l’effetto sperato fu piuttosto contenuto, non tanto per mancanza di credibilità dell’operato della Banca Nazionale, quanto piuttosto perché le forze in campo (quantità di moneta in euro e quantità di moneta in franchi svizzeri) erano molto spropositate. Ma questo non significa che le dichiarazioni di politica economica, non abbiano influenzato il comportamento degli agenti, anzi.

In conclusione, le decisioni della BCE e di altre istituzioni monetarie mostrano chiaramente quanto sia cruciale la gestione delle aspettative economiche. La fiducia nelle strategie annunciate e la loro credibilità giocano un ruolo determinante nel modo in cui i mercati reagiscono. Questo dimostra l’importanza di una comunicazione chiara e anticipata per garantire stabilità e prevedibilità nei mercati finanziari.

Disoccupati? Sì, no, forse…

Di nuovo i dati sulla disoccupazione litigano. Pochi giorni fa è stato pubblicato il tasso di disoccupazione calcolato secondo il metodo dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) e ancora di nuovo questo indicatore “fa a pugni” con quello pubblicato mensilmente dalla Segreteria di Stato dell’economia (SECO). E questo non rappresenta un problema per gli analisti economici, quanto per le persone in cerca di impiego.

Lo sappiamo: il dato calcolato dalla SECO conta esclusivamente le persone iscritte presso gli uffici regionali di collocamento e le rapporta al numero di persone attive. In questo caso quindi, non c’è nessuna stima e nessun calcolo matematico che vada oltre alla somma degli iscritti. L’indicatore è “facile” e viene pubblicato ogni mese.

Al contrario, il tasso di disoccupazione calcolato secondo il metodo dell’ILO viene stimato a seguito di sondaggi telefonici; i risultati sono pubblicati ogni tre mesi.

In questo secondo caso il tasso di disoccupazione in Svizzera è stato stimato al 4.3%, in aumento rispetto al trimestre precedente di 0.4 punti percentuali e di 0.6 punti percentuali rispetto al primo trimestre dell’anno scorso. Constatiamo che a livello nazionale c’è un aumento delle persone in cerca di lavoro. I dati calcolati mediamente per lo stesso periodo secondo la Segreteria di Stato dell’economia mostravano invece un tasso di disoccupazione “solo” del 2.4%. Quindi il tasso di disoccupazione ILO risulta più alto di 1.8 volte. A questo punto starete pensando che “sì, c’è proprio una bella differenza tra questi due dati!” Eppure in Ticino la situazione è ancora peggiore.

Il tasso di disoccupazione calcolato dalla Segreteria di Stato per i primi tre mesi dell’anno era circa del 2.9%, ossia conteggiava circa 4’800 persone. Il tasso calcolato secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro invece è di ben il 7.2%, in aumento rispetto al trimestre precedente di 1 punto percentuale e di 0.6 punti percentuali rispetto al primo trimestre dell’anno scorso. Il tasso ILO è quindi 2,5 volte il tasso della SECO. In termini concreti parliamo di più di 12’700 persone alla ricerca di un posto di lavoro; di queste la maggioranza sparisce dal “radar” della SECO.

Ma perché nel caso del Canton Ticino questo dato diverge così tanto? Evidentemente c’è uno scollamento tra le persone che cercano lavoro e quelle che sono iscritte presso gli uffici regionali di collocamento. Vuoi perché non hanno maturato il diritto alle indennità, vuoi perché lo hanno esaurito o ancora perché sono scoraggiati, il fatto è che la disoccupazione in Ticino è un fenomeno più grave rispetto a quanto rilevato dalla Segreteria di Stato.

Conoscere questa differenza nei dati è di fondamentale importanza per poter mettere in atto politiche economiche efficaci e per poter dare risposta a tutte le persone che cercano un lavoro e che non lo trovano pur non essendo iscritte negli “albi ufficiali”.

