Previsioni economiche Svizzera: bene, ma non benissimo…

Mentre la Federal Reserve (Fed) decideva di ridurre i tassi di interesse di 50 punti base, portandoli in un intervallo tra il 4.75 e il 5%, in Svizzera venivano pubblicati dei dati non altrettanto rassicuranti.
Nel mese di agosto, le esportazioni e le importazioni di merci in termini reali sono scese rispetto al mese precedente che già registrava una riduzione di entrambe le voci. Per quanto riguarda le vendite all’estero, i settori principalmente toccati sono stati quello dei prodotti chimici e farmaceutici, quello dei metalli come pure i macchinari di precisione. Sul fronte delle importazioni si segnalano le riduzioni importanti di prodotti energetici, di strumenti di precisione e nel settore dell’elettronica. Al contrario, in questo caso si è registrato un aumento dei prodotti chimici e farmaceutici. Quest’ultimo andamento potremmo leggerlo con un po’ di ottimismo pensando che parte di queste importazioni sarà destinata alla produzione dei prossimi mesi e quindi a una possibile crescita del settore chimico farmaceutico.
Nonostante questi dati, le previsioni per la fine dell’anno delle esportazioni restano positive. La Segreteria di Stato dell’economia (SECO) ha stimato per il 2024 una crescita dei beni del 5.1% e dei servizi del 2.3%. L’andamento dei consumi privati rimane positivo (+1.5%) esattamente in linea con quello dei consumi dell’amministrazioni pubbliche. Anche il settore delle costruzioni, che l’anno scorso aveva segnato una riduzione del -2.7%, sembrerebbe confermare il suo momento positivo (+0.5%). Ciò che preoccupa un po’ gli economisti sono gli investimenti in macchinari, la cui previsione si colloca al -2%. Questo, potrebbe significare che gli imprenditori pensano che la domanda non andrà troppo bene e che quindi non sarà necessario aumentare la produzione e di conseguenza gli investimenti. Ma noi sappiamo che le cose possono cambiare e quindi speriamo in bene. In totale, la previsione dell’aumento del prodotto interno lordo (PIL) sarà per il 2024 dell’1.2%.
Questa crescita, seppur positiva, rimane una crescita abbastanza contenuta e, in effetti, il tasso di disoccupazione medio per quest’anno dovrebbe salire dal 2% al 2.4%. Una buona notizia però c’è: l’indice dei prezzi del consumo, ossia l’inflazione, dovrebbe finalmente tornare a livelli stabili. Il tasso previsto per quest’anno sarà dell’1.2%.
Notizie ancora più buone riguardano l’anno prossimo, anno in cui l’aumento dei prezzi dovrebbe limitarsi allo 0.7%. Questo, insieme all’andamento positivo dei consumi privati, della spesa dello Stato, degli investimenti in costruzioni e della ripresa di quelli in beni di equipaggiamento, come pure della crescita delle esportazioni, dovrebbero portare il prodotto interno lordo a crescere nel 2025 dell’1.6%.
Anche per l’anno prossimo, quindi non sarà prevista una crescita esorbitante, ma probabilmente dobbiamo anche abituarci che è finita l’epoca di tassi di crescita superiori al 2%. Questo, non significa per forza che le cose andranno male. Se questo tasso sarà sufficiente a garantire di compensare l’aumento della popolazione e l’impatto del progresso tecnologico, le persone potranno andare avanti ad avere un lavoro e di conseguenza un reddito. Per cui ancora una volta, leggiamo la realtà oltre i dati.

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Ticino terra di bassa salari… per sempre?

Intervista pubblicata da Il Federalista, 01.03.2024 e ripresa da Liberatv, che ringraziamo

Manodopera a basso costo, croce e delizia dell’economia ticinese?
“Il fatto di ricorrere a manodopera a basso costo, spesso anche qualificata, è stato da sempre uno dei nostri vantaggi competitivi. Questo ha portato a sviluppare un tessuto di industrie (rispetto per esempio alla Svizzera interna, dove occorreva competere sulla qualità e non tanto sul prezzo) che vengono definite “intensive di lavoro” anziché “intensive di capitale”. È così mancata tutta quella fase di competizione basata sul progresso tecnologico, sull’innovazione. Quindi, il nostro tessuto economico era già piuttosto fragile. Quello che poi è accaduto con gli accordi bilaterali è che non c’è stato più nemmeno un minimo di -se vogliamo- contenimento di un’economia che già andava nella direzione sbagliata. Ecco perché quelli che erano dei vantaggi competitivi che venivano messi a frutto in modo ragionevole sono diventati, purtroppo, la regola del gioco. Per cui ci ritroviamo oggi con un tessuto produttivo che potrebbe essere sicuramente più sano”.

Si riferisce in particolare alle aziende venute da fuori Cantone?
“Mi riferisco a quelle aziende che non sono in grado di versare dei salari per i residenti e che hanno esclusivamente manodopera non residente. Sebbene io non neghi che l’arrivo di alcune aziende che mettono a frutto giustamente i vantaggi competitivi che offre la Svizzera (con l’aggiunta del vantaggio competitivo geografico del Canton Ticino) abbia avuto aspetti positivi. Ma chiediamoci: è sano che siano qui se poi esercitano una pressione al ribasso su tutta l’economia?”.

Non solo sui salari bassi, a suo parere?
“Fino a qualche anno fa la pressione si esercitava sui bassi salari, adesso ormai riguarda i salari medi e medio alti. Questo vuol dire che la concorrenza non è più limitata esclusivamente alle realtà delle professioni per così dire “meno qualificate”, ma si sta portando anche su quelle più qualificate. E il fattore su cui si gioca rimane purtroppo ancora sempre il prezzo, quindi il salario. Sono convinta che i prossimi dati che usciranno lo confermeranno”.

