Il divario salariale tra Ticino e Svizzera non si riduce, anzi si amplia: nel 2024 aumenta al 18,7%, contro il 17,6% del 2022. Non è un salto brusco, ma conferma una dinamica sfavorevole. Le ragioni sono strutturali. Storicamente il mercato del lavoro ticinese si è sviluppato senza una vera fase industriale e ha puntato su servizi, commercio e turismo, settori con salari mediamente più bassi e più sensibili all’andamento economico. A ciò si aggiunge la posizione di frontiera: ogni giorno entrano circa 80 mila frontalieri che accentuano la concorrenza sui salari e rendono più difficile garantire impieghi stabili e ben retribuiti ai residenti. La struttura occupazionale rimane fragile, con molti posti a basso valore aggiunto e una quota crescente di lavoratori che non raggiunge un reddito sufficiente, tra salari bassi, part-time non desiderati e forte precarietà. È però importante precisare che, se consideriamo solo i residenti, il divario con la media svizzera scende al 10,7%. La composizione della forza lavoro conta: un terzo dei lavoratori attivi è frontaliero e occupato in settori dove la pressione competitiva è maggiore. I dati analizzati riguardano oltre 130’000 posti a tempo pieno, equivalenti a quasi 154’000 salariati. Guardando alla distribuzione salariale, il 10% che guadagna meno percepisce 3’710 franchi, il salario mediano (quello che divide a metà la popolazione) è di 5’393 e il 10% più alto arriva a 9’620. I salari crescono, ma non in modo uniforme: si passa dall’aumento dell’1,5% del salario mediano al 3,6% dei salari più alti. Accanto a questo quadro, alcuni settori registrano una riduzione dei salari rispetto al 2022. Non è ancora una tendenza, ma sono segnali da seguire con attenzione. La costruzione di edifici (circa 5’800 posti a tempo pieno) mostra un calo generalizzato; nell’industria metalmeccanica di base (3’700 impieghi a tempo pieno) la diminuzione riguarda quasi tutte le fasce. Anche il commercio all’ingrosso, un comparto di 10’000 posti, vede riduzioni nelle retribuzioni più basse e più alte. Un andamento simile emerge nei servizi finanziari non assicurativi (3’500 posti) e nelle attività di ricerca e fornitura di personale, dove il calo è quasi ovunque. L’istruzione (oltre 1’300 impieghi) segna una riduzione diffusa mentre nei servizi sanitari, quasi 7’800 posti, la contrazione tocca soprattutto i salari più elevati. Nel complesso i salari non crollano, ma alcuni settori arretrano. Per il Ticino la vera sfida è restare agganciato al resto della Svizzera. Per questo serve affrontare le cause strutturali del mercato del lavoro e proteggere ciò che funziona, soprattutto in vista di una possibile nuova fase dei rapporti con l’Europa: il Cantone non può permettersi ulteriori slittamenti. I dati non parlano di emergenza, ma indicano con chiarezza la necessità di una rotta solida.
La parità salariale tra uomini e donne in Svizzera non è stata ancora raggiunta. A confermarlo, anche quest’anno, sono i dati pubblicati dall’Ufficio federale di statistica. Nel 2024, il salario mediano degli uomini è stato di 90’800 franchi. Quello delle donne si è fermato a 80’000 franchi, ovvero il 12% in meno. Ma il divario non riguarda solo i salari. Se guardiamo al tasso di attività professionale, cioè la percentuale di persone occupate o in cerca di lavoro, gli uomini superano le donne in tutte le fasce d’età, con uno scarto di circa 10 punti percentuali. Va però detto che la partecipazione femminile è cresciuta molto negli anni e nella fascia tra i 15 e i 24 anni la differenza è oggi minima. Anche il tasso di disoccupazione resta più alto tra le donne. Una delle ragioni è che le donne sono spesso impiegate in settori meno qualificati e meno protetti che risentono prima delle difficoltà economiche. Ancora più marcato è il divario nella sottoccupazione, cioè tra chi lavora ma vorrebbe lavorare di più. Nel 2024, il dato era del 2,8% tra gli uomini, ma saliva al 7,3% tra le donne. Il valore più alto si registra nella fascia tra i 25 e i 54 anni, con un picco dell’8%. E quando ci sono figli, le cifre aumentano ulteriormente. Segno che la genitorialità continua a pesare in modo asimmetrico sul percorso lavorativo femminile. I dati sul lavoro a tempo parziale