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L’inflazione corre o sta rallentando?

L’inflazione continua a correre. Ma non per tutti alla stessa velocità. I dati appena pubblicati dalla Germania indicano che nel mese di ottobre i prezzi sono aumentati raggiungendo il livello storico del 10.4%; mai così alto dal 1951. Il mese scorso gli aumenti erano stati, sempre su base annuale, del 10%. E le cose non vanno bene nemmeno nel resto dell’Unione Europea, dove ormai il tasso di inflazione ha raggiunto mediamente quasi il 12%. Purtroppo quello che si registra nei paesi è oramai un aumento generalizzato e non più solo limitato al settore energetico. Anche fare la spesa, comprare frutta, verdura e pasta, sembra essere diventata un’attività di lusso. Questo può diventare un grandissimo problema per i cittadini che faticano ad arrivare alla fine del mese, e nel tempo stesso un grave problema per l’economia. La pura frena i consumi che frenano la produzione. Il vento di recessione soffia forte sull’Europa. A conferma i dati appena pubblicati della Gran Bretagna che mostrano un tasso di decrescita del prodotto interno lordo nell’ultimo trimestre -0.2%.

E le prospettive rimangono preoccupanti anche per le altre nazioni. Non a caso tutte le organizzazioni e le istituzioni internazionali vedono continuamente al ribasso le previsioni di crescita. Ma la crescita non è un concetto astratto o una fissazione degli economisti. La crescita, dettata da un aumento della domanda, al momento è l’unico fattore in grado di garantire occupazione e quindi posti di lavoro.

Ma il vento non sembra soffiare dappertutto alla stessa maniera. I dati appena pubblicati negli stati Uniti parlano di un aumento dei prezzi del 7.7%. Certo parliamo sempre di un rialzo importante, ma che mostra un calo rispetto al mese precedente quando l’inflazione segnava +8%.

È ancora presto per attribuire questo rallentamento alle politiche monetarie fortemente restrittive volute dalla Federal Reserve (Banca centrale degli Stati Uniti) che prima di tutte le altre banche centrali ha deciso importanti aumenti dei tassi di interesse per contrastare il fenomeno dell’inflazione. Certo è che al momento i dati sembrano dare ragione a quelle nazioni che per prime hanno avuto il coraggio di affrontare questa crisi. Esattamente come la Svizzera che nell’ultimo mese ha segnato una stabilità dei prezzi con un’inflazione ferma al 3%.

Speriamo che la corsa stia effettivamente arrivando al termine.

Cuba: la fame è la più grande “rivoluzionaria”

La fame è la più grande “rivoluzionaria”. Ancora una volta, purtroppo, ce ne stiamo accorgendo. Dalle informazioni che trapelano migliaia di cubani sono scesi in piazza in tutta l’isola per protestare contro il governo.

Perseguire il profitto e il benessere materiale ad ogni costo e a scapito di tutto, non è certamente sano e non è un modello di sviluppo da seguire per l’economia. Ma anche l’assenza di sviluppo economico è altrettanto pericolosa. Quando non abbiamo le risorse per mangiare, per vestirci e per curarci non abbiamo più nulla da perdere e la rabbia esplode. Questa parrebbe la situazione a Cuba.

La crisi del Coronavirus ha messo in ginocchio il Paese. Il turismo tra le fonti primarie di benessere e che garantiva mezzo milione di posti di lavoro è stata la prima vittima. Ma anche il percorso di sostegno alla piccola imprenditoria locale e le misure messe in atto per attirare l’afflusso di capitali stranieri hanno subito una battuta d’arresto. Certo, il settore dell’estrazione di idrocarburi mostra ottime prospettive, ma la dipendenza dalle importazioni petrolifere del Venezuela rimane ancora fortissima. E la situazione di crisi in cui versa anche questo Paese non è d’aiuto.

Come l’aiuto probabilmente non arriverà dagli Stati Uniti che sono accusati dal nuovo presidente cubano Miguel Diaz-Canel di essere i fomentatori delle manifestazioni di piazza. Si sa, i rapporti tra le due nazioni non sono di certo idilliaci. Dal 1960 circa dopo la rivoluzione castrista gli americani hanno fatto di tutto per contrastarli ed emarginarli. Cuba divenne indipendente, si avvicinò all’ex Unione Sovietica e scelse di essere una società comunista. Questo in piena guerra fredda. Le tensioni furono lunghe e continuano ancora oggi. Alle nazionalizzazioni di imprese americane ed espropri, gli Stati Uniti risposero con un embargo commerciale che vietava qualunque scambio di beni e servizi tra le due nazioni. Con le conseguenze che ben potete immaginare.

