Svizzera: le cose sono andate bene, ma non benissimo…

L’economia svizzera non ha chiuso troppo bene il 2022. Qualche giorno fa la Segreteria di Stato dell’Economia (SECO) ha pubblicato i dati relativi all’andamento del prodotto interno lordo (PIL) svizzero nel quarto trimestre del 2022, ossia del periodo che va da ottobre a dicembre. Il PIL, che ricordiamo è il valore dei beni e dei servizi prodotti all’interno della Svizzera, non è né cresciuto né si è ridotto. Certo non sono buonissime notizie, ma almeno non abbiamo visto un calo.
In effetti, la situazione internazionale avrebbe potuto giocare un ruolo ancora più importante per il nostro paese che grazie al commercio con l’estero garantisce il 12% circa del nostro prodotto interno lordo (altrimenti detto del nostro benessere economico). La conseguenza è chiara: se le cose vanno male nel resto del mondo, i cittadini e le aziende non compreranno i nostri prodotti e quindi ne risentiranno anche le nostre industrie. I dati sono chiari: le esportazioni di beni si sono ridotte dell’1.7%, mentre quelle di servizi sono leggermente aumentate. Ma i dati ci dicono altro. Essendo noi un paese che non ha grandi materie prime per produrre i beni finali, dobbiamo importare queste e i semilavorati dall’estero. Anche in questo caso c’è stata una riduzione dell’1.5% rispetto al trimestre precedente.

Ma non finisce qui. I dati ci dicono anche che il settore dell’industria, quello delle costruzioni, ma anche quello dei servizi legati alla finanza e delle assicurazioni mostrano una certa riduzione. Tengono ma senza risultati eccezionali il settore del commercio, quello dei servizi alle imprese e l’amministrazione pubblica. Notiamo che il settore relativo al turismo e in particolare all’alloggio e alla ristorazione è quello che va meglio con un aumento dell’1.5% rispetto al trimestre precedente. Aumento che tuttavia non ci porta ancora al livello pre Covid-19.

Ma allora com’è possibile che se le esportazioni sono andate male, il prodotto interno lordo svizzero è rimasto stabile? Ad alimentare questo risultato ci pensano le famiglie, l’amministrazione pubblica e le aziende. Il consumo delle famiglie e quello della Stato mostrano una leggera crescita dello 0.3%. Un buon risultato si segnala negli investimenti in beni di equipaggiamento, +1.7%. La crescita dei beni di equipaggiamento è un buon risultato, perché significa che i nostri imprenditori investono in macchinari. Meno bene sono andati gli investimenti in costruzione che per ancora un altro trimestre mostrano una riduzione.

E che succederà in futuro? Attendiamo le previsioni degli esperti, ma per quanto ci riguarda almeno nel Canton Ticino la situazione non sembra così florida: commerci, industria, ma anche servizi finanziari sembrano pessimisti. Speriamo di sbagliarci.

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Frontalieri: perché il problema è peggio di quanto pensate