confermano questa tendenza. La presenza di figli resta una delle principali ragioni per cui le donne scelgono il tempo parziale. Ma c’è anche un segnale incoraggiante: dal 2010 al 2024, la quota di padri che lavorano a tempo parziale è raddoppiata, passando al 15%. Un dato che suggerisce un’evoluzione nel ruolo paterno e una maggiore condivisione delle responsabilità familiari. Anche tra le coppie si nota un cambiamento: quasi il 9% oggi sceglie un modello in cui entrambi i partner lavorano a tempo parziale, mentre nel 2010 questa scelta era fatta da meno del 4%. Infine, cresce anche il contributo economico delle donne al reddito familiare. Quando il figlio più piccolo ha tra i 4 e i 12 anni, le madri partecipano in media per il 30% al reddito del nucleo, sette punti percentuali in più rispetto a dieci anni fa. Se però il figlio ha meno di quattro anni, la quota resta stabile al 25%. In sintesi, il quadro resta segnato da disuguaglianze, ma non mancano i segnali di cambiamento. I modelli lavorativi e familiari si stanno evolvendo. Sempre più padri si assumono una parte attiva nella cura dei figli e cresce la consapevolezza che la famiglia è una responsabilità condivisa. La maternità non dovrebbe più rappresentare un ostacolo, ma rientrare in un equilibrio costruito insieme. La strada verso la parità è ancora lunga, ma oggi, finalmente, non si percorre più da soli.
L’anno sta volgendo al termine e quindi non potevamo proprio evitare di parlare… dell’oroscopo! Ma naturalmente intendiamo quello economico, quindi delle previsioni per il prossimo anno.
In realtà, purtroppo già i dati di avvicinamento alla fine dell’anno non sono di buon auspicio: abbiamo letto, per esempio, che le esportazioni svizzere nel mese di novembre sono rallentate fortemente. Abbiamo anche visto che molti istituti prevedono per quest’anno che le famiglie spenderanno meno nel periodo natalizio e questo vuol dire che ci sarà un aumento dei consumi, ma meno forte rispetto a quello dell’anno scorso. Anche sul fronte dei salari, gli aumenti prospettati per l’anno prossimo non per forza compenseranno l’aumento dei prezzi, anche se fortunatamente questo dovrebbe essere contenuto (+0.3%).
Anche alla luce di questi fatti, la Segreteria di Stato dell’economia (SECO) ha rivisto al ribasso il tasso di crescita del prodotto interno lordo (PIL) sia per questo 2024 (dall’1.2% allo 0.9%) che per il prossimo anno (dall’1.6% all’1.5%). Tra i fattori di maggiore incertezza, il gruppo di esperti cita la situazione del commercio internazionale che potrebbe subire rallentamenti importanti a seguito dell’elezione di Donald Trump vista la sua politica piuttosto protezionista tesa a tutelare il mercato americano. Ma anche i conflitti in Medio Oriente e in Ucraina aumentano l’instabilità economica.
In Svizzera sarà ancora il consumo delle famiglie (+1.6%) a trainare la crescita del PIL, mentre la spesa pubblica crescerà sì dell’1.2%, ma meno di quest’anno (1.8%). Il settore delle costruzioni dovrebbe proseguire il suo trend positivo (+2.3%), mentre il rallentamento economico è confermato anche da una crescita piuttosto modesta degli investimenti in beni di equipaggiamento, quindi in macchinari e strumenti per la produzione (+1.0%). Sul fronte delle esportazioni alle possibili politiche protezioniste si aggiunge la modesta crescita dell’economia europea e in particolare di quella tedesca. A tal proposito, proprio poche ore fa la Volkswagen è riuscita a trovare un accordo con i sindacati per la riduzione di 35’000 posti di lavoro.
Tutto questo clima di incertezza farà sì che l’economia elvetica non crescerà abbastanza per mantenere stabile il tasso di disoccupazione che aumenterà per l’anno prossimo al 2.7%. Vediamo quindi che pur non essendo in una situazione di crisi economica, la fase di crescita rimane piuttosto contenuta. E come sempre succede in questi casi, la preoccupazione degli economisti non sta tanto nella fissazione sulla crescita del PIL, quanto sulle conseguenze in termini di posti di lavoro e di salari versati. La nostra economia si fonda ancora principalmente per la maggioranza delle persone sul reddito da lavoro e se viene a mancare questo, vengono a mancare le condizioni per una vita dignitosa.