Nella polemica in corso si rileva criticamente che l’afflusso di queste aziende sia in gran parte dovuto alle politiche economiche messe in atto in Ticino a partire dalla metà degli anni 90 e fino ai primi anni 2000, che puntavano su agevolazioni fiscali allo scopo di attirare le imprese, anche estere, sul nostro territorio. Condivide la critica?
“Le politiche economiche che si possono adottare non sono molte. Quindi, puntare il dito su scelte fatte in passato secondo me serve a poco. Quello che rincresce è che non si sia riusciti, una volta entrati in contatto con determinate aziende, a costruire un vero “tessuto industriale” sul territorio. Prendiamo il settore della moda. Anzitutto non si tratta di aziende arrivate qui solo grazie alle agevolazioni cantonali, ma anche grazie al contesto internazionale che inquadrava comunque la Svizzera come un Paese dove risparmiare fiscalmente in maniera assolutamente legale: è questo che ha portato alcuni grandi marchi a trasferirsi da noi. Il problema sta nel fatto che l’immobilismo del Cantone ha fatto sì che non si siano create delle condizioni e coltivate delle relazioni tali da mantenere queste aziende sul territorio anche una volta poi passati i periodi di agevolazioni fiscali che, secondo me, non sono tanto quelle cantonali bensì quelle a livello nazionale”.

Nel Cantone, quelle politiche furono promosse da Marina Masoni, nell’ambito del cosiddetto pacchetto delle “101 misure”. Alcuni dati statistici mostrano, tra il 1996 e il 2008, un costante miglioramento dei parametri economici cantonali, la cui crescita si è progressivamente attenuata in seguito.
“L’economia è fatta di talmente tanti fattori che individuare -togliendo tutto il contesto internazionale- quali siano stati i fattori che hanno portato a quei risultati è davvero molto difficile. Pur non condividendo molte di quelle 101 proposte, da un punto di vista economico, di una politica economica, devo riconoscere che purtroppo quello è stato l’ultimo periodo politico in cui ci sia stata quantomeno una strategia di sviluppo. Quantomeno c’era un’idea di che cosa si voleva fare, di che tipo di economia volevamo avere. Adesso è il vuoto, adesso in quel campo non c’è nulla”.

Accidenti, si tratta di incompetenza, di interessi o di cos’altro?
“Non incompetenza, neppure interessi, che è normale che vi siano, com’è legittimo che una parte della classe politica veda nel libero mercato portato all’estremo la soluzione a tutti i mali. Com’è chiaro che riflettere su quello che sarà il Canton Ticino fra 10 anni probabilmente elettoralmente non paga. Col massimo rispetto… però è chiaro che la politica di sviluppo economico e di sostegno all’economia, o lo stesso tema del lavoro, non siano una priorità di questo Governo, come non mi sembra lo sia stato dei Governi passati. Se non c’è la priorità del lavoro, tutto quello che riguarda l’economia viene meno”.

Lei dice spesso, l’ha detto più volte anche a noi del Federalista, che sarebbe ora, per uscire da questo circolo, di alzare i salari. Sarebbe ora che in Ticino ci fossero finalmente dei salari svizzeri. Ma quante aziende attive sul nostro territorio hanno veramente la possibilità di alzare i salari. E quali dovrebbero chiudere (cancellando posti di lavoro) se si volesse andare in quella direzione?
“Occorre essere anche un po’ coraggiosi. Essere coraggiosi vuol dire riconoscere che probabilmente ci sono delle aziende nel territorio – non abbiamo niente contro queste aziende – che di fatto, da un punto di vista -paradossalmente- dell’economia di mercato, non hanno ragione di stare qui. Cioè se un’azienda non fa utili tali da permetterle di pagare degli stipendi che consentano ai suoi dipendenti di risiedere nel Cantone, evidentemente non farà neppure dei grandi profitti: in termini di imposte lascerà poco o niente, generando però conseguenze negative, a cominciare dalla pressione sui salari, passando per il traffico ecc. Ecco, bisogna mettere sulla bilancia queste cose e avere il coraggio di dire che queste aziende non devono stare nel Canton Ticino. Insomma, se si versano salari italiani è buono e giusto che si operi in Italia”.

Ma come tutto ciò incide sul fatto che sempre più persone in Ticino chiedono aiuti sociali? Lo Stato sostiene i redditi bassi perché questo tipo di economia non riesce a pagare i propri collaboratori che risiedono in loco?
“La domanda è: vogliamo un Cantone-fabbrica? Quello che sta accadendo è che i giovani, quelli che finiscono di studiare qui, se ne vanno. I giovani che hanno studiato all’estero non rientrano. E questo significa che le famiglie le fanno fuori Cantone difficilmente rientreranno in Ticino. Siamo in una situazione nella quale un cinquantenne che perde un posto di lavoro non riesce a trovarlo e tanti iniziano a lavorare, ad esempio, due o tre giorni in Svizzera interna, mentre negli altri due fanno home office. In Ticino abbiamo gli anziani che non riescono più a vivere con la loro pensione, che iniziano a pensare di andarsene dal Ticino. Qui ci rimarranno solamente frontalieri, che vengono al mattino, lavorano e se ne vanno la sera? Il dramma di questo Cantone è questo”.

Cosa pensa dell’adeguamento delle aliquote fiscali per gli alti redditi? Un’inutile “regalo ai ricchi” o un modo sensato per non farli scappare?
“Non ho niente a priori contro la riduzione delle aliquote, quello che ho trovato sbagliato in questa decisione è la tempistica: cioè, in un momento così delicato per il Canton Ticino sono certa che queste persone ad alto reddito erano e sono disposte a veder posticipare questo tipo di misure di qualche anno. Per me il concetto è che lo Stato deve prendere le risorse ai cittadini nella minor misura possibile, ma che sia compatibile con i compiti che i cittadini decidono di fargli svolgere. Come sono disposta a scendere sulle aliquote, se si vogliono più compiti sono anche disposta ad aumentarle. Non ci sono tabù “fiscali”. Secondo me si dovevano mettere in atto tutte le altre tre misure e per quest’ultima attendere, quantomeno, la revisione dei conti dello Stato”.

