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UN FILO TRA SCUOLA E LAVORO «LA FORMAZIONE È DECISIVA»

“Il sistema formativo svizzero ha un rapporto molto stretto con il mondo del lavoro e della formazione professionale già dai 15 anni e poi proseguendo nella specializzazione. La relazione tra il lavoro e la formazione è molto stretta”.
L’economista Amalia Mirante, docente universitaria presso la Scuola Universitaria della Svizzera Italiana e presso l’Università della Svizzera italiana spiega come nella Confederazione formazione e lavoro si intreccino da sempre e come il Canton Ticino stia facendo i conti con uno spostamento dei più giovani verso i cantoni interni, dove gli stipendi sono più alti e le opportunità di carriera più numerose.
La sua analisi si focalizza sui risultati che emergono dal rapporto sulla situazione socioeconomica degli studenti condotta nel 2020 dall’Ufficio federale di statistica (UST) che ha rilevato come nel 2020 “il 38% degli studenti delle scuole universitarie affermava di aver svolto almeno uno stage dall’inizio degli studi. Il 7% di loro aveva adottato provvedimenti concreti in tal senso, e il 18% dichiarava di avere intenzione di effettuare uno stage prima della fine degli studi. Il 18% degli stage è stato effettuato all’estero. Il tipo di stage più frequente durante gli studi è quello obbligatorio e non retribuito”.
Professoressa, nel 2020, il 38% degli studenti delle scuole universitarie affermava di aver svolto almeno uno stage dall’inizio degli studi. Una percentuale importante o ancora troppo bassa? Quanto sono determinanti gli stages per gli studenti?
In Svizzera il sistema di formazione terziaria si suddivide tra la formazione professionale superiore e le scuole universitarie. Tra queste ci sono le università, le scuole universitarie professionali (SUP) e le alte scuole pedagogiche (ASP). Spesso nelle scuole universitarie, la formazione stessa prevede degli stages, che possono essere requisiti per l’accesso o parte integrante del diploma. In alcuni casi gli stages sono addirittura obbligatori.
Il tipo di stage più frequente durante gli studi è quello obbligatorio e non retribuito, è giusto non retribuire gli stagisti?
Sì, dallo studio dell’Ufficio federale di statistica emerge una certa frequenza di stage obbligatori e non remunerati. Nel caso delle università gli studenti hanno dichiarato che uno stage su due era obbligatorio; la percentuale sale addirittura a quasi il 90% nel caso delle scuole universitarie professionali e delle alte scuole pedagogiche. In Svizzera lo stage quindi spesso non è una scelta, quanto un’imposizione del sistema di formazione. Per quanto riguarda la remunerazione, è un argomento del quale si potrebbe parlare ampiamente perché varia da settore a settore. Solo per fare degli esempi, il 90% degli stages svolti dagli studenti di economia è retribuito, mentre lo è solamente il 50% di quelli di medicina. Ma c’è una spiegazione alla non retribuibilità degli stages ed è che spesso lo stage è uno sforzo che i datori di lavoro fanno per formare i giovani; è come un se in realtà dovessimo ringraziare le aziende e gli enti che devono mettere a disposizione un tutor, che abbia anche le competenze formative, ai giovani che seguono gli stages nelle loro imprese. C’è anche un altro aspetto da considerare: a volte, gli stages sono opportunità reciproche. Mi spiego: ad esempio le banche possono cercano gli stagisti perché considerano la loro presenza come un investimento vicendevole. I ragazzi possono fare un’esperienza professionale e le banche individuare i profili più idonei per poi magari assumerli alla fine della formazione.
Esiste il pericolo in Svizzera che gli studenti in stage vengano sfruttati e usati nel mondo del lavoro al posto di veri addetti assunti?
Non ci sono dati certi in merito, ma ci sono persone già formate che vengono assunte come stagisti anche se dovrebbero essere assunte come professionisti a tutti gli effetti. In questo caso, cambia la remunerazione del dipendente e anche il suo grado di sicurezza. Discorso diverso quando uno studente frequenta uno stage obbligatorio: tendenzialmente, in questi casi ci sono accordi e contatti precisi tra le università e le realtà che accolgono lo stagista. Quando invece si esce dal percorso di formazione non ci sono più così tante tutele. I disonesti, che non rispettano remunerazione e ruolo di professionisti che assumono come stagisti, ci sono, ma sono rari. In generale possiamo dire che per gli stages obbligatori nella formazione anche se non trovati direttamente dalle scuole, c’è una certa tutela perché il riconoscimento tendenzialmente prevede un iter che raccoglie i dati dell’esperienza e un rapporto di fine stage.
Quali sono le criticità del mondo del lavoro verso i ragazzi che vi si affacciano per la prima volta?
In genere la formazione in Svizzera è, diciamo, “velocizzata” (tempi definiti per ultimare i percorsi formativi, tentativi massimi per sostenere gli esami, numero obbligatorio di crediti da conseguire in una anno,…) per permettere ai giovani di inserirsi al più presto nel mondo del lavoro. In aggiunta, ci sono anche ragazzi che lavorano mentre stanno studiando e adulti che studiano mentre lavorano. La velocizzazione a cui mi riferisco si applica anche a queste situazioni. Chi per esempio, è studente lavoratore ha programmi di formazione differenti da quelli di chi studia senza lavorare; ad esempio possono esserci corsi di laurea di tre anni per studenti a tempo pieno che devono essere svolti entro 5 anni al massimo. Invece, lo stesso corso di laurea, per chi ha un’attività professionale si estende su 4 anni, ma con un massimo in ogni caso di 6 anni. In Svizzera il periodo di formazione è tendenzialmente fisso e limitato. Se uno studente non consegue il titolo universitario entro il periodo massimo stabilito viene escluso dalla formazione (escludendo evidentemente situazioni eccezionali come malattia o altre). Faccio un altro esempio: una volta che si viene esclusi da una facoltà come economia in una università perché per esempio si è bocciato troppe volte un esame, non si può più seguire un corso di laurea in economia in tutta la Svizzera. Questo, appunto, velocizza i tempi della formazione.