Tra ottobre e dicembre 2022 c’erano quasi 78’000 frontalieri in Ticino: una crescita di oltre 3’000 unità rispetto a un anno fa. La differenza con la situazione di dieci anni fa è impressionante: nel 2012 c’erano 21’000 frontalieri in meno!
In un cantone che si spopola e invecchia un posto di lavoro su tre, il 33%, va a persone che non vivono qui.
Ma le cifre ci dicono altro: e sono fatti ancora più preoccupanti.
Dieci anni fa il 43% dei frontalieri lavorava nel settore secondario (l’industria e l’edilizia, per intenderci). Ora questa fetta è scesa al 32%. Visto che ancora oggi quasi un quarto del nostro PIL, oltre 7 miliardi di franchi, continua a dipendere da questo settore, evidentemente questa diminuzione non può essere spiegata con il fatto che oggi siamo più Silicon Valley che Valle della Ruhr.
Se la quota di frontalieri scende nell’industria e nell’edilizia, è perché aumenta nel settore terziario, quello dei servizi. Infatti qui si passa dal 56% al 67%.
I cambiamenti maggiori riguardano le professioni legate alla attività legali e contabili, quelle degli studi di ingegneria e architettura, le attività di consulenza alle aziende, le attività di design specializzate, ecc. In queste professioni qualificate c’è stato un aumento dei frontalieri di due volte e mezzo, da 3’600 persone alle oltre 9’300.
Se non fosse una cosa grave per chi vive qui, ci verrebbe da sorridere guardando all’incremento dei frontalieri nelle attività di ricerca, selezione e fornitura di personale per le aziende (sic!), passati in 10 anni da 2’700 persone a 4’100.
Le conclusioni? Sono principalmente tre.
La prima: è falso che i frontalieri facciano “i lavori che i ticinesi non vogliono fare”. I ticinesi quei lavori li farebbero eccome. Semplicemente, non POSSONO, perché le paghe sono lombarde e non svizzere. Sono, cioè, stipendi per assumere frontalieri e non residenti.
Secondo: la formazione di per sé non è sufficiente per permettere ai lavoratori residenti di “vincere” la competizione con i frontalieri. I frontalieri non sono meno qualificati. Sono però meno costosi. Addirittura in parecchi casi i frontalieri selezionano frontalieri anche in ambiti pubblici, di ricerca o formativi. I nostri giovani qualificati e iper-qualificati emigrano a nord mentre i frontalieri, con qualifiche analoghe, arrivano da noi. La formazione è importante, ma, confrontata con la pressione al ribasso sui salari, non è sufficiente.
Infine, mentre destra e sinistra litigavano e fingevano di occuparsi del problema, in maniera poco sorprendente il problema si è aggravato. La politica sta deludendo attese e speranze dei lavoratori residenti.

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Le previsioni per il Ticino

Quali sono le prospettive per il nuovo anno dell’economia del Canton Ticino? Andiamo a dare un’occhiata ai diversi settori.

Il settore industriale dopo aver concluso un 2022 meglio del previsto adesso sembra un po’ più pessimista: gli imprenditori giudicano il volume degli ordini come insufficiente e la situazione è peggiorata soprattutto tra le aziende che si rivolgono al mercato estero. Anche le prospettive per i prossimi mesi non sono troppo favorevoli.

Il settore delle costruzioni mostra un andamento differenziato rispetto alle sue specializzazioni. Nel caso dell’edilizia principale si nota un certo peggioramento mentre sembrerebbe andar meglio l’edilizia accessoria (come le attività legate ai lavori di installazione) e quella del genio civile. In effetti, anche in questo caso le previsioni per i prossimi tre mesi sono piuttosto rosee per questi due settori, mentre sono più negative per il settore delle costruzioni.

E passiamo al settore del commercio al dettaglio. In questo caso i commercianti si sono dichiarati abbastanza soddisfatti dell’andamento degli affari degli ultimi tre mesi e sono diminuiti gli insoddisfatti. In questo caso sia i piccoli che medi commercianti hanno visto un miglioramento. Per quanto riguarda le prospettive dei prossimi mesi c’è un po’ più di pessimismo, soprattutto per i piccoli commercianti che dichiarano previsioni più negative.

E chiudiamo la nostra carrellata con uno sguardo al settore bancario. Anche in questo caso negli ultimi tre mesi si registra un miglioramento nella valutazione della situazione degli affari, sia per quanto riguarda la clientela nazionale che per quanto concerne la clientela estera. Anche le prospettive dei prossimi mesi sono piuttosto positive, nonostante si segnala la possibilità di ridimensionamenti sul fronte occupazionale.