Ci sarebbero altre “questioncine” in ballo, come quella della perequazione intercantonale o quella del “freno alla spesa”, ma ci fermiamo qui, perché i lettori hanno da leggere il prossimo contributo che offriamo loro quest’oggi, non meno importante a nostro avviso…
” … sulla perequazione (quei 3-400 milioni in più che dovrebbero arrivarci da Berna) mi lasci dire solo che forse non è un tema molto “sexy” da portare in campagna elettorale, perché è un tema tecnico. Ma mi sembra che quantomeno il Governo se ne stia occupando e anche i nostri deputati a Berna qualcosa stiano pensando di fare”.

UN FILO TRA SCUOLA E LAVORO «LA FORMAZIONE È DECISIVA»

“Il sistema formativo svizzero ha un rapporto molto stretto con il mondo del lavoro e della formazione professionale già dai 15 anni e poi proseguendo nella specializzazione. La relazione tra il lavoro e la formazione è molto stretta”.
L’economista Amalia Mirante, docente universitaria presso la Scuola Universitaria della Svizzera Italiana e presso l’Università della Svizzera italiana spiega come nella Confederazione formazione e lavoro si intreccino da sempre e come il Canton Ticino stia facendo i conti con uno spostamento dei più giovani verso i cantoni interni, dove gli stipendi sono più alti e le opportunità di carriera più numerose.
La sua analisi si focalizza sui risultati che emergono dal rapporto sulla situazione socioeconomica degli studenti condotta nel 2020 dall’Ufficio federale di statistica (UST) che ha rilevato come nel 2020 “il 38% degli studenti delle scuole universitarie affermava di aver svolto almeno uno stage dall’inizio degli studi. Il 7% di loro aveva adottato provvedimenti concreti in tal senso, e il 18% dichiarava di avere intenzione di effettuare uno stage prima della fine degli studi. Il 18% degli stage è stato effettuato all’estero. Il tipo di stage più frequente durante gli studi è quello obbligatorio e non retribuito”.
Professoressa, nel 2020, il 38% degli studenti delle scuole universitarie affermava di aver svolto almeno uno stage dall’inizio degli studi. Una percentuale importante o ancora troppo bassa? Quanto sono determinanti gli stages per gli studenti?
In Svizzera il sistema di formazione terziaria si suddivide tra la formazione professionale superiore e le scuole universitarie. Tra queste ci sono le università, le scuole universitarie professionali (SUP) e le alte scuole pedagogiche (ASP). Spesso nelle scuole universitarie, la formazione stessa prevede degli stages, che possono essere requisiti per l’accesso o parte integrante del diploma. In alcuni casi gli stages sono addirittura obbligatori.
Il tipo di stage più frequente durante gli studi è quello obbligatorio e non retribuito, è giusto non retribuire gli stagisti?
Sì, dallo studio dell’Ufficio federale di statistica emerge una certa frequenza di stage obbligatori e non remunerati. Nel caso delle università gli studenti hanno dichiarato che uno stage su due era obbligatorio; la percentuale sale addirittura a quasi il 90% nel caso delle scuole universitarie professionali e delle alte scuole pedagogiche. In Svizzera lo stage quindi spesso non è una scelta, quanto un’imposizione del sistema di formazione. Per quanto riguarda la remunerazione, è un argomento del quale si potrebbe parlare ampiamente perché varia da settore a settore. Solo per fare degli esempi, il 90% degli stages svolti dagli studenti di economia è retribuito, mentre lo è solamente il 50% di quelli di medicina. Ma c’è una spiegazione alla non retribuibilità degli stages ed è che spesso lo stage è uno sforzo che i datori di lavoro fanno per formare i giovani; è come un se in realtà dovessimo ringraziare le aziende e gli enti che devono mettere a disposizione un tutor, che abbia anche le competenze formative, ai giovani che seguono gli stages nelle loro imprese. C’è anche un altro aspetto da considerare: a volte, gli stages sono opportunità reciproche. Mi spiego: ad esempio le banche possono cercano gli stagisti perché considerano la loro presenza come un investimento vicendevole. I ragazzi possono fare un’esperienza professionale e le banche individuare i profili più idonei per poi magari assumerli alla fine della formazione.
Esiste il pericolo in Svizzera che gli studenti in stage vengano sfruttati e usati nel mondo del lavoro al posto di veri addetti assunti?
Non ci sono dati certi in merito, ma ci sono persone già formate che vengono assunte come stagisti anche se dovrebbero essere assunte come professionisti a tutti gli effetti. In questo caso, cambia la remunerazione del dipendente e anche il suo grado di sicurezza. Discorso diverso quando uno studente frequenta uno stage obbligatorio: tendenzialmente, in questi casi ci sono accordi e contatti precisi tra le università e le realtà che accolgono lo stagista. Quando invece si esce dal percorso di formazione non ci sono più così tante tutele. I disonesti, che non rispettano remunerazione e ruolo di professionisti che assumono come stagisti, ci sono, ma sono rari. In generale possiamo dire che per gli stages obbligatori nella formazione anche se non trovati direttamente dalle scuole, c’è una certa tutela perché il riconoscimento tendenzialmente prevede un iter che raccoglie i dati dell’esperienza e un rapporto di fine stage.
Quali sono le criticità del mondo del lavoro verso i ragazzi che vi si affacciano per la prima volta?
In genere la formazione in Svizzera è, diciamo, “velocizzata” (tempi definiti per ultimare i percorsi formativi, tentativi massimi per sostenere gli esami, numero obbligatorio di crediti da conseguire in una anno,…) per permettere ai giovani di inserirsi al più presto nel mondo del lavoro. In aggiunta, ci sono anche ragazzi che lavorano mentre stanno studiando e adulti che studiano mentre lavorano. La velocizzazione a cui mi riferisco si applica anche a queste situazioni. Chi per esempio, è studente lavoratore ha programmi di formazione differenti da quelli di chi studia senza lavorare; ad esempio possono esserci corsi di laurea di tre anni per studenti a tempo pieno che devono essere svolti entro 5 anni al massimo. Invece, lo stesso corso di laurea, per chi ha un’attività professionale si estende su 4 anni, ma con un massimo in ogni caso di 6 anni. In Svizzera il periodo di formazione è tendenzialmente fisso e limitato. Se uno studente non consegue il titolo universitario entro il periodo massimo stabilito viene escluso dalla formazione (escludendo evidentemente situazioni eccezionali come malattia o altre). Faccio un altro esempio: una volta che si viene esclusi da una facoltà come economia in una università perché per esempio si è bocciato troppe volte un esame, non si può più seguire un corso di laurea in economia in tutta la Svizzera. Questo, appunto, velocizza i tempi della formazione.