Ancora una volta il mercato del lavoro in Ticino mostra la sua sofferenza: a noi individuarla e soprattutto cercare soluzioni per lenirla.

Ascolta

L’importante differenza fra ricchezza e benessere

La ricchezza degli svizzeri è aumentata. O almeno è quello che sembrerebbe da una prima lettura dei dati appena pubblicati dalla Banca Nazionale svizzera relativi al 2023. Le attività finanziarie delle economie domestiche valevano ben 3’014 miliardi di franchi, ai quali dobbiamo aggiungere 2’659 miliardi di franchi del valore di mercato degli immobili. Rispetto all’anno scorso l’aumento è stato importante e rispettivamente del 2.3% e del 3.6%. Ma allora, perché non ci sentiamo tutti più benestanti? Perché ci sembra di fare sempre fatica ad arrivare alla fine del mese?
Innanzitutto dobbiamo differenziare il concetto del reddito da quello della ricchezza. Il reddito è ciò che effettivamente guadagniamo, quello che possiamo spendere immediatamente; per semplificare pensiamo allo stipendio o nel caso degli anziani alla rendita AVS. La ricchezza, invece, rappresenta ciò che abbiamo messo da parte e che magari abbiamo investito in attività che non possono essere per forza utilizzate subito. Pensiamo all’acquisto di obbligazioni della Confederazione o magari a una casa.
È per questo che molto probabilmente la maggioranza di noi non si è assolutamente accorta di essere diventata più ricca. In effetti, in alcuni casi si tratta addirittura di un arricchimento teorico. Pensiamo all’incremento del valore della nostra casa. Sulla carta siamo più ricchi perché i prezzi sul mercato sono aumentati, ma nella realtà a meno che non la vendiamo noi non guadagniamo niente. Anzi, paradossalmente potremmo trovarci a dover pagare più imposte sulla sostanza. O ancora, il valore delle prestazioni assicurative e di quelle pensionistiche rappresenta gli accantonamenti fatti per coprire le future richieste di risarcimento da parte degli assicurati, ma non per forza ci sarà un trasferimento uno a uno.
Ma c’è una seconda ragione, forse ancora più importante. Questo dato indica il patrimonio aggregato di tutte le persone residenti in Svizzera, mentre non dice nulla sulla sua distribuzione. Per cui troveremo nello stesso raggruppamento persone che possiedono ville enormi, pacchetti azionari e migliaia di obbligazioni di Stato, e altre che invece non hanno nulla. Per valutare la distribuzione della ricchezza dobbiamo utilizzare l’indice di Gini. Ma anche questo dato non ci dice ancora tutto. Per capire bene il benessere delle persone dovremmo valutare come è distribuita la ricchezza tra le classi più benestanti, ma soprattutto mettere questi dati in relazione al sistema fiscale (tasse di successione, tasse sul patrimonio,…) e ancora di più in relazione al sistema di sicurezza sociale. Se uno Stato offre ai suoi cittadini servizi di ottima qualità gratuiti e sistemi previdenziali sicuri, è davvero così importante risparmiare e accumulare patrimonio?