Insomma, guardando ai principali settori economici del Cantone Ticino le prospettive non appaiono troppo negative, anzi potremmo parlare di una certa stabilità. Naturalmente tutto dipenderà dall’evoluzione dell’economia europea e mondiale, essendo noi come tutti strettamente interdipendenti. Anche in questo caso, però le previsioni appaiono incoraggianti, con un’inflazione che sembra essere sempre più sulla via del rientro. Naturalmente ci vorrà ancora un po’ di tempo, ma se saremo in grado di bilanciare gli effetti negativi delle politiche monetarie, potremmo sperare in un nuovo periodo di crescita e benessere.

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Credit Suisse perde, UBS vince

Credit Suisse non naviga in buone acque. E questa non è una novità. Ci siamo occupati della gestione della seconda banca svizzera diverse volte in questi anni. E purtroppo sempre per parlare di errori nella sua strategia.

Dagli investimenti di Wirecard, Greensill Capital, Archegos Capital Managment agli scandali legati alla corruzione, per passare dai pedinamenti. Insomma, una cosa è certa: i dirigenti che si sono alternati alla conduzione della grande banca non hanno certo brillato per visione strategica. Il risultato non ha tardato ad arrivare e si è consolidato in una perdita nel 2022 di 7.3 miliardi di franchi. È dalla crisi del 2008 che non si registrava una situazione così grave e drammatica.

A detta degli analisti il risultato era abbastanza prevedibile; meno immaginabile il fatto che molti clienti avrebbero abbandonato la banca. A noi, in realtà non pare così strano. Certo, la FINMA che è l’autorità di vigilanza indipendente del mercato finanziario svizzero, ha da sempre giudicato la situazione della banca come stabile e solvibile. Ma questo non basta.

Le dichiarazioni di importanti ristrutturazioni che si traducono in migliaia di licenziamenti difficilmente potevano essere lette come sintomo di grande salute. Il crollo del valore delle azioni, che ricordiamo in dicembre sono arrivate al minimo storico di 2.65 franchi (nel maggio del 2007 prima della grande crisi finanziaria valevano oltre 80 franchi), non poteva lasciare indifferenti i clienti. Clienti che giustamente si preoccupano dei loro averi e per quanto possano essere stati legati a una banca, hanno deciso di spostare i loro fondi.

Non contenti di quanto accaduto leggiamo anche una indiscrezione del Financial Times che parla di un bonus di 350 milioni di franchi per 500 manager nel caso in cui riescano a realizzare la grande ristrutturazione prevista per risanare l’istituto bancario. Ora nessuno meglio di noi sa che le scelte per sanare gli errori della dirigenza precedente saranno molto dolorose: oltre 9’000 persone perderanno il loro posto di lavoro. I clienti se ne stanno già andando. Ci domandiamo, ma davvero si vuole dare ancora uno schiaffo del genere all’immagine di questa gloriosa banca proponendo questo genere di premio fatto sulle spalle di migliaia di collaboratori? A loro la nostra massima solidarietà.

Nel frattempo, forse perché agli dei piace giocare con gli uomini, UBS, la più grande banca svizzera, ha annunciato un utile netto di 7.6 miliardi di dollari, il più alto da 16 anni ad oggi…

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“Tesoro mi si sono allargati i ragazzi”. La Coca Cola cresce e torna al mezzo litro