La fame di Cuba oggi fa tremare non solo un regime, ma anche un sistema alternativo, un ideale. In questi anni abbiamo, purtroppo, visto tante rivolte del “pane”. E tutte mosse da popoli disoccupati e affamati che privati di tutto hanno lottato per cambiare il loro destino e quello dei loro figli. Un destino di miseria e sofferenza che trova speranza nel far cadere governi spesso autoritari, corrotti e totalitari.

Nell’ultimo decennio ricordiamo la primavera araba che ha portato i capi di Stato in Tunisia, Egitto, Libia e Yemen, nel miglior caso a fuggire, nel peggiore, come toccò a Gheddafi, alla morte.

Ma la fame è stata la protagonista di tante proteste di piazza anche negli ultimi anni. In Sudan contro l’aumento del prezzo del pane, in Iran contro l’aumento del prezzo della benzina, in Colombia contro la riforma fiscale fatta sui poveri, in Iraq per chiedere lavoro ai giovani e la fine della corruzione, in Ecuador contro la fine dei sussidi sulla benzina, in Cile contro l’aumento dei biglietti della metropolitana, in Libano contro una tassa sulle chiamate di Whatsapp. E ancora Bolivia, Porto Rico, Venezuela, Haiti. La lista è lunghissima.

Ma perché scendere in piazza, manifestare, rischiare la vita per una tassa sulle chiamate di Whatsapp? Noi non lo faremmo mai. Vero. Noi abbiamo il benessere economico e possiamo permetterci di pagarla. Per queste persone, una tassa sulle chiamate, un aumento del prezzo della metropolitana o la fine dei sussidi sulla benzina, significa fare un ulteriore passo nella miseria e nella povertà.

La versione audio: Cuba: la fame è la più grande “rivoluzionaria”
Fonte: ANSA

Lo spettro dell’inflazione si aggira negli Stati Uniti

Lo spettro dell’inflazione si aggira negli Stati Uniti. E anche l’Europa trema. I dati appena pubblicati di aprile hanno spaventato un po’ tutti. Rispetto a un anno fa, i prezzi al consumo sono aumentati del 4.2%, ben oltre le aspettative degli analisti che già erano piuttosto elevate (3.6%). Era da 26 anni che non si registrava un dato così alto.
Anche se gli analisti e gli economisti parlano di aumenti dei prezzi solo transitori, non sembrano pensarla così i mercati finanziari che mostrano un certo nervosismo e una grande volatilità. Subito dopo la notizia dell’aumento dell’inflazione, c’era stata una corsa alla vendita soprattutto dei titoli tecnologici. Notizie dell’ultima ora invece confermano una ripresa di Wall Street. Grazie probabilmente alle dichiarazioni del presidente della Federal Reserve che ha ribadito che il programma di titoli a sostegno della ripresa economica rimane attuale. Quindi nessun passo indietro: si va avanti a sostenere il debito pubblico.
Le cause dell’aumento dell’inflazione possono essere molte e noi nel nostro vocabolario di economia ne spieghiamo dettagliatamente alcune (l’inflazione da domanda, quella da costi e quella da monopoli). In questo specifico caso, la ragione sarebbe la ripresa economica. Grazie alle campagne di vaccinazione e alla fine dei lockdown in quasi tutto il mondo, la domanda di beni e servizi è aumentata. Dato che la produzione ha bisogno di tempo per essere realizzata, si verifica un aumento del prezzo. Un po’ come succede nelle aste. Se tutti vogliamo comperare “I Girasoli” di Van Gogh, il prezzo del quadro aumenterà perché la domanda è tanta e l’offerta è rappresentata da solo 1 quadro.
Gli analisti sono tuttavia preoccupati da alcuni dati in particolare: se era abbastanza prevedibile un aumento dei prezzi delle materie prime legate ai prodotti energetici, meno lo era quello degli alimentari, dei semiconduttori e di altri materiali utili per l’edilizia. Non solo si registrano prezzi raddoppiati, ma anche forniture dimezzate. Le ragioni possono essere tante e variate. Si va dall’ondata di gelo in Texas che avrebbe ridotto del 90% l’approvvigionamento di polopropilene, al fatto che molti container per i trasporti navali si trovino dislocati in regioni discoste a causa dell’emergenza COVID.
Insomma, regna il disordine che si manifesta anche nei prezzi alla produzione. Notizia di poche ore fa è che anch’essi sono saliti più delle aspettative registrando un aumento del 4.1% su base annua.
Almeno sul fronte dell’occupazione parrebbero giungere buone notizie: negli Stati Uniti le richieste di sussidio alla disoccupazione sono diminuite nell’ultima settimana di 34 mila unità segnando il miglior dato dal marzo scorso, inizio della pandemia (parliamo comunque di oltre 473 mila persone).
Insomma, anche passata l’emergenza pandemia non possiamo dormire sonni tranquilli. L’economia influenzerà la nostra quotidianità anche nei prossimi mesi. Per questo è importante saper leggere i segnali che ci manda.