Detto ciò, il Natale è un periodo di speranza, per cui il nostro augurio è che in questo caso gli esperti della SECO prendano una bella cantonata e che il PIL torni a crescere in maniera soddisfacente.
Come stanno le principali economie industrializzate? Ci sarà qualche bel regalo sotto l’albero di Natale o i pacchi resteranno vuoti?
I dati sull’inflazione, nonostante un leggero aumento a novembre, restano rassicuranti. Negli Stati Uniti l’indice dei prezzi al consumo su base annua è salito al 2.7%, nell’Eurozona al 2.3%, mentre in Svizzera si attesta allo 0.7%. Questi ultimi sono ben lontani dai picchi del 3.5% dell’agosto 2022 o del 3.4% di febbraio 2023.
L’ottimismo sui prezzi ha spinto la Banca Nazionale Svizzera (BNS) e la Banca Centrale Europea (BCE) a ridurre i tassi di interesse di riferimento. La BCE ha tagliato di 0.25 punti percentuali, portandoli tra il 3% e il 3.4%. La BNS ha invece sorpreso con una diminuzione di 0.5 punti, fissando il tasso allo 0.5%. Questa mossa potrebbe anche mirare a frenare la forza del franco svizzero, ancora troppo elevata per non penalizzare le esportazioni e il turismo. Alcuni analisti non escludono un ritorno ai tassi negativi entro la fine del prossimo anno, anche se è bene rimanere prudenti, considerata la volatilità del contesto economico globale. Anche la Federal Reserve, attesa alla sua prossima riunione, potrebbe seguire questa tendenza di ribasso.
Se i cittadini possono beneficiare dei tassi più bassi, i dati sulla crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) lasciano meno spazio alla soddisfazione. Negli Stati Uniti, il PIL del terzo trimestre ha registrato un solido +2.8%, confermando la ripresa dell’economia americana. L’Eurozona e la Svizzera, invece, arrancano: il PIL europeo è aumentato di appena lo 0.4%, mentre quello svizzero si ferma a un modesto +0.2%.
Per il 2025, le previsioni non sono molto migliori: l’Unione Europea dovrebbe crescere attorno all’1.1%, mentre la crescita Svizzera è attesa tra l’1.1% e l’1.5%. Il quadro resta fragile, influenzato da fattori come i conflitti in Ucraina e in Medio Oriente, i rincari energetici e le tensioni commerciali, che continuano a gravare sulle economie occidentali.
Sul fronte occupazionale, il terzo trimestre mostra una certa stabilità. L’occupazione europea è cresciuta dello 0.2% su base trimestrale, mentre in Svizzera l’aumento su base annua è stato dello 0.3%. Tuttavia, non mancano segnali di allarme: il tasso di disoccupazione è tornato a salire sia negli Stati Uniti sia in Svizzera nell’ultimo mese.
Tirando le somme, cosa possiamo augurarci per questo periodo natalizio? In uno scenario ideale, i consumatori potrebbero ritrovare fiducia, contribuendo a sostenere i consumi. Ma è evidente come l’incertezza economica e il costo della vita spingano molti a una maggiore prudenza. Auguriamoci che il 2025 porti una ventata di ottimismo e un ritorno a condizioni economiche più favorevoli. Del resto, il periodo delle festività dovrebbe essere un’occasione per guardare al futuro con un pizzico di speranza.