Come reputa la situazione occupazionale attuale in Svizzera dei giovani?
La reputo soddisfacente, ma differenziata. In Canton Ticino l’emigrazione dei giovani e il loro non ritorno comincia ad essere un problema. I giovani vanno sempre più spesso in Svizzera interna perché in Ticino i salari sono più bassi e minori le opportunità. Ticino a parte, nel resto della Svizzera il problema occupazionale per i giovani formati, fortunatamente, non esiste.

Intervista di Carla Colmegna pubblicata su La provincia di Como, 21.09.2023

La versione audio: Un filo tra Scuola e Lavoro – La formazione è decisiva

Ticino: sempre più frontalieri e sempre meno residenti

L’ufficio cantonale di statistica fa un ottimo lavoro che ci aiuta a comprendere la nostra economia. Nell’ultimo pubblicato qualche giorno fa si parla del mercato del lavoro in un’ottica di medio-lungo periodo.

Leggiamo “il numero di lavoratori residenti continua a calare, così come sono sempre meno i giovani e gli immigrati. Considerate queste dinamiche demografiche e i saldi migratori recenti, i posti di lavoro liberati e creati sul mercato del lavoro ticinese sono stati occupati principalmente da frontalieri.”

Queste frasi dovrebbero far scattare in tutti noi un campanello d’allarme. Per anni la politica ha negato che la libera circolazione delle persone nel nostro cantone abbia creato principalmente posti di lavoro per persone non residenti. Ora che i numeri lo confermano, tutto tace.

Già i dati annuali pubblicati qualche mese fa confermavano questa tendenza. Tra il 2012 e il 2022 c’è stato un saldo positivo di quasi 27’000 occupati in più. Ma attenzione, il dato non deve trarre in inganno. In Ticino rispetto a 10 anni fa si sono registrati 3’000 occupati svizzeri in meno. E allora, chi sono questi 30’000 occupati in più nel cantone? Circa 7’500 persone hanno un permesso di domicilio; altre 21’500 sono frontaliere. Questo ha portato la quota degli occupati svizzeri e domiciliati a ridursi di ben 5 punti percentuali. Al contrario, i frontalieri sono passati da quasi il 26% a circa il 32% degli occupati.

I dati del primo trimestre del 2023 hanno confermato esattamente la stessa tendenza. In aggiunta, i ricercatori dell’ufficio cantonale di statistica evidenziano un’altra problematica: l’aumento delle persone inattive riduce il tasso di attività nel Canton Ticino di quasi 2 punti percentuali in un decennio (dal 58.7% del 2013 al 56.9% dal 2023 ). Questo significa che ci stiamo allontanando ancora di più rispetto al resto della Svizzera. Le dinamiche demografiche sono note: nascono sempre meno bambini e, fortunatamente, viviamo più a lungo. Ma a questo dobbiamo aggiungere che i nostri giovani non trovando opportunità professionali in linea con le loro qualifiche e competenze si trovano a dover emigrare oltre Gottardo oppure a non rientrare una volta finiti gli studi.

Una domanda sorge spontanea: com’è possibile che sono stati creati migliaia di posti di lavoro e contemporaneamente i nostri giovani emigrano?

Per molto tempo è stato detto che i posti di lavoro occupati dai frontalieri erano quelli che rifiutavano i residenti. Eppure i settori in cui si registrano gli aumenti più importanti di frontalieri sono l’informazione e la comunicazione (occupati raddoppiati), le attività professionali, scientifiche e tecniche (da 3’900 persone a 9’500) e le attività amministrative e nei servizi di supporto alle aziende (da 4’000 persone a 7’500).

Ora vi starete dicendo che i vostri figli e le vostre nipoti si sono formati proprio in quei campi lì; e allora perché non trovano un posto di lavoro?

La discriminante rimane sempre la stessa: il salario. Fintantoché le aziende e lo Stato non riconosceranno che questo è un problema, il Ticino è destinato a essere da una parte terra di accoglienza per persone che lavorano ma non risiedono e dall’altra, terra di emigrazione per i figli dei residenti.

La versione audio: Ticino: sempre più frontalieri e sempre meno residenti

C’è lavoro ma non ci sono lavoratori. Che fare?

Il mercato del lavoro svizzero sembra scosso da inedite convulsioni. Secondo alcune stime a fine 2022 si registravano ben 120’000 posti di lavoro non occupati (i disoccupati in tutto il Paese, a titolo di paragone, sono circa 100’000). Numeri a prima vista impressionanti, cresciuti sulla scia della ripresa post pandemica.

I datori di lavoro denunciano gravi difficoltà nel reclutamento: è di due giorni fa l’intervento dell’Unione svizzera degli imprenditori (Usi) con la proposta di alcune piste per rimediare alla carenza di professionisti.