Ascolta

Pubblicato da L’Osservatore – 4.05.2024

La crisi mondiale si fa sentire anche in Svizzera

I dati appena pubblicati sul commercio estero della Svizzera riferiscono di un primo trimestre di quest’anno non troppo entusiasmante. Le esportazioni hanno superato di poco i 64 miliardi di franchi mentre le importazioni si aggirano attorno ai 55,5 miliardi. Rispetto al trimestre precedente entrambi i flussi nominali, ossia i valori in franchi senza considerare l’effetto dell’inflazione, mostrano una riduzione, rispettivamente del -0.8% e del -1.9%. La situazione migliora un po’ se si va a guardare il dato in termini reali, quindi tenendo conto dell’effetto dei prezzi: in questo caso le esportazioni segnano + 0.6% e le importazioni una riduzione di “solo” -0.2%. La differenza tra esportazioni e importazioni, quindi il saldo della bilancia commerciale, chiude con una eccedenza di 8,6 miliardi di franchi.
Attenzione però, questo dato potrebbe indurci in errore. In effetti dobbiamo sempre ricordare che la Svizzera è un paese esportatore netto nonostante tre caratteristiche particolari. La prima è che la nostra nazione è piccola e questo significa che ha poca manodopera e anche poco territorio a disposizione per produrre. Nonostante ciò riusciamo a creare di più di quello che consumiamo e quindi a vendere all’estero. La seconda caratteristica è che la nostra nazione non dispone di una storia di industria pesante. Detto altrimenti non abbiamo un’industria automobilistica storica come la Germania e neppure cantieri navali come l’Italia. Infine, la terza caratteristica è che a differenza di altri paesi noi non abbiamo grandi risorse di materie prime. Questo implica che per poter produrre e vendere all’estero abbiamo bisogno di importare materie prime e prodotti semilavorati a cui aggiungeremo valore aggiunto con la nostra produzione. È proprio per questa ragione che quando le importazioni si riducono dobbiamo essere piuttosto cauti perché questo potrebbe significare che le nostre aziende esportatrici stanno vivendo un calo negli ordini e per questa ragione non comprano dall’estero. Ancora una volta comprendiamo quanto sia importante analizzare i dati economici aldilà dei semplici numeri.
In generale vediamo che la maggioranza dei settori economici ha visto le sue esportazioni ridursi. In particolare hanno sofferto il settore legato alla gioielleria, l’orologeria e gli strumenti di precisione. Anche il settore dei prodotti chimici e farmaceutici, punta di diamante delle nostre esportazioni, è rimasto pressoché stabile. Per quanto riguarda i mercati segnaliamo un certo rallentamento nelle vendite verso l’Asia (in particolare Singapore), un leggero aumento verso l’America del Nord e una certa stabilità verso l’Unione Europea. In questo caso, vediamo che purtroppo la maggioranza dei paesi (inclusi i nostri principali partner commerciali, Germania e Italia) mostra una riduzione degli acquisti, compensati in grande parte dall’aumento avvenuto con la Slovenia.
Naturalmente sappiamo che queste dinamiche dipendono fortemente dalla situazione internazionale, situazione internazionale che con l’allargarsi del conflitto Israelo-Palestinese non potrà far altro che peggiorare.

Ascolta

Salari in Ticino: tutti giù per terra

In Ticino, per molti il sogno di una vita migliore si sta dissolvendo come neve al sole. Lo suggeriscono i dati sui salari pubblicati dall’ufficio federale di statistica. Queste cifre confermano una tendenza che denunciamo da tempo. La teoria economica, con le sue promesse di prosperità legata alla crescita, sembra beffarsi di noi, lasciandoci a mani vuote. Un lieve aumento dei salari rispetto al 2020? Una misera consolazione, quando si scopre che i redditi più alti hanno subito tagli drastici. Un vero e proprio schiaffo per chi ha sempre dato il massimo, tra questi i residenti svizzeri che sono i più colpiti da questa diminuzione.

Non siamo di fronte a una semplice battuta d’arresto, ma a quella che potrebbe diventare, se non si fa nulla, una vera e propria emergenza sociale: nemmeno i salari dei lavoratori più qualificati, come chi ha una formazione superiore, sono al sicuro. I settori che annunciano aumenti sono pochissimi, ad es. la ristorazione, la maggior parte invece lamenta diminuzioni importanti dei salari. In generale, vediamo i salari scendere nelle attività manifatturiere, nei servizi finanziari e assicurativi, nelle attività legali e in quelle legate alla contabilità, nelle professioni tecniche e scientifiche e in quelle della sanità e socialità.