La versione audio: Lo spettro dell’inflazione si aggira negli Stati Uniti

Il Covid-19 aumenta le disuguaglianze

A differenza di quello che vorremmo credere, anche la pandemia non è egualitaria. No, non tocca tutti alla stessa maniera. Anzi, il COVID-19 sta aumentando le disuguaglianze economiche e sociali.
Qualche settimana fa avevamo trattato la notizia che il patrimonio delle persone più ricche al mondo era aumentato in maniera importante anche l’anno scorso.
Oxfam che è un’organizzazione no profit internazionale che si occupa di combattere la povertà e le disuguaglianze attraverso aiuti umanitari e progetti di sviluppo, ha confermato che le 1’000 persone più ricche al mondo hanno compensato le perdite causate dal Covid-19 in soli 9 mesi. Al contrario si stima che le persone più povere potrebbero impiegare 10 anni per riprendersi.
Ma le differenze non finiscono qui.
Abbiamo visto che le donne sono state le prime a risentire della crisi sul mercato del lavoro e a dover pagare il prezzo più alto in termini di posti di lavoro persi. Eppure qualcosa stava cambiando. Per esempio negli Stati Uniti per qualche mese a inizio del 2020 le donne hanno occupato più posti di lavoro degli uomini. Un fatto questo avvenuto solo due volte nella storia americana. Certo, i posti di lavoro erano più frequentemente a tempo parziale e con stipendi più bassi, ma comunque era un segnale importante. La crisi Covid-19 ha cancellato tutto in un baleno. Così per esempio abbiamo visto che nel mese di dicembre negli Stati Uniti le donne hanno perso 156 mila posti di lavoro, mentre gli uomini ne hanno guadagnati 16 mila. Anche in Ticino le dinamiche non sono state differenti: rispetto a un anno prima abbiamo visto sparire nel I trimestre 4’300 posti di lavoro femminili, nel II oltre 6’600 e nel terzo 4’000. Questo capita perché i primi impieghi a essere cancellati in caso di crisi sono quelli temporanei, che richiedono minori qualifiche e competenze e quindi i più precari. Per farla breve, quelli delle donne.
Ma il Covid-19 ha anche colpito duramente le minoranze etniche: i loro tassi di mortalità sono di gran lunga più alti. La responsabilità non sarebbe della genetica ma del fatto che queste persone fanno lavori più a rischio, vivono in alloggi più popolosi e in generale hanno stili vita più a rischio.
Per non parlare della disuguaglianza ancora più grande tra paesi in via di sviluppo e paesi sviluppati. Non solo le conseguenze della pandemia saranno molto più gravi per i primi, ma anche l’accesso alle cure sta mostrando grandi differenze.
Infine, le notizie di oggi ci confermano le differenze anche tra settori e tra dipendenti nei settori. Scopriamo che per esempio UBS ha avuto nel 2020 un utile netto di oltre 6.6 miliardi di dollari segnando una crescita del 54%. Sorte analoga è toccata a Novartis che ha chiuso con un utile di oltre 8 miliardi in crescita del 13%.
Questo ottimo risultato ha premiato con una pioggia di milioni la direzione e il consiglio di amministrazione. L’amministratore delegato ha ricevuto un aumento di 2 milioni di franchi. Sì, avete capito bene: 2 milioni di franchi. Vi sembrano troppi? Non se paragonati ai 12.7 milioni di franchi totali guadagnati nel 2020. Se però li paragoniamo allo stipendio mensile medio di un infermiere in Ticino, come fatto dalla giornalista Alessandra Ferrara, le cose cambiano. Ecco che con i suoi quasi 6’000 franchi al mese il nostro infermiere dovrà lavorare quasi 180 anni per guadagnare quanto l’amministratore delegato in un anno.
Attenzione non cadiamo nella tentazione di dire che da sempre chi ha responsabilità guadagna molto di più: fino agli anni 80 il rapporto nella stessa azienda tra chi guadagnava tanto e chi guadagnava meno era di 1 a 10 volte, 1 a 15 volte.
Oggi, purtroppo, le differenze stanno diventando insostenibili per la società, ma anche per l’economia.