La grande richiesta di particolari profili professionali sta spingendo molti lavoratori di altri Paesi, come sempre accade in queste occasioni, a trasferirsi entro nei confini della Confederazione. Un’immigrazione con ritmi spettacolari che ha aggiunto in solo anno, nel 2022, oltre 70’000 nuovi abitanti al nostro Paese.

I media elvetici d’Oltralpe si interrogano sulla sostenibilità di questa distonia. È possibile per un Paese offrire “troppo” lavoro? Ne parliamo con un’esperta in materia, Amalia Mirante, economista e docente SUPSI.

La prima semplice domanda che sorge, alla luce di questi 120’000 posti di lavoro vacanti, è come faccia a funzionare un’economia se mancano così tante “braccia”?

Facciamo una premessa. È abbastanza tipico quando ci sono anche dei cambiamenti tecnologici, che in realtà possono diventare quasi strutturali, che sia necessario un periodo affinché l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro si aggiusti. I dati ci parlano in Svizzera di 5,4 milioni di posti di lavoro, quindi questi 120.000 posti vacanti rimangono ancora una fetta contenuta. Bisognerebbe guardare questa situazione avendo a mente un panorama più ampio. Stiamo passando attraverso i cambiamenti dettati dalla cosiddetta “rivoluzione industriale 4.0”, fatta di automatizzazione e digitalizzazione. Adesso, a parer mio, siamo nella coda di questa rivoluzione con l’entrata in scena dell’intelligenza artificiale. Questi grandi cambiamenti stanno modificando la stessa organizzazione del lavoro e gli stessi processi produttivi. Guardare solo le carenze odierne di posti di lavoro significa concentrarsi forse un po’ troppo sul breve termine, su quello che le aziende hanno bisogno in questo momento, ma il passaggio che stiamo vivendo è qualcosa di molto più grande.

All’economia mancano profili sufficientemente qualificati?

In realtà una bella fetta di posti di lavoro vacanti è nel settore del commercio, nella manutenzione degli autoveicoli, nel settore alberghiero e della ristorazione, e una fetta “storica”, nella sanità. Non tutti i posti vacanti sono automaticamente da attribuire a categorie che richiedono grandi competenze, grandi capacità, grandi studi.

Non riqualificare, ma amplificare le competenze

Si parla molto di mismatch (discrepanza tra domanda di lavoratori e competenze della forza lavoro). L’ente statale non dovrebbe impegnare maggiori attenzioni e risorse alla riqualificazione dei lavoratori?

Effettivamente l’intervento pubblico concertato con le imprese dovrebbe abituarsi ad anticipare i tempi, pensare a quello che sarà tra 10-15 anni il mercato del lavoro. Più di tutto vanno valorizzate le competenze che già ci sono. Io non parlo volentieri di riqualifica professionale perché secondo me ci sono già tante competenze settoriali che vanno ampliate, aggiornate, rese magari complementari a quelle che già ci sono. Un esempio. Nei supermercati sono entrate in scena le casse automatiche, va bene. Ma anche la varietà dei prodotti sta crescendo enormemente; nella sezione delle farine vi sono 18 tipi di prodotti diversi con prezzi diversi: più che cassieri oggi necessitiamo di consulenti alla vendita a tutto tondo. Si tratta cioè di adattare le competenze già presenti nei professionisti di oggi a un contesto con sempre maggiore digitalizzazione e automazione, e abbiamo il tempo per farlo.

L’abitudine di procurarsi la forza lavoro dall’estero intanto mostra qualche limite. La concorrenza in Europa non manca, ed importare manodopera comincia a farsi difficile per alcune professioni.

Non siamo un’isola, anche gli altri Paesi iniziano riscontrare i medesimi fenomeni di carenza. Attingere alla migrazione genera anche tensioni. Di certo nel resto del Paese, nella Svizzera tedesca, la pressione generata è molto minore rispetto alla Svizzera italiana. Per esempio, in alcuni luoghi, il differenziale salariale è addirittura a favore dei frontalieri rispetto ai residenti.

Il ricorso alla manodopera estera rimane però un po’ nel DNA svizzero. Potremmo provare almeno a dare maggiore importanza e investire di più nell’ammodernamento e nel potenziamento della formazione professionale. Soprattutto in Ticino questo è un settore nel quale purtroppo negli ultimi anni non si è riusciti a investire abbastanza. Occorrerebbe far fronte alla richiesta che arriva dal mondo professionale di figure specializzate in ambito industriale. Bisogna valorizzare di più la Formazione professionale.

I desideri degli imprenditori e quelli dei lavoratori

Secondo gli imprenditori svizzeri bisognerebbe lavorare più ore, più a lungo, tutti.

Da una parte si denuncia la mancanza di personale qualificato in alcuni settori. In contemporanea si chiede che questo personale altamente qualificato vada a lavorare, se mi è permesso, secondo le condizioni di cinquant’anni fa. Si pensi all’idea della pensione a 70 anni. Giusto invece consentire alle persone di poter lavorare anche dopo l’età “legale” del pensionamento: questa tendenza deve essere aiutata e non penalizzata. Però da qui a farne un obbligo ce ne passa.

Le richieste degli imprenditori si scontrano con quello che appare essere il desiderio proprio della parte più qualificata e, dunque, più ricercata della forza lavoro: lavorare, se possibile, a tempo parziale. Intuitivamente la concorrenza ad accaparrarsi i lavoratori dovrebbe spingere verso un miglioramento delle condizioni che si offrono.