I ticinesi sono sempre più poveri. I dati di Eurostat appena pubblicati non lasciano, purtroppo, alcun dubbio: il Canton Ticino è oggi una delle regioni europee a maggior rischio di povertà o esclusione sociale. Nella graduatoria, la nostra regione si trova in condizioni peggiori rispetto alla maggior parte delle aree di Grecia, Romania, Ungheria, Croazia, Polonia, Italia e Spagna. A livello nazionale, la Svizzera si attesta intorno alla media dell’Unione Europea, con il 19.5% della popolazione a rischio povertà o esclusione sociale (contro una media UE del 21,4%). Parliamo di una persona su cinque. Nei Paesi Bassi, Finlandia, Norvegia, Austria, Danimarca e Svezia, la situazione è migliore di quella nazionale svizzera e già questo dovrebbe farci riflettere. Ma il quadro diventa ancora più drammatico quando si osservano i dati regionali: in Ticino, nel 2023, oltre il 35% della popolazione vive a rischio povertà o esclusione sociale. Un dato spaventoso: più di una persona su tre non guadagna abbastanza per vivere al livello del resto della sua comunità di appartenenza. In questa classifica, il Ticino è tristemente posizionato al 225º posto su 243 regioni analizzate, in sostanza solo diciotto fanno peggio di noi in tutta Europa. Naturalmente, confrontare regioni diverse tra loro senza riferirsi a grandezze assolute può avere dei limiti. Per esempio, l’Emilia-Romagna, la seconda regione italiana per benessere, ha “solo” il 7% di persone a rischio povertà, ma conta una popolazione di 4,5 milioni di persone contro le 350 mila del Ticino. O ancora, il livello assoluto di benessere può essere molto diverso tra le nazioni. E allora, se il confronto statistico tra regioni ci sembra avere dei limiti, analizziamo invece lo sviluppo della situazione ticinese nel tempo. Nel 2020, il rischio di povertà toccava meno di una persona su quattro (24.2%). In soli tre anni, siamo saliti al 35.1%. Una persona su tre. Purtroppo, come si vede, la situazione in Ticino è peggiorata drasticamente. E se le cose non cambiano, la situazione è destinata a peggiorare. Sono decenni che ricordiamo che i salari ticinesi sono il 20% più bassi della media svizzera, con differenze che toccano persino il 35-40% rispetto a regioni come Zurigo. A questa mancanza di reddito si aggiunge la beffa: i costi di molte voci essenziali nel nostro Cantone sono più elevati che nel resto della Svizzera. I premi cassa malati, per esempio, possono arrivare a essere il doppio rispetto ad altri cantoni. Sì, il doppio, avete letto bene. Anche le imposte di circolazione, le tariffe dell’energia elettrica, le tasse sul registro fondiario, le imposte immobiliari, e persino la benzina possono costare di più. I dati non mentono. I dati però sono aridi. Quando si parla con le persone, si tocca il lato umano di questa catastrofe sociale in via di compimento. Questa mattina, una gentile signora che faceva la spesa mi ha detto “Sa, signora Mirante, dobbiamo proprio fare tutti “economia” in questo momento. Per comprare un pezzo di formaggio ho confrontato il prezzo al chilo di tre marche diverse. Se le cose non cambiano, noi ticinesi siamo messi davvero male”. Sì, cara signora lei ha ragione. Anzi, già ora noi ticinesi siamo messi molto male…
Articolo pubblicato dai portali Ticinonline, Ticinonews, Liberatv,…
Estratto dell’intervista di Marija Milanovic, tvsvizzera.it – pubblicata il 02.07.2024
È recentemente uscita una notizia che all’apparenza non ha nulla di sorprendente: la natalità è calata nel canton Ticino. Una tendenza che riflette non solo quella elvetica, ma anche quella globale. Oltre alle ragioni più note (fattori economici e maternità sempre più tardive in primis), nel cantone italofono, secondo una recente analisi, la denatalità è influenzata anche dalla fuga di cervelli, anch’essa sempre più marcata. Il Ticino, insomma, sembra averle tutte: i salari sono i più bassi della Confederazione, gli aumenti di premi di cassa malati i più alti e molti studenti e studentesse che si recano in altri cantoni per studiare all’università, poi restano anche a viverci. La ragione spesso è che le condizioni lavorative sono migliori, sia a livello salariale che per quanto riguarda le opportunità professionali, come ci spiega anche Amalia Mirante, docente di economia politica, etica economica e storia del pensiero economico presso la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI) e l’Università della Svizzera italiana (USI): “Purtroppo il Ticino è in una situazione per cui molte e molti giovani – che non per forza sono solo quelli che hanno titoli accademici – sono costretti a cercare lavoro altrove”. Il fatto che il fenomeno della fuga di cervelli non interessi più soltanto chi ha una formazione di livello terziario, ma anche professionale, accentua le difficoltà del mercato del lavoro ticinese. “Si tratta di campanelli di allarme molto importanti”, aggiunge Mirante. A dimostrarlo anche l’esempio della giovane chef Dalila Zambelli. Con il titolo di miglior apprendista cuoca della Svizzera, la giovane si è vista rifiutare da decine di ristoranti del suo cantone natale e ha dovuto così optare per la Svizzera interna. Spiegava, lo scorso mese di dicembre, in un’intervista rilasciata al Corriere del Ticino, che, nonostante il settore della ristorazione ticinese denunci da anni carenze di personale, ha ricevuto solo risposte negative alle sue candidature. Situazione che l’ha spinta a traslocare a Zurigo: “È chiaro che mi sarebbe piaciuto trovare qualcosa in Ticino, ma ho bisogno di fare esperienza e per questo, quando mi si è presentata l’opportunità di andare [nella città sulla Limmat], non ho esitato (…) Sto imparando e crescendo, non solo professionalmente ma anche come persona”. Parola di una ragazza che, negli Stati Uniti, ha cucinato anche per Bill Clinton.