Come reputa la situazione occupazionale attuale in Svizzera dei giovani?
La reputo soddisfacente, ma differenziata. In Canton Ticino l’emigrazione dei giovani e il loro non ritorno comincia ad essere un problema. I giovani vanno sempre più spesso in Svizzera interna perché in Ticino i salari sono più bassi e minori le opportunità. Ticino a parte, nel resto della Svizzera il problema occupazionale per i giovani formati, fortunatamente, non esiste.

Intervista di Carla Colmegna pubblicata su La provincia di Como, 21.09.2023

La versione audio: Un filo tra Scuola e Lavoro – La formazione è decisiva
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C’è lavoro ma non ci sono lavoratori. Che fare?

Il mercato del lavoro svizzero sembra scosso da inedite convulsioni. Secondo alcune stime a fine 2022 si registravano ben 120’000 posti di lavoro non occupati (i disoccupati in tutto il Paese, a titolo di paragone, sono circa 100’000). Numeri a prima vista impressionanti, cresciuti sulla scia della ripresa post pandemica.

I datori di lavoro denunciano gravi difficoltà nel reclutamento: è di due giorni fa l’intervento dell’Unione svizzera degli imprenditori (Usi) con la proposta di alcune piste per rimediare alla carenza di professionisti.

La grande richiesta di particolari profili professionali sta spingendo molti lavoratori di altri Paesi, come sempre accade in queste occasioni, a trasferirsi entro nei confini della Confederazione. Un’immigrazione con ritmi spettacolari che ha aggiunto in solo anno, nel 2022, oltre 70’000 nuovi abitanti al nostro Paese.

I media elvetici d’Oltralpe si interrogano sulla sostenibilità di questa distonia. È possibile per un Paese offrire “troppo” lavoro? Ne parliamo con un’esperta in materia, Amalia Mirante, economista e docente SUPSI.

La prima semplice domanda che sorge, alla luce di questi 120’000 posti di lavoro vacanti, è come faccia a funzionare un’economia se mancano così tante “braccia”?