Questo lo hanno capito le grandi aziende, le quali hanno già cominciato a offrire tutta una serie di benefit. Stanno cominciando a cambiare le condizioni quadro dei loro posti di lavoro perché si sono rese conto che effettivamente le persone più qualificate, più competenti, che possono portare un beneficio alle aziende oggi non chiedono a volte il salario più alto, che in quelle posizioni lavorative non è tanto ciò che fa la differenza tra un’azienda e un’altra. Ciò che chiedono è per esempio la possibilità di avere dei congedi parentali, come offrono già alcune grandi banche o le grandi catene di distribuzione. Le stesse grandi imprese stanno introducendo anche per i padri la possibilità di lavorare a tempo parziale, anche in posizioni quadro. Oppure pagano l’abbonamento in palestra, o corsi formativi anche fuori dall’ambito professionale, eccetera… Questa non è una novità, poiché sovente nella storia sono stati addirittura gli imprenditori e gli industriali a migliorare le condizioni del lavoro. Certo per i piccoli e medi imprenditori il discorso è un po’ differente, però anche lì si fanno tentativi. Offrendo modelli come il lavoro a distanza e la settimana corta di quattro giorni.

Riguardo al settore delle piccole-medie imprese si parla un po’, tra gli analisti d’Oltralpe, della persistenza di aziende cosiddette “zombie”, ovvero che sopravvivono un po’ sull’onda lunga degli aiuti dati negli ultimi anni dallo Stato, e che gonfiano così il mercato del lavoro.

Per le piccole e medie imprese credo che il colpo relativo alla crisi Covid sia stato duro e pesante. Adesso le stesse aziende devono confrontarsi con un insieme di costi cresciuti in maniera importante. Sicuramente ci sono state realtà tenute “in piedi” in maniera un po’ artificiale, ma non si poteva fare altrimenti. Oggi vediamo che il numero di aziende che dichiarano fallimento sta lentamente aumentando, quindi c’è indubbiamente uno strascico in questo senso .

Intervista da Il Federalista

Aumentano i frontalieri, partono i residenti

La statistica svizzera questa settimana ci dà molte indicazioni su quanto sta accadendo sul mercato del lavoro in Svizzera e in Ticino.
Gli impieghi in Ticino nel III trimestre (luglio-settembre) sono aumentati sia rispetto ai tre mesi precedenti, sia rispetto a un anno fa. Oggi si contano quasi 243 mila posti di lavoro totali; di questi 137 mila sono occupati da uomini e 106 mila da donne. I posti di lavoro a tempo pieno sono la maggioranza e occupati prevalentemente da uomini (158 mila posti, di cui 109 maschili e 49 femminili). Al contrario degli 85 mila posti a tempo parziale, ben 58 mila sono occupati da donne e 28 mila da uomini. I posti di lavoro in equivalenti a tempo pieno sono oggi circa 199 mila (122 maschili e 77 femminili). Ma è guardando ai settori che scopriamo dinamiche differenti: i posti di lavoro nel settore secondario sono rimasti quasi stabili rispetto a un anno fa; l’aumento è stato registrato soprattutto nel terziario (circa 8 mila posti in più su base annuale, 150 su base trimestrale).
Guardando a questi dati saremmo quindi tentati di parlare di ottime notizie. Ma come sempre c’è un ma…
I dati pubblicati la settimana scorsa dalla Rilevazione sulle forze di lavoro in Svizzera (RIFOS) confermano purtroppo dinamiche già evidenziate tempo fa. Primo: in Ticino ci sono 5’700 svizzeri in meno che lavorano a tempo pieno rispetto a un anno fa (una riduzione di oltre il 7%). Di questi 3’800 sono uomini e 1’800 donne. Guardando in totale (tempo pieno e tempo parziale) la situazione non migliora di molto: il saldo negativo è di 500 uomini in meno e ben 2’500 donne svizzere. Al contrario, c’è stato un importante aumento di occupati stranieri: in totale ci sono 3’100 persone in più (con un aumento di 5’600 persone che hanno un impiego a tempo pieno), 2’900 donne e 200 uomini. Le spiegazioni di questi dati possono essere molteplici: tanti svizzeri dell’era dei baby boomer escono dal mondo del lavoro e vanno in pensione, ci sono meno nascite e quindi meno giovani che cominciano a lavorare e in aggiunta i tempi di formazione sono più lunghi.
Detto questo, non possiamo prescindere da un’analisi del frontalierato, soprattutto nel Cantone Ticino. Grazie al lavoro appena pubblicato dall’Ufficio di statistica cantonale possiamo comprendere molte dinamiche. Per inciso, cogliamo l’occasione per elogiare le analisi svolte da questo ufficio e l’eccellente lavoro fatto dai suoi ricercatori e ricercatrici che ci consente di comprendere la nostra realtà. In questo caso, il recente studio mette in evidenza che “nel tempo, aumentano le persone che da residenti diventano frontaliere, mentre diminuiscono quelle che da frontaliere diventano residenti”. Ed è forse proprio questo il punto che tralasciamo troppo spesso nelle azioni di politica economica di questo Cantone. Il problema non sta di certo nel fatto che si ricorra a manodopera estera per rispondere alle mancanze di personale (è sottinteso fintantoché questa scelta non dipende esclusivamente da un salario più basso ed esercita una concorrenza “sleale” che porta i residenti a dover cercare lavoro altrove). Il problema sta nel fatto che una politica di sviluppo cantonale dovrebbe avere come obiettivo che queste persone si insedino nel nostro Cantone e diventino parte attiva della nostra comunità. Certo, le soluzioni non sono facili, ma almeno parlarne apertamente consentirebbe di lavorare tutti nella stessa direzione.