Carenza statistica I cervelli fuggono, si sa. Ma quanti? E dove? Per quanto tempo? Non è chiaro. “Le poche cifre che abbiamo a disposizione su questo fenomeno sono poco precise”, dichiara Mirante. “Non considerano per esempio i giovani che rimangono a lavorare fuori cantone dopo la formazione ma mantengono il domicilio in Ticino. Non viene nemmeno presa in considerazione una nuova forma di lavoro che sta prendendo piede [in particolare dopo la pandemia di Covid-19, ndr]: le persone lavorano una parte della settimana in Ticino e l’altra in un altro cantone”. Tendenze ed evoluzioni che fanno sì che il fenomeno sia molto più ampio di quello che emerge dalle statistiche. […]
Salari ticinesi fanalino di coda del mercato del lavoro svizzero Da anni i salari ticinesi risultano essere i più bassi del Paese e con il tempo il divario aumenta sempre di più. Nel 2022 il salario mediano1 elvetico per un posto a tempo pieno era di 6’788 franchi lordi al mese. Una remunerazione che varia fortemente a seconda delle regioni, della formazione, del ramo economico e del sesso. Il Ticino è risultato nuovamente essere il cantone dove si guadagna meno, con un salario mediano di 5’590 franchi.
Il fenomeno zurighese (ma non solo) dell’economia di aggregazione In effetti, a parte alcune eccezioni, i grandi nomi si trovano nella Svizzera interna e in quella francese, dove l’economia di agglomerazione è molto più radicata. IBM, Google, Nestlé, Microsoft hanno sedi nei grandi centri urbani elvetici. […]
Caro frontalierato… ma quanto mi costi? Uno dei fattori che influenzano maggiormente questa fuga di cervelli è quello del frontalierato. Stando alle ultime statistiche, le frontaliere e i frontalieri italiani che lavoravano in Ticino nel primo trimestre del 2024 erano 78’645, a fronte di una popolazione attiva residente pari a 176’000 persone. In altre parole, quasi un lavoratore su tre (31,6%) proviene da oltre confine. Perché questo è un problema? Perché molto spesso, a parità di funzione, un frontaliere o una frontaliera accettano condizioni salariali più vantaggiose per il datore di lavoro rispetto a lavoratrici e lavoratori indigeni. “La differenza tra i salari di residenti ticinesi e quelli frontalieri è del 20%. Una percentuale che può arrivare al 40% per le professioni meglio retribuite”, spiega Amalia Mirante. Si migra allora verso nord, alla ricerca di condizioni più favorevoli. Le e i ticinesi a nord del Gottardo, le e gli italiani a nord della frontiera. Prosegue Amalia Mirante: “Quello che succede è che l’Italia finanzia la formazione di persone qualificate, competenti e assolutamente capaci che poi vanno a lavorare in un’altra nazione”. Un problema che però riguarda anche il loro Paese di origine, che perde professionisti qualificati, proprio dopo aver investito del denaro per formarli. “La Germania qualche anno fa pensava di introdurre una tassa da far pagare ai medici tedeschi che andavano a lavorare in Svizzera”, ricorda la studiosa. Formare un medico, infatti, comporta un grande costo per un Paese. L’Italia si trova confrontata con lo stesso problema e proprio recentemente il ministro della Salute Orazio Schillaci ha proposto l’adozione di un piano d’incentivi fiscali per cercare di convincere professioniste e professionisti medici di rimanere in patria. Nella stessa direzione va anche la tanto discussa tassa sulla salute che prevede che i vecchi frontalieri paghino al sistema sanitario italiano tra il 3 e il 6% del loro stipendio netto. Contributi volti a finanziare i bonus per il personale sanitario italiano e limitare l’esodo di lavoratrici e lavoratori dalle regioni di frontiera.