E poi c’è la favola della riduzione del divario salariale tra uomini e donne. La beffa oltre al danno: in realtà, si tratta di un’uguaglianza al ribasso, dove tutti perdono, senza eccezioni. Il differenziale si rimpicciolisce non tanto perché le donne guadagnano di più, quanto perché gli uomini guadagnano di meno. Questa parità al ribasso non è quella che vogliamo.

Forse adesso che la crisi tocca anche i lavoratori più “fortunati” che dovrebbero essere i meglio rappresentati politicamente, i partiti storici finalmente si decideranno a fare qualcosa in difesa dei nostri salari.

Ma data la paralisi politica degli ultimi anni, ci vorrebbe un miracolo. Si potrebbe cominciare smettendo di negare la gravità della situazione con narrazioni di comodo. Il Ticino ha un problema di salari che adesso tocca anche i lavoratori meglio qualificati. La classe politica deve smetterla di guardare dall’altra parte. I nostri concittadini meritano di meglio.

Ascolta

Previsioni a tinte fosche per l’economia elvetica

L’inflazione rallenta. I prezzi al consumo sia negli Stati Uniti che nelle principali nazioni europee stanno riducendo fortemente la loro corsa. Lo stesso accade anche per i prezzi alla produzione, che lo ricordiamo sono i prezzi dei beni nel momento in cui i prodotti escono dalla “fabbrica”.

Nel dettaglio possiamo segnalare la riduzione dei prezzi al consumo su base mensile nel mese di novembre in Spagna, Francia, Italia, Germania e nella Eurozona in generale. Anche gli aumenti su base annuale sono stati piuttosto contenuti e in alcuni casi persino inferiori ai due punti percentuali ritenuti quale soglia per parlare di stabilità dei prezzi. È questo il caso per esempio dell’Italia. Giova ricordare, tuttavia, che parte di questo effetto positivo è da ricondurre al fatto che proprio nei mesi di ottobre-dicembre dell’anno scorso avevamo vissuto l’impennata dei costi dei prezzi energetici (che nel frattempo fortunatamente si sono ridotti). Per questa ragione dobbiamo attendere ancora qualche mese prima di poter cantare vittoria nella lotta all’inflazione.

Anche il dato svizzero ci ha sorpresi positivamente: l’inflazione nel mese di novembre ha registrato un aumento annuo di “solo” l’1.4%; rispetto al mese precedente addirittura si registra una riduzione dello 0.2%. Ma le notizie buone finiscono qui. I dati appena pubblicati sull’andamento del terzo trimestre (luglio-settembre) del prodotto interno lordo (PIL) mostrano una crescita piuttosto contenuta (+0.3%), dopo che il trimestre precedente si era chiuso addirittura con una crescita negativa del -0.1%. Le voci che più preoccupano sono quelle che influenzeranno anche l’andamento dei prossimi mesi. In particolare, i consumi delle famiglie, gli investimenti in beni strumentali delle aziende oltre alle previsioni non troppo favorevoli delle esportazioni. È evidente che la situazione Svizzera è fortemente influenzata da quella internazionale. Il PIL dei nostri principali partner ha mostrato o una minima crescita, come nel caso dell’Italia (+0.1%) o addirittura una riduzione come nel caso della Francia e della Germania (-0.1%).

Non siamo ancora in grado di dire se questo rallentamento economico è la conseguenza delle politiche monetarie restrittive attuate per contrastare l’inflazione. Quello che è certo è che i conflitti ancora aperti in Ucraina e in Medio Oriente, uniti alle incertezze geopolitiche ed economiche, non sono di buon auspicio per il prossimo futuro. Non a caso le previsioni che gli istituti di ricerca stanno elaborando in queste settimane confermano per l’anno prossimo un tasso di crescita del PIL svizzero piuttosto contenuto che dovrebbe, purtroppo, causare anche degli effetti negativi, seppur fortunatamente contenuti, sul mercato del lavoro.