In questi mesi si è parlato molto dell’inflazione che si vede. In alcuni Paesi l’aumento generalizzato dei prezzi ha raggiungo persino variazioni del 10% rispetto all’anno scorso. Fortunatamente i dati degli ultimi mesi confermano se non un ritorno ai prezzi precedenti, quanto meno un rallentamento degli aumenti. Oggi però noi prendiamo spunto da una notizia di attualità per tornare su un tema particolare. La Shrinkflation. La Shrinkflation è un’inflazione nascosta e che decidono i produttori: riducendo gli imballaggi o la quantità di prodotti venduti, senza ridurne il costo per l’acquirente, di fatto causano un aumento dei prezzi.
Questo succede perché di solito i produttori conoscono il concetto dell’elasticità che misura la sensibilità della quantità di un bene acquistato rispetto alla variazione di un’altra variabile che può essere il prezzo, il reddito, il prezzo di un bene che si consuma insieme ad un altro,… in parole povere si è in grado di capire se le persone ridurranno l’acquisto del bene al variare del suo prezzo. Saremmo tutti tentati di dire che è chiaro che all’aumentare del prezzo la quantità diminuisce, ma non è così per tutti i beni. Per esempio se il prezzo dei farmaci di cui abbiamo bisogno per sopravvivere, come può essere l’insulina, aumenta, noi non riduciamo il consumo. Ma lo stesso succede con i generi alimentari di prima necessità o con la benzina. Al contrario, esistono beni che sono molto più sensibili al prezzo, per esempio le bevande gassate. È per questa ragione che di solito si riduce il contenuto, ma non si aumenta visibilmente il prezzo.
Nel nostro articolo del 10 marzo del 2021 intitolato “Tesoro mi si sono ristretti i prodotti. Le confezioni si rimpiccioliscono, i prezzi no” parlavamo del caso di Coca Cola. Allora in Svizzera era stata introdotta da circa due anni una bottiglietta di questa bevanda zuccherata rimpicciolita rispetto alla grandezza standard, ma con lo stesso prezzo di quella precedente. Abbiamo quindi comperato una bottiglietta di Coca Cola da 450 millilitri, pagandola come quella di 500 millilitri. Sicuramente è stata una buona cosa per la nostra salute, data la grande quantità di zuccheri presenti in questa bevanda, non per il nostro portafoglio.
Ora leggiamo che Coca Cola Svizzera ha deciso di fare un passo indietro e tornare al formato da mezzo litro. Non sappiamo ancora se ne aumenterà il prezzo, ma possiamo intuire che alcune ragioni abbiano spinto l’azienda a fare un passo indietro. Sicuramente la piccola dimensione del mercato svizzero ha giocato un ruolo, come anche il fatto che negli stessi supermercati si poteva trovare per lo stesso prezzo la Coca Cola “svizzera” da 450 millilitri accanto alla Coca Cola “tedesca” da 500 millilitri. Probabilmente anche il rapporto con i fornitori può aver avuto un peso. Essi producevano un prodotto specifico, la bottiglietta da 450 millilitri, solo per un cliente e quindi potevano avere una forza contrattuale maggiore.
Insomma, non sappiamo per quali ragioni vere Coca Cola abbia fatto un passo indietro. Speriamo solo che con la scusa dell’aumento generalizzato dei prezzi, non sia l’occasione per vederne raddoppiare anche il suo.

La versione audio: “Tesoro mi si sono allargati i ragazzi”. La Coca Cola cresce e torna al mezzo litro

Debito pubblico fuori controllo?

