Magari proprio adesso qualcuno sta seduto nella penombra del suo ristorante. Chiuso. Contempla il vuoto nel locale e il vuoto dentro di sé.
Al chiuso in un posto dove ha investito risparmi, passione, sogni. Certo, ha ascoltato i motivi per cui le autorità ritengano che questo luogo debba rimanere chiuso. E li rispetta. Ma si chiede con angoscia quando finirà. Tenere chiuso il locale che gli dà da vivere, che gli ha riempito la vita di gioie e preoccupazioni: è davvero questa l’unica soluzione praticabile?
Non si considera un egoista. Anzi, non vorrebbe essere condannato come tale solo perché il suo cuore è pieno di angoscia. La pandemia finirà, lasciandosi dietro una scia di dolore e lutti. E tra le vittime della pandemia ci saranno anche tante realtà imprenditoriali, non di lusso, non di alto livello, non di privilegio. Ma di lavoro, di fatica, di passione.
Prima di crocifiggere ristoratori e proprietari di esercizi pubblici (o i loro rappresentanti) per il grido di dolore che hanno elevato, guardiamoci dentro: cerchiamo di non stilare classifiche nel dolore e nell’angoscia. Chi ha un lavoro solido, che non dipende dalle aperture e dalle chiusure imposte dall’autorità, difficilmente può capire cosa prova chi, invece, non sa se mai riaprirà.
Oggi a queste persone che pagano un prezzo diretto per una scelta di pubblico beneficio, io esprimo la mia solidarietà.
Solidarietà! Perché chi vuole vivere e lavorare non va trattato da egoista. Mai. Nemmeno se appartiene a categorie che alcuni trovano meno degne di altre: i ristoratori, i proprietari di palestre o di bar, quelli che organizzano eventi o vivono dell’indotto turistico. Non sono egoisti perché vogliono quello che vogliamo tutti. Lavorare. E vivere.
I dati pubblicati oggi ribadiscono la gravissima crisi con cui è confrontato il settore del turismo. Abbiamo ora conferma dell’entità del danno subito nel 2020. L’ufficio federale di statistica dice che era dagli anni ’50 che non si verificava un numero così basso di pernottamenti nel nostro Paese. Evidentemente la causa principale è da cercare nella crisi del Covid-19 e nei provvedimenti restrittivi messi in atto da tutti i paesi del mondo per evitare la diffusione.
Così vediamo che le notti passate in Svizzera dagli stranieri si sono ridotte del 66%, una riduzione di 2/3. Anche le notti trascorse in vacanza degli svizzeri si sono ridotte, ma meno (parliamo dell’8.6%). In questo caso gli svizzeri hanno rinunciato ad andare all’estero, ma appena possibile si sono concessi una vacanza in patria. Tant’è vero che tra luglio e ottobre sono state registrate cifre mai viste prima.
Però non tutte le regioni hanno visto crescere il turismo indigeno, anzi. La maggioranza degli svizzeri ha privilegiato zone di svago rispetto alle zone più urbane. E tra le mete preferite rientrava il Ticino. Se la flessione del turismo è stata più contenuta, non dobbiamo però trascurare che dei 327 stabilimenti aperti nel 2019 ne sono rimasti solo 281 nel 2020.
Purtroppo le chiusure saranno ancora tante in questo 2021 in cui la soluzione alla crisi pandemica sembra allontanarsi giorno dopo giorno. Almeno questo è quanto ci comunicano le autorità con le loro decisioni.