Speriamo che il Natale ci porti in dono prospettive migliori.

Articolo pubblicato da L’Osservatore, 9.12.2023

Ascolta

La crisi mondiale si manifesta nelle nostre esportazioni

Come abbiamo più volte anticipato il rallentamento economico mondiale avrebbe presto tardi mostrato i suoi effetti anche sulla nostra economia. E così è stato nel mese di ottobre. Il commercio estero svizzero ha fortemente rallentato la sua corsa rispetto ai precedenti due mesi dove aveva segnato dati record. Leggendo un po’ superficialmente la notizia che dice che la bilancia commerciale chiude con una eccedenza di 3.4 miliardi di franchi saremmo tentati di pensare che le cose vanno bene. Ma purtroppo non è così. Ricordiamo che la bilancia commerciale rappresenta la differenza tra le esportazioni e le importazioni di una nazione. Nel nostro caso rimane ancora positiva perché purtroppo entrambe le componenti hanno mostrato una riduzione rispetto ai mesi precedenti.

Prima di addentrarci nell’analisi dei settori che più hanno sofferto in questo ultimo mese e di quelli che invece hanno gioito di un aumento delle vendite all’estero, ricordiamo che la Svizzera è un paese esportatore Netto, quindi vende all’estero non solo più di quello che compra dall’estero, ma cosa ancora più importante produce di più di quello che consuma. Ciò implica che grazie a questa produzione aggiuntiva riusciamo a tenere migliaia di posti di lavoro in Svizzera che altrimenti andrebbero all’estero. Stimiamo in maniera un po’ approssimativa, basandoci sul fatto che ben il 10-12% del nostro prodotto interno lordo (PIL) dipende dalle esportazioni nette, di riuscire a garantire in Svizzera 400-450.000 posti di lavoro.

È proprio questa la ragione che spesso conduce i nostri partner internazionali a guardarci con un certo dispetto.

Ma torniamo alle nostre esportazioni. Sappiamo che il settore principale  è quello della chimica e della farmaceutica e non a caso è proprio questo che ha sofferto maggiormente passando da circa 13.5 miliardi di franchi di esportazioni nel mese di settembre agli 11 miliardi del mese di ottobre. In termini nominali si tratta di una riduzione di quasi l’11% che scende al 7% quando togliamo l’effetto dei prezzi (quindi quando guardiamo al dato reale). Curiosando tra le sue componenti che vanno dai prodotti farmaceutici a quelli immunologici, dai medicamenti ai principi attivi vediamo che nessuna componente ha mostrato una crescita.

Ma anche negli altri settori le cose non sono andate bene, anche se hanno tenuto. Tra questi segnaliamo i macchinari e l’elettronica, l’orologeria e anche gli strumenti di precisione (che in questo caso hanno mostrato un tasso di crescita di oltre il 4%).

Ma perché le esportazioni rallentano? Come più volte detto la Svizzera è un’economia globale e quindi è fortemente legata a quanto succede nel resto del mondo. E anche in questo caso la realtà ce lo dimostra. Le esportazioni svizzere sono diminuite in tutti e tre i principali mercati. Verso l’America del Nord si registra il  -14.1%, verso l’Asia il -6.9% verso l’Europa il -5.3%. E proprio all’interno dell’Europa segnaliamo nuovamente la grande difficoltà che sta affrontando la Germania, nostro principale partner commerciale. Proprio oggi è stata confermata la crescita negativa dello -0.1% del prodotto interno lordo (PIL) tedesco del terzo trimestre. Non parliamo ancora di recessione, ma i dati conseguiti nei primi nove mesi dell’anno (primo trimestre 0.0%, secondo trimestre +0.1% e ora -0.1%) non fanno altro che confermare le difficoltà incontrate dalla ex locomotiva d’Europa. Noi, da parte nostra possiamo solo augurarci che torni presto a trainare la crescita europea.

Ascolta