Il tema delle finanze pubbliche in particolare del debito è tornato di estrema attualità. Dal quasi fallimento tecnico degli Stati Uniti al Canton Ticino il soggetto è lo stesso.
Il 19 gennaio il Dipartimento del Tesoro americano è dovuto intervenire con delle misure speciali per poter garantire la spesa pubblica. Questo è accaduto perché proprio quel giorno il paese ha raggiunto il tetto massimo di 31.400 miliardi di dollari (29.000 miliardi di franchi) che il Congresso aveva fissato. Spieghiamo che negli Stati Uniti il sistema è un po’ diverso rispetto al nostro. Il Congresso fissa annualmente un limite al debito pubblico, limite oltre il quale non è più possibile emettere le obbligazioni di Stato. Le obbligazioni di Stato sono semplicemente dei prestiti che lo Stato chiede a cittadini, banche, imprese che vogliono sottoscriverli offrendo in cambio un tasso di interesse. Ora, il 19 gennaio 2023 questo limite è stato raggiunto e questo significa l’impossibilità di chiedere ulteriori prestiti. La politica dovrà trovare un accordo per aumentare nuovamente il tetto senza dimenticare tuttavia misure o di contenimento della spesa o di aumento delle entrate.
Il caso del Canton Ticino è un po’ diverso: l’allarme è scattato non tanto perché si sia raggiunto un tetto massimo al debito, quanto piuttosto perché il preventivo per l’anno 2023 votato dal parlamento risulta oggi, dopo nemmeno un mese dall’inizio dell’anno, già non realistico. Il bilancio dello Stato è fatto come quello di qualunque famiglia. Ci sono delle entrate e ci sono delle uscite. Nel caso del Canton Ticino è stato commesso un grave errore: tra le entrate dello Stato sono stati contabilizzati quasi 140 milioni di franchi che avrebbe versato la Banca Nazionale (BNS). Ci permettiamo di definire questo errore come grossolano visto che l’andamento dei conti della BNS era già noto alla classe politica. In aggiunta la politica ci ha messo il suo zampino: oltre a queste entrate mancheranno anche una parte delle entrate dell’imposta di circolazione e peseranno sulle spese le deduzioni dei premi cassa malati aggiuntive. Per farla breve, il deficit (la differenza tra le entrate e le uscite dello Stato) potrebbe passare dagli 80 milioni di franchi stimati ai 240 milioni.
Lo abbiamo detto più volte: le finanze pubbliche devono essere gestite in maniera seria e giudiziosa. Esattamente come deve fare qualunque padre e madre di famiglia che mese dopo mese deve far quadrare i conti, anche la politica deve assumersi questa responsabilità. Diventa troppo facile aumentare le spese senza preoccuparsi di dove reperire i fondi, rifiutare a priori controlli esterni che mettano ordine alla spesa pubblica e voler ridurre le entrate per guadagnare consensi.
La gestione delle finanze pubbliche deve essere seria e giudiziosa perché questa è l’unica ricetta per garantire uno Stato forte e solidale.

La versione audio: Debito pubblico fuori controllo?

La ragion d’essere della Banca Nazionale Svizzera

La Banca Nazionale Svizzera l’anno scorso ha perso oltre 130 miliardi di franchi e tutta la classe politica, da destra a sinistra, si è arrabbiata. Ma c’è veramente ragione per lamentarci dell’operato della nostra banca centrale?
Superate le gravi turbolenze degli anni ’30, gli Stati hanno capito l’importanza di dover intervenire tempestivamente sull’andamento economico per contenere l’ampiezza degli sbalzi del ciclo economico. Così a partire dagli anni ‘50 i governi e le banche centrali hanno iniziato a utilizzare gli strumenti fiscali e monetari che consentono di influenzare l’andamento generale dell’economia, il comportamento dei consumatori e dei produttori, nonché le relazioni commerciali con l’estero.
Il governo mette in atto la politica fiscale che si basa sul prelievo delle imposte e sulla spesa pubblica. La banca centrale si preoccupa della politica monetaria che consiste principalmente nella manipolazione dell’offerta di moneta, dei tassi di interesse e dei termini del credito. Le due politiche comportano vantaggi e svantaggi che fanno sì che la prima sia più indicata per il rallentamento economico e la disoccupazione. La politica monetaria invece è più efficace nei momenti di surriscaldamento e serve a contrastare la crescita dei prezzi (inflazione). Oltre a questo obiettivo le banche centrali devono garantire la stabilità del sistema dei pagamenti. È chiaro a questo punto che il compito della Banca Nazionale non è quello di fare degli utili né per sostenere le decisioni prese dalle autorità politiche e neppure per contribuire alle assicurazioni sociali come chiederebbe qualcuno. La Banca Nazionale deve preoccuparsi principalmente della stabilità monetaria e di quella dei prezzi; ed è quello che ha fatto anche l’anno scorso.
Se si guarda al passato, i vertici della banca nazionale non hanno mai mostrato particolare entusiasmo per gli utili conseguiti: ai loro occhi era chiaro che essi rappresentavano solo delle riserve per quanto sarebbe accaduto negli anni a venire. E così è stato. La politica, al contrario, si è fatta ingolosire. Dopo aver modificato la legge per aumentare i contributi versati ai Cantoni, ha iniziato a fantasticare sull’uso dei profitti. Dalla politica ambientale a quella previdenziale, le proposte non sono mancate. Ma vi è stato un errore di fondo. La Banca Nazionale è un ente autonomo che non dipende dalla politica e che soprattutto non deve essere utilizzato per finanziare le sue decisioni. Così, ci rincresce dirlo, ma sta ai Cantoni e ai parlamentari fare scelte politiche che si autofinanzino o se non lo ritengono necessario, aumentare il debito pubblico. Queste sono responsabilità della politica che nulla hanno a che vedere con quelle della Banca Nazionale che ha svolto e sta svolgendo il suo ruolo.