Quali soluzioni? Non ci sono soluzioni immediate e sicure per cercare di arginare il fenomeno. Una sarebbe sicuramente quella di rendere più attrattivo il mercato del lavoro ticinese. [….] Non si è arrivati, insomma, a un punto di non ritorno, rassicura dal canto suo Amalia Mirante: “È tutto risolvibile. C’è potenziale per essere un cantone svizzero a tutti gli effetti”.
1 Per salario mediano s’intende che la metà degli stipendi è sopra la cifra indicata, l’altra metà è sotto. Non è quindi una media, su cui incidono maggiormente i singoli importi molto alti o molto bassi.
In Ticino, per molti il sogno di una vita migliore si sta dissolvendo come neve al sole. Lo suggeriscono i dati sui salari pubblicati dall’ufficio federale di statistica. Queste cifre confermano una tendenza che denunciamo da tempo. La teoria economica, con le sue promesse di prosperità legata alla crescita, sembra beffarsi di noi, lasciandoci a mani vuote. Un lieve aumento dei salari rispetto al 2020? Una misera consolazione, quando si scopre che i redditi più alti hanno subito tagli drastici. Un vero e proprio schiaffo per chi ha sempre dato il massimo, tra questi i residenti svizzeri che sono i più colpiti da questa diminuzione.
Non siamo di fronte a una semplice battuta d’arresto, ma a quella che potrebbe diventare, se non si fa nulla, una vera e propria emergenza sociale: nemmeno i salari dei lavoratori più qualificati, come chi ha una formazione superiore, sono al sicuro. I settori che annunciano aumenti sono pochissimi, ad es. la ristorazione, la maggior parte invece lamenta diminuzioni importanti dei salari. In generale, vediamo i salari scendere nelle attività manifatturiere, nei servizi finanziari e assicurativi, nelle attività legali e in quelle legate alla contabilità, nelle professioni tecniche e scientifiche e in quelle della sanità e socialità.
E poi c’è la favola della riduzione del divario salariale tra uomini e donne. La beffa oltre al danno: in realtà, si tratta di un’uguaglianza al ribasso, dove tutti perdono, senza eccezioni. Il differenziale si rimpicciolisce non tanto perché le donne guadagnano di più, quanto perché gli uomini guadagnano di meno. Questa parità al ribasso non è quella che vogliamo.
Forse adesso che la crisi tocca anche i lavoratori più “fortunati” che dovrebbero essere i meglio rappresentati politicamente, i partiti storici finalmente si decideranno a fare qualcosa in difesa dei nostri salari.
Ma data la paralisi politica degli ultimi anni, ci vorrebbe un miracolo. Si potrebbe cominciare smettendo di negare la gravità della situazione con narrazioni di comodo. Il Ticino ha un problema di salari che adesso tocca anche i lavoratori meglio qualificati. La classe politica deve smetterla di guardare dall’altra parte. I nostri concittadini meritano di meglio.
Questa settimana riprendiamo l’intervista fatta qualche settimana fa da Patrick Mancini, che ringraziamo, in merito ai salari e all’occupazione in Ticino. Tema su cui torneremo nei prossimi giorni, visti i dati pubblicati di recente che mostrano un ulteriore peggioramento nella creazione di posti di lavoro. In aggiunta, le notizie delle chiusure di diverse aziende e dei loro licenziamenti, non fanno altro che peggiorare una situazione difficile.
Freno alla spesa in Italia, il Governo tentenna di fronte al sondaggio di Berna. L’economista Amalia Mirante: «Ora alziamo i salari».
BELLINZONA – Freno alla spesa oltre confine. Meglio andarci piano. Ed è meglio che per ora il valore della spesa da dichiarare non venga dimezzato (da 300 a 150 franchi). È in sintesi quanto emerge dalla risposta del Governo ticinese alla consultazione lanciata da Berna ai Cantoni. Il testo lascia perplessa Amalia Mirante, economista ed esponente del movimento Avanti con Ticino&Lavoro.