La versione audio: Il Covid-19 aumenta le disuguaglianze

Patrimoni miliardari immuni dal Covid-19

Il Bloomberg Billionaires Index fornisce una classifica aggiornata quotidianamente delle persone più ricche al mondo. Per ogni miliardario dà la composizione del suo patrimonio. Certo è lo stesso esercizio che facciamo anche noi quando compiliamo la dichiarazione delle imposte e dobbiamo stimare la nostra sostanza. Ma se andate a spulciare uno dei tanti profili dei miliardari vi renderete conto che c’è una bella differenza tra i nostri patrimoni e i loro. Partecipazioni in società quotate in borsa, sconti da applicare in funzione dei rischi legati ai Paesi in cui si detengono partecipazioni pubbliche, valutazioni degli hedge fund, stima della liquidità; insomma deve essere proprio difficile capire quanto si è ricchi quando si è veramente ricchi.
Una cosa però è certa. Anche il COVID-19 colpisce in maniera diversa le classi sociali. Mentre milioni di persone hanno perso il lavoro e stanno chiudendo le loro attività a causa della pandemia, possiamo tirare un sospiro di sollievo perché i 500 miliardari più ricchi della terra hanno visto il loro patrimonio aumentare anche quest’anno. E pensare che subito dopo il primo lockdown mondiale eravamo preoccupati per la loro sorte, dato che i loro patrimoni avevano mostrato perdite importanti.
La notizia bizzarra è che addirittura sono i miliardari cinesi (Wuhan vi ricorda qualcosa?) ad aver visto la loro ricchezza aumentare di più: in effetti, essa è cresciuta quasi del 54%. Saremmo tentati di pensare a uno strano scherzo del destino se non fosse che anche negli anni passati la Cina ha mostrato crescite impressionanti. Non dimentichiamo che proprio studi recenti affermano che la Cina diventerà la prima potenza mondiale scavalcando gli Stati Uniti in anticipo rispetto a quanto previsto.
Ma non preoccupiamoci troppo dei miliardari statunitensi: anche loro hanno visto aumentare la loro ricchezza di oltre il 25%, un po’ di più dei “cugini” inglesi. In Europa, dove la ricchezza è aumentata mediamente “solo” del 15%, c’è anche chi si è impoverito: i miliardari spagnoli (quasi del -12%) e quelli ciprioti (-8%).
Naturalmente la ricchezza dipende dalla performance dei diversi settori economici: i servizi, la sanità, le tecnologie hanno registrato guadagni superiori al 50%, le materie prime “solo” del 32% e i settori industriali del 26%.
Ma com’è possibile che ci siano delle disuguaglianze così grandi? E la storia ha sempre mostrato queste differenze?
Da una parte è vero che la teoria economica ci insegna che per raggiungere lo sviluppo è necessario passare attraverso una certa concentrazione della ricchezza produttiva. Averla nelle mani di poche famiglie consente di accumulare macchinari e mezzi per produrre. Oggi però la situazione che viviamo è ben diversa.
Le differenze e le disuguaglianze stanno diventando insostenibili. Oltre a creare tensioni importanti tra le classi sociali, esse non sono più ritenute necessarie allo sviluppo economico, anzi.
A onor del vero, dall’inizio del XX secolo l’intervento dello Stato, le imposte progressive, l’istruzione pubblica e la maggiore solidarietà hanno ridotto le disuguaglianze. Queste politiche hanno portato nel 1980 in Europa il 10% più ricco a possedere circa il 40-50% del patrimonio. Purtroppo questo trend positivo si è arrestato attorno agli anni Ottanta, con le politiche liberiste di deregolamentazione e globalizzazione di Ronald Reagan e Margaret Thatcher oltre a quelle della finanza internazionale.
Ora, questa nuova crisi dovrà essere l’occasione per ripensare anche alla validità delle nostre politiche fiscali e soprattutto ai meccanismi che consentono un’accumulazione eccessiva.

La versione audio: Patrimoni miliardari immuni dal Covid-19