L’Osservatore, 21.01.2023

La ragion d’essere della Banca Nazionale Svizzera

I disoccupati che non si vedono e non si contano

Lo sappiamo. Ogni volta che la Segreteria di Stato dell’Economia (SECO) pubblica i dati sulla disoccupazione il nostro stupore aumenta.

Non si tratta di distorsione della realtà oppure di percezione sbagliata da parte del pubblico, come qualche “esperto” vuole farci credere. Lo diciamo da parecchio tempo: la statistica ufficiale della SECO conteggia esclusivamente il numero di persone iscritte presso gli uffici regionali di collocamento. E questo non è un buon indicatore dello stato di salute del mercato del lavoro in Ticino. Perlomeno non è un indicatore sufficiente a trarre conclusioni tanto ottimistiche.

Naturalmente la SECO non ha nessuna intenzione di nascondere i fatti, né intende dipingere una realtà più rosea del vero. Questo indicatore, ossia il numero di persone iscritte agli URC, dà le informazioni che contiene e che gli sono richieste: cioè esso enumera esclusivamente le persone in cerca di lavoro che sono anche iscritte a un ufficio di collocamento. È un indicatore, quindi, reale ma parziale, anzi parzialissimo.

La domanda che dovrebbero farsi commentatori e analisti che spesso utilizzano questi indicatori a scatola chiusa è un’altra: sono davvero rappresentativi della situazione ticinese?

La risposta breve è no.

E non bisogna essere luminari o specialisti per dare questa risposta, basta vivere e conoscere il territorio. Ambienti di diversa estrazione amano diffondere narrazioni appaganti, gratificanti o anche soltanto analgesiche. Non solo siamo in presenza di una quasi completa occupazione. Addirittura, in Ticino, avremmo un mercato e un’economia che non trova i profili altamente qualificati che cerca. E, ahinoi, non li trova nonostante la fatica e l’impegno che mettiamo nella formazione giovanile (per non parlare della fatica e dell’impegno di quei giovani medesimi).

Ma questa è appunto una narrazione, non la realtà del Canton Ticino. I nostri giovani qualificati, capaci e competenti si armano di bagagli e di biglietto del treno per andare a lavorare oltre Gottardo dove sono visti per quello che sono: giovani in gamba, con le qualifiche necessarie e la necessaria competenza.

Qui da noi, i nostri cinquantenni che perdono il posto di lavoro e cercano un impiego che ne riconosca esperienza e capacità, trovano solo porte chiuse. La situazione sta diventando talmente invivibile in questo cantone che persino alla fine della vita professionale con quanto messo da parte negli anni e con quanto percepito dai sistemi previdenziali non si riesce più a vivere in questo territorio. Centinaia di persone prossime al pensionamento stanno pianificando la loro partenza.

Di fronte a questa situazione cosa fa la politica? Poco, o niente. Si narrano la storia di un cantone innovativo, competitivo, culla del progresso tecnologico e all’avanguardia in Svizzera se non addirittura in Europa. Peccato che tutti i giorni quando ci alziamo, la maggioranza di noi, fa i conti non con le storie ma con la realtà.