Ticino: i frontalieri aumentano ancora

Ancora una volta i dati statistici confermano l’aumento del numero di frontalieri che lavorano in Ticino. Le cifre del terzo trimestre del 2022 ci permettono di fare delle considerazioni importanti.
La percentuale di persone che lavora nel settore secondario è scesa al 32%, circa una persona su tre. Vent’anni fa questo dato era del 55%, più di una persona su due. Se guardiamo all’interno del settore secondario vediamo un’importante riduzione sia nelle attività manifatturiere che passano da circa il 40% al 21%, sia in quello delle costruzioni dal 16% all’11%.
In conseguenza a questa riduzione, vediamo l’importante aumento del settore terziario che passa sempre in vent’anni dall’occupare il 44% dei frontalieri al 67%, due persone su tre. In questo caso è interessante notare come ci sia una certa stabilità per alcuni settori, ad esempio quello del commercio e della riparazione di autoveicoli che si attesta attorno al 15% degli occupati, quello dei servizi dell’alloggio e della ristorazione che rimane fermo a circa il 6% come pure quello delle attività sanitarie e sociali.
Altri settori invece mostrano dei cambiamenti rilevanti. Il settore delle attività professionali, scientifiche e tecniche (per intenderci attività legali e di contabilità, studi di ingegneria e di architettura) passano dal 3% di persone frontaliere occupate in questo settore nel 2002 a circa il 12% di oggi. In termini numerici parliamo di oltre 9’000 professionisti, aumentati in numero di ben 9 volte. Un discorso analogo può essere fatto per le attività amministrative e i servizi di supporto alle aziende come le attività di ricerca, selezione e fornitura del personale: in questo caso la percentuale è passata dal 2% al 10%. Parliamo oggi di oltre 7’700 persone occupate quando nel 2002 si contavano meno di 700 professionisti. L’aumento è stato di 11 volte.
Di per sé questi numeri non sono fonte di preoccupazione in assoluto. Se un’economia cresce e genera nuovi e buoni posti di lavoro non c’è nessun problema che siano occupati anche da persone non residenti. La situazione diventa problematica dal momento che si creano tensioni sul mercato del lavoro tra persone residenti e persone non residenti. Ed è innegabile che questo stia avvenendo da tempo in Ticino.
Lo vediamo se guardiamo alla pressione sui salari di tutta l’economia che non crescono come a livello nazionale. Lo vediamo osservando il divario enorme e in crescita tra salari dei residenti e dei frontalieri che è stato recentemente oggetto di una pubblicazione dell’ufficio cantonale di statistica (e non è così negli altri cantoni). Lo vediamo guardando ai nostri giovani che se ne vanno e a quelli che non tornano.
Bisogna avere il coraggio di parlare apertamente di queste tensioni. E per favore, non diciamo che il problema sta nel fatto che non formiamo sufficienti persone per occupare questi posti di lavoro. I dati parlano chiaro. Abbiamo ingegneri e architetti che vorrebbero eccome lavorare nel loro Cantone. Per non parlare del personale amministrativo nelle aziende. Insomma, i genitori dei ragazzi che mi contattano disperati perché i figli non trovano un lavoro, meritano altre risposte. Come meritano altre risposte i cinquantenni che perso il lavoro dopo trent’anni non riescono nemmeno a ottenere un colloquio. Non pensiamo di poter fare sempre finta che non ci siano problemi. I problemi ci sono, eccome. Bisogna risolverli.

Ticino: i frontalieri aumentano ancora

Il lavoro che soffre

Il mercato del lavoro in Ticino soffre. I dati pubblicati dall’Ufficio federale di statistica per il primo trimestre del 2022 sugli occupati e sugli addetti confermano tendenze già emerse nei mesi scorsi. Negli ultimi 10 anni gli occupati in Ticino sono aumentati di circa 20 mila persone. Un dato che sembra molto incoraggiante se non per il fatto che si è verificata una riduzione di 5 mila persone svizzere a fronte di un aumento di 20 mila frontalieri. Nessun problema se i due attori non entrano in concorrenza e conflitto.

Sappiamo che bisogna essere prudenti nel trarre le conclusioni, tuttavia possiamo mettere in evidenza alcuni elementi. Nel periodo gennaio-dicembre 2022 rispetto al trimestre precedente in Ticino abbiamo perso quasi 8.500 persone occupate residenti; il numero scende a 6.700 se includiamo anche i frontalieri. Questa differenza conferma nuovamente l’aumento di persone non residenti nel mercato del lavoro ticinese.

Non siamo ancora in grado di dire con certezza perché le persone occupate residenti nel cantone sono diminuite in misura così grande (l’11% dell’intero dato nazionale), ma possiamo supporre per esempio che ci sia stato un incremento dei pensionamenti anticipati oppure degli spostamenti verso altri cantoni o nazioni. Solo le analisi specifiche potranno confermare queste ipotesi.

Ancora più preoccupante è stata la variazione annuale rispetto a quanto successo mediamente in Svizzera. A livello nazionale c’è stata una crescita di occupati pari a quasi 50 mila residenti, mentre a livello cantonale anche in questo caso si registra una perdita (-2 mila persone). Analizzando i dati in dettaglio scopriamo altre tendenze. Nell’ultimo anno sono stati principalmente gli uomini a uscire dal mercato del lavoro, mentre le donne sono aumentate. Anche in termini di nazionalità si confermano i dati passati che vedono una riduzione degli svizzeri a vantaggio degli stranieri. Infine, appare rilevante anche il tempo di lavoro: le persone che lavorano a tempo pieno diminuiscono e quelle a tempo parziale aumentano.

Infine se paragoniamo questi dati con quelli degli addetti (posti di lavoro) sembriamo trovare una conferma: dato che il numero di posti di lavoro aumenta e le persone diminuiscono, allora sembrerebbe che le persone occupate svolgano più di un lavoro.

Al momento non siamo in grado di dire molto di più, anche se speriamo di sbagliarci nella nostra ipotesi. Non vorremmo proprio che nel nostro cantone sia in atto una sostituzione di persone residenti che lavorano a tempo pieno con salari medio-alti e che anticipano il pensionamento con persone non residenti che svolgono più attività a tempo parziale e con salari più bassi.

Speriamo proprio che i prossimi dati ci diranno che ci sbagliamo.

