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Che tempo farà quest’anno? Ecco le previsioni economiche

Puntuali come il fiorire della magnolia, arrivano le previsioni della Segreteria di Stato dell’economia (SECO). L’entusiasmo di qualche mese fa sembra purtroppo essersi attenuato. Nonostante la crisi COVID non sia ricominciata e nonostante in Europa non si sia verificata la carenza di energia tanto prospettata e temuta, le cose non sembrano andare troppo bene e non sembra che andranno troppo bene nemmeno da qui alla fine dell’anno.
Il prodotto interno lordo (PIL) crescerà solo dell’1,1%. Certo, siamo contenti di non essere in una situazione negativa come quella prevista per il Regno Unito che vede addirittura una crescita negativa del -0,3%, ma sicuramente avremmo preferito un tasso di crescita più alto. Ricordiamo che il prodotto interno lordo deve crescere tecnicamente per poter compensare l’aumento della popolazione e l’aumento del progresso tecnologico. Questo significa che affinché tutte le persone siano occupate come nel periodo precedente, il PIL deve garantire lavoro per tutti.

Entrando nel dettaglio vediamo che ancora una volta saranno i consumi privati a garantire una certa stabilità: il tasso di crescita sarà dell’1,5%. Ricordiamo che i consumi delle famiglie rappresentano la fetta più importante (almeno la metà) dell’intera produzione nazionale.

La spesa pubblica, al contrario, proseguirà la sua riduzione già cominciata l’anno scorso. Nel 2023 dovrebbe scendere del -0,6% e addirittura del -1,8% nel 2024.

Il settore degli investimenti denota due andamenti contrapposti: da una parte gli investimenti in costruzione che vanno avanti a confermare il loro periodo negativo (-1.3%), dall’altra gli investimenti in beni di equipaggiamento che mostrano una crescita positiva dell’1,7%. Sicuramente non siamo felici che il settore delle costruzioni continui la sua discesa, ma sarebbe ancora più grave se a scendere fossero gli investimenti in macchinari: questo significherebbe che gli imprenditori sono pessimisti e che quindi l’intera economia potrebbe entrare in una fase recessiva.

Nonostante le difficoltà estere, le esportazioni e le importazioni sia di beni che di servizi sembrano mantenere tassi positivi.

Tutto questo si concretizzerà con una creazione positiva di posti di lavoro in equivalenti a tempo pieno, tale da garantire un tasso di disoccupazione che dovrebbe attestarsi al 2%. Sul fronte dei prezzi, invece, il 2023 dovrebbe chiudersi con un tasso di inflazione del 2,4%, in riduzione rispetto al 2,8% del 2022.

Riassumendo quindi da questo 2023 possiamo attenderci, nella migliore delle ipotesi, una certa stabilità. E vista l’aria che tira in altre nazioni, meglio non lamentarci.

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IL PIL svizzero cresce

Il prodotto interno lordo (PIL) svizzero è cresciuto nel primo trimestre di quest’anno (gennaio-marzo) dello 0.5%. Il trimestre precedente era aumentato dello 0.2%. Ricordiamo che il prodotto interno lordo è un indicatore che dà un’immagine del benessere economico di una nazione. Sappiamo che ha molti limiti: non tiene conto delle attività che non passano sul mercato, è difficile paragonarlo per le differenti nazioni o ancora non considera le conseguenze negative sull’ambiente. Nonostante ciò rimane l’indicatore migliore per misurare l’attività economica di un paese. E possiamo guardare a questa attività economica da tre angolazioni differenti.
La prima maniera contabilizza le spese degli attori economici. Così sommiamo il valore dei consumi delle famiglie, quelli dello Stato, gli investimenti delle aziende e gli acquisti che il resto del mondo fa dei nostri beni e servizi (le esportazioni). L’aumento del PIL rispetto al trimestre precedente in questo caso è stato trainato principalmente delle esportazioni di beni (+1.4%) e dalla spesa dello Stato (+1.4%), che non dimentichiamo è ancora intervenuto per sostenere le persone e le aziende nell’ultima ondata pandemica. La spesa per consumi delle famiglie è rimasta stabile (+0.4%) mentre gli investimenti in beni di equipaggiamento (macchinari per esempio) e anche le costruzioni si sono ridotti rispettivamente del 3.1% e dello 0.7%.
La seconda maniera di calcolare il prodotto interno lordo contabilizza il valore aggiunto creato dalle aziende nella produzione di beni e servizi. In questo caso scopriamo che i settori trainanti sono stati quelli dell’industria manifatturiera (+1.7%) e il settore dell’arte, dell’intrattenimento e del divertimento (+9.8%). In crescita anche il settore finanziario e assicurativo (+0.9%) e quello sanitario (+0.7%). Le cose non vanno bene per il settore delle costruzioni (-0.4%) e dell’alloggio e ristorazione (-2.2%, probabilmente a causa dell’ultima ondata pandemica).
La terza maniera di calcolare il prodotto interno lordo è quella di sommare i redditi che sono distribuiti ai fattori produttivi (lavoro e macchinari) per la produzione. Questo metodo considera quindi i salari, i profitti, gli interessi, i dividendi,… Di questo metodo non disponiamo dei dati trimestrali.
Infine chiudiamo ricordando perché è importante che il PIL cresca. Affinché si mantenga inalterato il tasso di disoccupazione è necessario che i consumi aumentino al pari della produzione e quindi che le vendite crescano almeno dell’aumento della popolazione (nuovi lavoratori che cercano un lavoro) e del progresso tecnologico (grazie alle scoperte produco di più). Ecco perché speriamo sempre in segno più.