Il Governo ticinese temporeggia sulla proposta del Consiglio federale. Preoccupante? «Io sono una grande sostenitrice del commercio locale. Va sostenuto in tutti i modi. Ma anche io sono contraria all’abbassamento della franchigia per chi fa la spesa in Italia. Principalmente perché ci sono famiglie ticinesi che purtroppo hanno davvero bisogno di fare la spesa oltre confine. È questo che mi preoccupa».
Il Governo nella sua lettera parla di un momento storico delicato. «Finalmente anche il Governo ammette che in Ticino ci sono problemi di reddito e di potere d’acquisto. E questi si sono ulteriormente aggravati negli ultimi anni».
Questa ammissione che valore ha? «Dopo questa ammissione dovrà seguire per forza qualcosa di concreto. La popolazione è preoccupata e ha bisogno di segnali chiari e forti e di misure concrete da parte delle autorità. Le difficoltà sono note: redditi troppo bassi, mercato del lavoro sofferente, concorrenza fortissima generata dal frontalierato, giovani che non tornano dopo gli studi, persone che partono per sempre. La scelta volontaria di andare via è legittima. Diventa un problema quando non è più una scelta libera».
Domanda provocatoria: il Ticino a lungo andare rischia di diventare un posto in cui si nasce per poi partire? «La tendenza se non interveniamo è quella. Siamo confrontati con tantissimi giovani che se ne vanno e fanno famiglia altrove. Con decine di migliaia di frontalieri. Con anziani in pensione che fanno sempre più fatica e che iniziano a pensare di trasferirsi all’estero per vivere con un po’ più di tranquillità finanziaria».
Perché i politici non prendono misure concrete? «Purtroppo finora il lavoro non è stato la priorità del nostro Governo. Si accampano mille scuse per evitare di parlarne concretamente. Sappiamo tutti di non avere salari attrattivi. O di avere uffici regionali di collocamento da riformare. Vogliamo parlare della necessità di qualificare il personale residente con una vera politica di formazione continua? E gli apprendisti? Stato e aziende non sono sufficientemente in contatto. Eppure il Ticino è pieno di aziende brillanti che potrebbero emergere».
Riformuliamo la domanda: perché non si muovono le acque? «In Parlamento si perde un sacco di tempo. I tempi di discussione sono troppo lunghi. Si passano giornate intere solo ad ascoltare le posizioni di vari partiti. Non c’è concretezza. E intanto poi salta fuori che il preventivo del Cantone è disastroso».
Torniamo ai commerci locali. Enzo Lucibello, presidente della DISTI, ha definito “uno schiaffo” la lettera del Governo. «Lo ripeto: i commerci locali vanno sostenuti a spada tratta. Ma bisogna agire a vari livelli. Non creando inutili paletti a chi già sta male. I ticinesi devono avere salari dignitosi per potere spendere sul proprio territorio. Quello dei salari non è più un tema da posticipare».
Intevista di Patrick Mancini – pubblicata su TIO 17.02.2024
L’indicatore di deprivazione materiale e sociale misura quante persone hanno problemi finanziari tali da non potersi permettere di comprare cose di base o di fare attività normali. Ad esempio, cambiare vestiti vecchi, fare attività a pagamento nel tempo libero o avere un po’ di denaro ogni settimana per loro stessi. Quest’anno, l’indicatore è stato aggiornato ma anche così il Ticino nel 2021 è il cantone con la percentuale più alta di persone che vivono in deprivazione materiale e sociale. Quasi uno su dieci non riesce a soddisfare almeno cinque dei tredici bisogni indagati; in Svizzera la media è uno su venti. Alcuni esempi: il 14% delle persone vive in famiglie con almeno un ritardo di pagamento, il doppio della media nazionale. Quasi il 30% delle persone non potrebbe affrontare una spesa imprevista di 2.500 franchi, e la stessa percentuale dichiara di non poter sostituire mobili vecchi. Anche per quanto riguarda il rischio di povertà, il Ticino è al primo posto. Quasi una persona su quattro è a rischio povertà: oltre 80.000 persone che vivono in famiglie con redditi inferiori al 60% del reddito mediano. Di queste, oltre 38.000 vivono addirittura con un reddito inferiore al 50%. Avere un basso reddito significa correre il rischio di essere emarginati dalle attività e dalla vita sociale. La povertà colpisce principalmente famiglie monoparentali e persone sole, disoccupati e inattivi, stranieri e persone con bassa istruzione (e pensionati). Nel Ticino, queste categorie sono probabilmente sovra-rappresentate, ma questo non basta a spiegare il triste primato del cantone. Il reddito è il fattore più importante per garantire una buona qualità della vita e, guarda caso, il Ticino è il cantone con i salari più bassi della Svizzera. E guarda caso in Ticino il tasso di deprivazione materiale e sociale delle persone che lavorano è dell’8.4%, due volte e mezzo quello nazionale (3.3%). Lo Stato svolge un ruolo importante attraverso numerosi strumenti a sostegno dei cittadini meno fortunati. Tuttavia, non possiamo ignorare il problema. Il numero di persone che non riesce a vivere dignitosamente con il proprio salario sta aumentando, così come cresce il numero di persone costrette a cercare lavoro in altri cantoni o di anziani in pensione che emigrano perché non riescono a sostenere le spese mensili. Le risorse dello Stato non sono più sufficienti per far fronte a tutte queste sfide. Cosa fare? Il primo indispensabile passo è riconoscere il problema dei bassi salari e lavorare insieme per trovare una soluzione, coinvolgendo tutte le parti interessate, a partire dalle aziende presenti sul territorio. I cittadini del Canton Ticino lavorano duramente, e non meritano che la loro condizione sia ignorata. Tantomeno meritano di essere il fanalino di coda della Svizzera. Meritano attenzione e serietà. E soluzioni.