Tratto dal Corriere del Ticino, 04.06.2022

La versione audio: Il lavoro che soffre

IL PIL svizzero cresce

Il prodotto interno lordo (PIL) svizzero è cresciuto nel primo trimestre di quest’anno (gennaio-marzo) dello 0.5%. Il trimestre precedente era aumentato dello 0.2%. Ricordiamo che il prodotto interno lordo è un indicatore che dà un’immagine del benessere economico di una nazione. Sappiamo che ha molti limiti: non tiene conto delle attività che non passano sul mercato, è difficile paragonarlo per le differenti nazioni o ancora non considera le conseguenze negative sull’ambiente. Nonostante ciò rimane l’indicatore migliore per misurare l’attività economica di un paese. E possiamo guardare a questa attività economica da tre angolazioni differenti.
La prima maniera contabilizza le spese degli attori economici. Così sommiamo il valore dei consumi delle famiglie, quelli dello Stato, gli investimenti delle aziende e gli acquisti che il resto del mondo fa dei nostri beni e servizi (le esportazioni). L’aumento del PIL rispetto al trimestre precedente in questo caso è stato trainato principalmente delle esportazioni di beni (+1.4%) e dalla spesa dello Stato (+1.4%), che non dimentichiamo è ancora intervenuto per sostenere le persone e le aziende nell’ultima ondata pandemica. La spesa per consumi delle famiglie è rimasta stabile (+0.4%) mentre gli investimenti in beni di equipaggiamento (macchinari per esempio) e anche le costruzioni si sono ridotti rispettivamente del 3.1% e dello 0.7%.
La seconda maniera di calcolare il prodotto interno lordo contabilizza il valore aggiunto creato dalle aziende nella produzione di beni e servizi. In questo caso scopriamo che i settori trainanti sono stati quelli dell’industria manifatturiera (+1.7%) e il settore dell’arte, dell’intrattenimento e del divertimento (+9.8%). In crescita anche il settore finanziario e assicurativo (+0.9%) e quello sanitario (+0.7%). Le cose non vanno bene per il settore delle costruzioni (-0.4%) e dell’alloggio e ristorazione (-2.2%, probabilmente a causa dell’ultima ondata pandemica).
La terza maniera di calcolare il prodotto interno lordo è quella di sommare i redditi che sono distribuiti ai fattori produttivi (lavoro e macchinari) per la produzione. Questo metodo considera quindi i salari, i profitti, gli interessi, i dividendi,… Di questo metodo non disponiamo dei dati trimestrali.
Infine chiudiamo ricordando perché è importante che il PIL cresca. Affinché si mantenga inalterato il tasso di disoccupazione è necessario che i consumi aumentino al pari della produzione e quindi che le vendite crescano almeno dell’aumento della popolazione (nuovi lavoratori che cercano un lavoro) e del progresso tecnologico (grazie alle scoperte produco di più). Ecco perché speriamo sempre in segno più.

La versione audio: il PIL svizzero cresce

Smart working suona meglio di lavoro a cottimo; vero?   

Qualche giorno fa sono stata invitata a parlare di telelavoro a un evento organizzato tra gli altri da ATED ICT Ticino. Questa associazione diretta da Cristina Giotto è attiva da oltre 50 anni. Il suo scopo, oltre a fornire servizi ai suoi associati, è quello di “favorire l’impego delle nuove tecnologie dell’informazione e comunicazione”. E lo fa non solo nelle aziende, ma anche attraverso progetti specifici pensati per i giovani e per le donne. Tra le tante innovazioni, questa associazione è stata pioniera nel metaverso, mondo virtuale che sembra prendere sempre più piede e importanza.
Mentre di mondo reale abbiamo parlato affrontando il tema delle nuove organizzazioni del lavoro. Per farlo è necessario distinguere tre concetti: il lavoro a domicilio (in remoto), il telelavoro e lo smart working (lavoro agile).
In tutti e tre i casi si parla di lavoro subordinato a qualcuno; ciò che li differenzia è la flessibilità. Nel caso del lavoro domestico e del telelavoro ci sono obblighi in merito al luogo (solitamente la casa), ma anche agli orari; inoltre lo stipendio è pensato in funzione del tempo di lavoro. Le statistiche oggi indicano che il lavoro domestico si è trasformato in telelavoro: l’uso di computer, stampanti e altri prodotti tecnologici è sempre più frequente. Ciò che differenzia lo smart working sono la maggiore flessibilità in termini di tempi e luoghi, oltre all’idea di salario pensato in funzione degli obiettivi e non del tempo.
Eppure pensandoci questa idea non appare tanto nuova. Ve lo ricordate il lavoro a cottimo? Il pagamento avveniva quando si consegnava una certa quantità di oggetti prodotti. Poco importava quanto tempo si era impiegato per svolgerlo, né se si erano coinvolti i membri della famiglia. Detto questo, speriamo che il lavoro agile, nei fatti, non si rilevi un passo indietro anziché un’innovazione.
Il telelavoro e il lavoro agile sono concetti di cui si parla molto, ma quando sono veramente diffusi? A livello svizzero i dati mostrano che fino al 2019 il lavoro da casa era svolto poco e soprattutto dagli uomini. È nel 2020, con la pandemia e con il lockdown, che la percentuale di lavoratori e soprattutto lavoratrici aumentano. In effetti, da questo momento le donne in casa non solo devono occuparsi dei figli nel quotidiano, preoccuparsi della didattica a distanza, ma pure aggiungere il carico lavorativo. Insomma, quella che doveva essere una liberazione e un passo verso la parità di genere si sta rilevando invece l’ennesima gabbia per le carriere femminili.
Per questo, care donne, vi invitiamo a ritornare sui vostri posti di lavoro e riprendere il cammino portato avanti con sacrificio, prima che il nostro ruolo torni a essere confinato, nuovamente, nelle mura domestiche.

La versione audio: Smart working suona meglio di lavoro a cottimo; vero?