La versione audio: il PIL svizzero cresce

Covid-19: un’occasione per il Cantone che può ripensarsi

Qualche settimana fa ho risposto alle domande poste dal Prof. Remigio Ratti. Le mie risposte insieme a quelle dell’On. Sergio Morisoli sono state pubblicate dal Federalista con alla direzione Claudio Mésionat. Ve ne ripropongo alcuni estratti.

Questa pandemia è stato un evento eccezionale e deve essere trattato come tale. Dal punto di vista economico abbiamo assistito a una crisi “duplice” che ha toccato offerta e domanda in contemporanea. Abbiamo visto fermarsi la produzione e nello stesso momento impedire ai cittadini il consumo.
Passato il senso di smarrimento e incredulità verso quanto stava accadendo, abbiamo preso finalmente coscienza dei limiti della globalizzazione e della delocalizzazione. Abbiamo scoperto che la nostra dipendenza dalla Cina è molto più grande di quanto immaginassimo. Abbiamo dovuto fare i conti con i limiti di un’economia che ha pensato troppo presto di poter vivere solo di servizi e non più di industria. Tutto ad un tratto il mondo “avanzato” si è accorto che necessitava di beni reali che non sapeva più produrre: medicine, macchinari, respiratori, disinfettanti, tutto era al di fuori dei nostri confini. Ma questa presa di coscienza è servita anche per risvegliare l’imprenditorialità e l’innovazione che sembravano un po’ dormienti.
In contemporanea le aziende di servizi potevano sfruttare l’occasione di accelerare il percorso di digitalizzazione e di riorganizzazione del lavoro che già era in atto senza doversi scontrare con le resistenze che lo frenavano. Abituare i collaboratori e le collaboratrici a lavorare al proprio domicilio, insegnare ai clienti a svolgere le proprie attività bancarie, istruire gli anziani per fare la spesa online. Difficilmente senza questa crisi saremmo riusciti a cambiare così rapidamente le nostre abitudini. Dovremo capire se questi cambiamenti sono o meno definitivi e soprattutto come gestirne le conseguenze.
Anche in questa occasione, la Svizzera ha tutte le carte in regola per approfittare al meglio del momento di transizione. Se come più volte fatto in passato riuscirà a sfruttare la sua dimensione contenuta, la sua rapida capacità di adattamento, la flessibilità del suo mercato del lavoro ne uscirà ancora più rafforzata. Probabilmente potrebbe anche essere l’occasione per in parte rivedere la sua dipendenza dall’estero in alcuni settori o quanto meno non accentuarla come sembrava essere l’interesse di una parte politica del Paese. Non si tratta evidentemente di pensare a un’economia di sussistenza, ma certo è che un ripensamento sui settori strategici per il Paese va fatto.
Discorso diverso per quanto attiene al Cantone Ticino che potrebbe ripensarsi a partire da questa crisi. I segnali di rallentamenti e di difficoltà per alcuni settori erano presenti ben prima dello scoppio della pandemia, come pure erano note le debolezze del nostro tessuto economico a partire dalla sua composizione e finendo ai salari. Lo stesso vale per l’assenza di centri decisionali, per uno spirito imprenditoriale sano poco sostenuto al contrario di uno “malsano” accettato, per la mancanza di posti di lavoro qualificati dell’amministrazione federale o della cancellazione di quelli delle ex-regie.
Ma l’opportunità di prevedere una nuova visione del Cantone non dipende tanto da questa crisi, quanto piuttosto dalla volontà politica di riconoscere le difficoltà di questo Paese per risolverle in un’ottica di medio termine. Non riusciremo a modificare la nostra struttura economica in un paio di anni, come non saranno investimenti pubblici in infrastrutture a dare lavoro ai nostri giovani che sono costretti ad emigrare verso Nord. Il progetto politico, economico e sociale dovrà avere uno sguardo molto più lungo.