E la realtà è ben diversa. Ma attenzione questo non significa che tutto sia perduto, anzi. Abbiamo tutte le possibilità e le potenzialità per cambiare, dobbiamo solo volerlo. Ma dobbiamo avere la volontà, come prima cosa, di vedere la realtà e smetterla di credere alle favole. Non siamo nel paese del Bengodi, non siamo la Silicon Valley. Siamo un cantone periferico, meno competitivo di quanto potrebbe e dovrebbe essere e le cui classi dirigenti faticano a rendersene conto. Oppure, non vogliono farlo.

La versione audio: I disoccupati che non si vedono e non si contano

Il Natale degli Invisibili

Il periodo di Natale è molto bello e rilassante per chi ha una famiglia vicino e può passarlo con persone care. E per chi non ha preoccupazioni economiche eccessive.
Molti invece vivono male queste feste perché hanno perso qualcuno e mai come a Natale la mancanza si fa sentire.
Altri ancora, e sono tanti, sono confrontati con difficoltà economiche che diventano particolarmente dolorose in questi giorni sfavillanti di luci, con l’abbondanza ostentata nelle vetrine.
Secondo l’Ufficio federale di statistica, oltre 770 mila persone vivono in povertà nel nostro paese. E oltre a loro ci sono quasi altrettante persone che vivono con il minimo indispensabile. Sono quasi un milione e mezzo di persone per cui il Natale è un problema nel problema. E anche in Ticino la situazione è molto difficile. Nel 2020 oltre 50 mila persone erano povere e altrettante a rischio di povertà.
Ancora di recente i media hanno parlato dell’aumento delle mense dei poveri nel nostro cantone. Perché quando si parla di povertà si parla anche “semplicemente” del fatto di riuscire a mettere qualcosa sotto i denti.
Una parte della popolazione pensa di mettersi a dieta subito dopo le feste. Un’altra parte penserà a come mangiare qualcosa questa sera.
Le disuguaglianze ci sono nel nostro paese, eccome. Sono spesso nascoste ai nostri occhi e diventa tabù anche solo il fatto di parlarne.
Sicuramente il modello economico svizzero è un modello di successo ma molte persone sono lasciate indietro, non ce la fanno, vivono ai margini e non sono nemmeno presenti nel dibattito pubblico. Sono a tutti gli effetti invisibili.
Molte altre persone, pur non essendo povere secondo la definizione ufficiale, hanno difficoltà notevoli a far quadrare i conti. Per loro, una spesa inattesa può essere un problema enorme. Vivono, queste persone, in una situazione continua di incertezza: la congiuntura attuale rischia di farne cadere molti sotto la temuta soglia della povertà “ufficiale”.
Sono cittadine e cittadini come noi, che non seguono i dibattiti politici perché hanno smesso di aspettarsi qualsiasi cosa. La politica non si occupa di loro perché spesso non votano da anni, quando ne hanno il diritto. Eppure esistono e diventano più numerosi in periodi di crisi economica e aumenti dei prezzi.
Non facciamoci ingannare dai dati appena pubblicati. Se nel 2021 le persone che hanno chiesto gli aiuti sociali non sono aumentate è solo perché erano in vigore ancore le misure speciali di sostegno a causa della pandemia. Ora che queste misure sono finite vediamo che i fallimenti delle aziende aumentano e con essi i licenziamenti e la povertà.
A Natale qualcuno si sente in obbligo di porgere un pensiero caritatevole. Altri fanno un vero e grande lavoro di assistenza e vicinanza. Ma per il resto dell’anno, di questo iceberg non si vede nemmeno la punta.
E sappiamo quanto siano pericolosi gli iceberg, non solo per le navi ma anche per una società che si racconta come opulenta e soddisfatta ma nasconde sotto la superficie ciò che non corrisponde a questa narrazione.
Occuparsi di questa parte della società è essenziale per chi prende decisioni. Così come cercare di affrontare i meccanismi che producono la povertà, specialmente oggi, alla vigilia di un’epoca economicamente difficile e politicamente instabile.