La versione audio: Ticino: siamo sempre i più poveri
L’anno scorso siamo diventati tutti, o quasi, più poveri. Nessuno di noi aveva dubbi che il nostro potere di acquisto si fosse ridotto. Ma ora lo ha confermato anche la statistica. Nel 2022 i salari nominali dell’intera economia svizzera sono aumentati dello 0.9% rispetto all’anno precedente. Questa notizia dovrebbe renderci felici, se non fosse che l’aumento deve essere paragonato con la sua “effettiva” capacità di acquistare beni e servizi. Ed è qui che entra in gioco il tasso di inflazione, che misura l’andamento generale dei prezzi. Nel 2022 l’indice dei prezzi al consumo è aumentato del 2.8%. Questo significa che il nostro carrello della spesa, che nel 2021 costava 100 CHF, nel 2022 costa 102.80. Pazienza, penserete voi, tanto abbiamo avuto un aumento dei salari. Sì e no. In effetti l’aumento dei salari ci ha consentito di guadagnare 100.90 CHF; capiamo subito che l’aumento di stipendio non è sufficiente a compensare la crescita dei prezzi.
E in effetti, i salari reali hanno subito una riduzione dell’1.9%. Detta così sembra una riduzione piccola. E allora perché la nostra sensazione è di essere diventati molto più poveri?
Innanzitutto ricordiamo che l’indice dei prezzi al consumo misura l’andamento esclusivamente dei prezzi dei beni e dei servizi che sono consumati in maniera finale. Questo indicatore quindi non tiene conto ad esempio dell’andamento delle imposte o delle assicurazioni. E per fortuna che nel 2022 l’indice dei premi dell’assicurazione malattia aveva mostrato una riduzione dello 0.5%, fatto questo che ci aveva illusi e non ci aveva preparati alla stangata del 6.6% del 2023. L’indice dei prezzi al consumo non è un indicatore del costo della vita.
In aggiunta la statistica dice anche che non tutti i settori hanno registrato lo stesso andamento. Per esempio le persone che hanno lavorato per la chimica e la farmaceutica hanno visto aumentare il loro reddito in maniera reale dell’1.2%. Ma sono stati gli unici fortunati. L’industria delle materie plastiche ha visto ridurre i salari del 5%, quella dei prodotti elettronici e dell’orologeria del 3.4% e quello delle costruzioni del 2.4%.
Non è andata molto meglio al settore terziario, in cui nessuno ha registrato aumenti. Le perdite del potere d’acquisto variano dal 4.2% delle attività artistiche allo 0.1% delle assicurazioni.
Oltre a queste differenze, non possiamo dimenticare le differenze regionali. Sappiamo che in Ticino si guadagna tra il 16 e il 20% in meno del resto della Svizzera e non abbiamo ragioni di credere che in questa regione siano stati dati aumenti salariali migliori rispetto alle altre. Di conseguenza è abbastanza ragionevole supporre che, una volta di più, nel Cantone Ticino i suoi cittadini siano diventati ancora più poveri. E purtroppo temiamo che la prossima statistica confermerà questa realtà.