Sono fermamente convinta che il contesto nazionale per il Cantone Ticino rappresenti un punto di sicurezza e di vantaggio più che un limite. Sarebbe un bene per tutti noi avvicinarci di più al resto della Svizzera, non il contrario.
Detto questo, il problema è che non abbiamo abbastanza peso e non siamo sufficientemente ascoltati a livello federale o quanto meno non c’è abbastanza riconoscimento per il prezzo che paga il Cantone (non siamo gli unici) per le scelte che avvantaggiano il resto della Svizzera. Penso ad esempio agli accordi di libera circolazione e all’impatto che questi hanno sul mercato del lavoro ticinese. La Confederazione dovrebbe “risarcire” il cantone Ticino e gli altri cantoni di frontiera per gli svantaggi che traggono. Chiave di riparto modificata, posti di lavoro e sedi di autorità federali potrebbero rientrare in questa logica.

La versione audio: Covid-19: un’occasione per il Cantone che può ripensarsi

Finanze pubbliche fuori controllo. Colpa di Keynes?

Crisi economica uguale intervento dello Stato. Quella che oggi ci sembra un’equazione scontata è frutto invece di una lunga evoluzione storica, e anche teorica. Quando John Maynard Keynes nel 1936 pubblica la “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” ha di fronte a sé economie industriali occidentali dilaniate dalla disoccupazione e dalla sottoutilizzazione dei macchinari.
La teoria marginalista, che andava per la maggiore in quel periodo, sosteneva due concetti fondamentali: l’importanza della produzione e il raggiungimento automatico dell’equilibrio economico in tutti i mercati. Keynes li stravolgerà entrambi.
Ma vediamo che cosa sostenevano. Primo: si dava un’attenzione esclusiva all’offerta. Se noi produciamo dei beni dovremo pagare dei lavoratori che a loro volta compreranno con i salari quanto prodotto. Concetto abbastanza semplice, ma che non ha retto al confronto con la realtà degli anni ’30. Così come non ha retto l’idea che la disoccupazione si sarebbe risolta da sola portando il sistema in equilibrio. Il meccanismo è abbastanza intuitivo: se le risorse degli imprenditori sono limitate, nessun problema. La disoccupazione in eccesso porterà a un abbassamento dei salari cosicché gli imprenditori potranno assumere i lavoratori in esubero. Anche in questo caso, problema risolto. Peccato che aprendo la finestra lo scenario che si aveva davanti era quello di un tasso di disoccupazione elevato persistente e di macchinari inutilizzati.
E qui arriva il genio di Keynes che rivoluzionerà il pensiero economico. Innanzitutto l’economista sostiene che i sistemi economici debbano essere analizzati attraverso le variabili aggregate, come la produzione nazionale, l’occupazione totale, il livello dei prezzi generale. In particolare poi l’attenzione deve essere messa sulla domanda aggregata, che altro non è che quello che consumano le famiglie, che investono le aziende, che spende lo Stato e che si esporta all’estero. Ma non è tanto questa la rivoluzione, quanto quella di invertire il pensiero: non vendiamo tutto quello che produciamo, ma, al contrario, produciamo solo quello che vendiamo. E se immaginiamo di vendere poco, allora produrremo poco e questo causerà licenziamenti. Quando si verifica una situazione di disoccupazione siamo in presenza di una domanda che non è abbastanza grande rispetto all’offerta che garantisce il pieno impiego.
Ma Keynes si spinge oltre. Dimostra che in presenza di questo genere di crisi economica e di questa specifica disoccupazione, solamente un agente può intervenire per aumentare la domanda e quindi la produzione e quindi l’occupazione: questo agente è lo Stato. In effetti, se ci pensiamo, non possiamo obbligare i consumatori a comperare più prodotti come non possiamo obbligare gli imprenditori ad aumentare gli investimenti e, men che meno, abbiamo un potere sulla domanda dell’estero. Insomma solamente lo Stato in maniera diretta attraverso la politica fiscale o indiretta attraverso la politica monetaria può far aumentare la domanda.
Ma la grande accettazione della teoria di Keynes passa anche attraverso un punto che spesso viene sottovalutato: l’intervento dello Stato deve essere limitato esclusivamente ai momenti di crisi. E anche in questi momenti deve essere concessa la massima libertà ai consumatori e agli imprenditori. Keynes è un sostenitore di un capitalismo “saggio” e di un intervento dello Stato mirato.
E allora com’è possibile che le teorie keynesiane abbiano portato a una spesa pubblica fuori controllo? Purtroppo come spesso accade, prendiamo solo quello che ci piace. E così nel corso dei decenni la classe politica ha preferito non applicare la parte della teoria di Keynes che prescrive che nei momenti di crescita economica lo Stato debba ridurre la sua spesa pubblica e addirittura aumentare le entrate fiscali. Ma come dargli torto? Ve lo immaginate il successo elettorale di un politico che con tono fiero dichiara “Cittadine, cittadini sono veramente felice dell’ottimo momento economico che stiamo vivendo. Per questo abbiamo deciso di ridurvi i sussidi e nel contempo di aumentarvi le tasse.”