Versione audio: Il Natale degli Invisibili

Sotto l’albero? Le previsioni del KOF

Anche quest’anno il KOF ci fa il suo regalo e mette sotto l’albero di Natale le previsioni economiche. Il KOF, che è il centro di ricerche congiunturali del politecnico federale di Zurigo, ci presenta i dati per il 2023 e per il 2024.

In generale constatiamo che a livello mondiale il Prodotto Interno Lordo (PIL), che ricordiamo è un indicatore del valore della produzione di beni e servizi e in un certo senso anche del benessere economico, mostra segni di rallentamento rispetto alla crescita del 2021 (anno post-Covid) e del 2022.
In effetti, il PIL mondiale nel 2023 aumenterà dello 0.5%, quello dell’Unione Europea e degli Stati Uniti dello 0.3% e quello cinese del 4.5%. Il PIL in Svizzera invece crescerà dell’1% (senza conteggiare l’effetto degli avvenimenti sportivi internazionali). La crescita dipenderà anche l’anno prossimo dal consumo privato (+2%), dagli investimenti (+1.3%) e dalle esportazioni (+2.1%). La spesa pubblica, come era prevedibile dopo anni di grandi interventi, si ridurrà del 2.9%. Detto questo però dobbiamo fare alcune considerazioni. Primo: le previsioni dicono che il settore delle costruzioni soffrirà (-0.7%), mentre terranno gli investimenti in macchinari e beni strumentali (2.3%). Siamo dispiaciuti per il settore delle costruzioni, ma la situazione poteva essere più preoccupante se a mostrare un andamento negativo fosse stato il settore dei macchinari. In effetti, questo settore indica il sentimento degli imprenditori. Se si aspettano un andamento positivo e quindi di aumentare le vendite, aumenteranno le spese in macchinari necessari per produrre. Se invece hanno un sentimento negativo, non sostituiranno nemmeno i macchinari che diventano vecchi oppure che si rompono. Secondo: anche il settore del commercio estero non ci fa dormire sonni troppo tranquilli. In effetti, la crescita sia dei beni che dei servizi venduti all’estero appare piuttosto ridotta rispetto agli anni passati. Questo dipende dalla situazione economica degli altri Paesi: se ci sono difficoltà economiche, non compreranno i nostri prodotti. Ma anche le importazioni sono da monitorare. Ricordiamo che la Svizzera non ha grandi materie prime per cui per produrre necessita di comperare dal resto del mondo materiali e prodotti semilavorati. Per questa ragione se le importazioni rallentano significa che produrremo meno e che quindi esporteremo meno.

Ma perché gli economisti sono ossessionati dall’analisi del prodotto interno lordo? Semplice perché dietro al prodotto interno lordo ci sono i concetti di produzione, occupazione e reddito. Se il PIL non aumenta a sufficienza, vuol dire che non bisogna produrre. Se non bisogna produrre, le aziende non hanno bisogno di dipendenti E questo significa licenziamenti. Senza un lavoro non si ha un reddito. Questo implica per lo Stato due fatti: da una parte aumentano le spese per le assicurazioni sociali (per esempio l’assicurazione disoccupazione), dall’altra parte si riducono le entrate (se si riduce il reddito si pagano meno imposte).
Sappiamo che il PIL deve crescere a un livello tale da compensare l’aumento della forza lavoro e l’aumento del progresso tecnologico. Se questo avviene il tasso di disoccupazione rimane stabile. Guardando i dati del 2023 e del 2024 possiamo dire che fortunatamente l’impatto sul mondo del lavoro sarà contenuto.

Tutte queste previsioni però si avvereranno a patto che si verificheranno le condizioni immaginate dal KOF: un’inflazione contenuta, un approvvigionamento energetico garantito e la fine dei lockdown legati alla pandemia.

Che dire a questo punto? Beh, caro Babbo Natale potresti fare in modo che le previsioni del KOF si avverino?

Versione audio: Sotto l’albero? Le previsioni del KOF
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