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Biden ha le mani bucate? Non ha ancora speso i 1’900 miliardi che già ne chiede altri 2’250

Biden non ha ancora speso un centesimo dei 1’900 miliardi di dollari votati per il piano anti-Covid, eppure vuole già spenderne altri 2’250 miliardi.
Il primo piano era già stato lanciato nell’era Trump. Prevede che ogni persona che guadagna meno di 75 mila dollari (70 mila franchi) e in coppia meno di 150 mila dollari (140 mila franchi) riceverà un assegno da 1’400 dollari che potrà spendere liberamente (1’300 franchi). In aggiunta i disoccupati riceveranno fino a settembre 1’200 dollari (1’100 franchi) mensili di sussidi federali straordinari. E infine, i crediti di imposta per figli minorenni saranno convertiti in assegni di cui le famiglie potranno disporre.
Questa politica da 800 miliardi è un esempio di politica fiscale tipico da manuale. La prima misura è indirizzata a tutte le persone con redditi medio-bassi; la seconda sostiene in maniera mirata la categoria delle persone disoccupate, mentre la terza aiuta le famiglie povere.
Anche in questo caso, come sempre, l’obiettivo di una politica fiscale è doppio. Primo: lo Stato sostiene alcuni cittadini in difficoltà dando loro un reddito che non hanno. Lo Stato sarà molto contento se questi lo spenderanno interamente e in beni prodotti negli Stati Uniti. Ma perché uno Stato dovrebbe incentivare il consumo?
Il consumo rappresenta il 50-55% del nostro Prodotto Interno Lordo; per farla semplice è la benzina principale del nostro benessere economico. Se le persone consumano dei beni, sarà necessario che qualcuno li produca. Affinché questo avvenga le aziende dovranno assumere nuovi collaboratori. In questo caso il vantaggio è triplo. Primo: se le persone trovano un posto di lavoro non avranno più bisogno dei sussidi dello Stato e la spesa pubblica diminuisce. Secondo: i cittadini avranno un reddito su cui pagheranno le imposte e le entrate dello Stato aumenteranno. Terzo: i cittadini potranno comperare dei beni. Così aumenteranno ulteriormente la domanda, la produzione dovrà crescere e il nostro circuito economico guarirà dalla crisi in cui si trova. Quindi lo Stato non solo renderà felici direttamente i cittadini che riceveranno il denaro, ma grazie al loro consumo, renderà felici anche quelli che troveranno un posto di lavoro.
E non finisce qui. Se i cittadini usano tutto il reddito per comperare beni prodotti localmente permettono al moltiplicatore di esercitare il suo effetto. Questo meccanismo, non si offenda nessuno dato tra l’altro il periodo pasquale, è un po’ la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Infatti il moltiplicatore spiega che l’impatto sulla crescita della produzione è maggiore della spesa che è stata fatta. Concretamente se io ho regalato 1’400 dollari a una persona e so che il moltiplicatore è di 1.5 alla fine del circuito economico il mio prodotto interno lordo sarà aumentato di 2’100 dollari. Ha speso 1’400 dollari se ne generano 2’100. Vi sembra un miracolo? No, niente di così grande. Il meccanismo che sta dietro e che è spiegato nell’economario con un esempio semplice è molto banale. Se io ho un reddito aggiuntivo e lo spendo, qualcun altro lo incasserà; a sua volta questo qualcun altro potrà spenderlo e qualcun altro lo riceverà e così di seguito. Quindi si genererà una sorta di redditi a cascata.
Ecco perché la politica fiscale, oltre ad aiutare i cittadini in difficoltà, sostiene anche la ripartenza dell’economia. Quanto però saranno sufficienti questi aiuti ce lo dirà solo il tempo.
Intanto però il presidente Biden ha già annunciato di voler spendere altri 2’250 miliardi di dollari e di voler aumentare le tasse. Sicuramente queste proposte alimenteranno il dibattito nei prossimi mesi. E come si dice in questi casi, affaire à suivre… e noi lo eseguiremo in un prossimo articolo.

La versione audio: Biden ha le mani bucate? Non ha ancora speso i 1’900 miliardi che già ne chiede altri 2’250
© Mandel Ngan/AFP via Getty Images