Facciamo una premessa. È abbastanza tipico quando ci sono anche dei cambiamenti tecnologici, che in realtà possono diventare quasi strutturali, che sia necessario un periodo affinché l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro si aggiusti. I dati ci parlano in Svizzera di 5,4 milioni di posti di lavoro, quindi questi 120.000 posti vacanti rimangono ancora una fetta contenuta. Bisognerebbe guardare questa situazione avendo a mente un panorama più ampio. Stiamo passando attraverso i cambiamenti dettati dalla cosiddetta “rivoluzione industriale 4.0”, fatta di automatizzazione e digitalizzazione. Adesso, a parer mio, siamo nella coda di questa rivoluzione con l’entrata in scena dell’intelligenza artificiale. Questi grandi cambiamenti stanno modificando la stessa organizzazione del lavoro e gli stessi processi produttivi. Guardare solo le carenze odierne di posti di lavoro significa concentrarsi forse un po’ troppo sul breve termine, su quello che le aziende hanno bisogno in questo momento, ma il passaggio che stiamo vivendo è qualcosa di molto più grande.

All’economia mancano profili sufficientemente qualificati?

In realtà una bella fetta di posti di lavoro vacanti è nel settore del commercio, nella manutenzione degli autoveicoli, nel settore alberghiero e della ristorazione, e una fetta “storica”, nella sanità. Non tutti i posti vacanti sono automaticamente da attribuire a categorie che richiedono grandi competenze, grandi capacità, grandi studi.

Non riqualificare, ma amplificare le competenze

Si parla molto di mismatch (discrepanza tra domanda di lavoratori e competenze della forza lavoro). L’ente statale non dovrebbe impegnare maggiori attenzioni e risorse alla riqualificazione dei lavoratori?

Effettivamente l’intervento pubblico concertato con le imprese dovrebbe abituarsi ad anticipare i tempi, pensare a quello che sarà tra 10-15 anni il mercato del lavoro. Più di tutto vanno valorizzate le competenze che già ci sono. Io non parlo volentieri di riqualifica professionale perché secondo me ci sono già tante competenze settoriali che vanno ampliate, aggiornate, rese magari complementari a quelle che già ci sono. Un esempio. Nei supermercati sono entrate in scena le casse automatiche, va bene. Ma anche la varietà dei prodotti sta crescendo enormemente; nella sezione delle farine vi sono 18 tipi di prodotti diversi con prezzi diversi: più che cassieri oggi necessitiamo di consulenti alla vendita a tutto tondo. Si tratta cioè di adattare le competenze già presenti nei professionisti di oggi a un contesto con sempre maggiore digitalizzazione e automazione, e abbiamo il tempo per farlo.

L’abitudine di procurarsi la forza lavoro dall’estero intanto mostra qualche limite. La concorrenza in Europa non manca, ed importare manodopera comincia a farsi difficile per alcune professioni.

Non siamo un’isola, anche gli altri Paesi iniziano riscontrare i medesimi fenomeni di carenza. Attingere alla migrazione genera anche tensioni. Di certo nel resto del Paese, nella Svizzera tedesca, la pressione generata è molto minore rispetto alla Svizzera italiana. Per esempio, in alcuni luoghi, il differenziale salariale è addirittura a favore dei frontalieri rispetto ai residenti.

Il ricorso alla manodopera estera rimane però un po’ nel DNA svizzero. Potremmo provare almeno a dare maggiore importanza e investire di più nell’ammodernamento e nel potenziamento della formazione professionale. Soprattutto in Ticino questo è un settore nel quale purtroppo negli ultimi anni non si è riusciti a investire abbastanza. Occorrerebbe far fronte alla richiesta che arriva dal mondo professionale di figure specializzate in ambito industriale. Bisogna valorizzare di più la Formazione professionale.

I desideri degli imprenditori e quelli dei lavoratori

Secondo gli imprenditori svizzeri bisognerebbe lavorare più ore, più a lungo, tutti.

Da una parte si denuncia la mancanza di personale qualificato in alcuni settori. In contemporanea si chiede che questo personale altamente qualificato vada a lavorare, se mi è permesso, secondo le condizioni di cinquant’anni fa. Si pensi all’idea della pensione a 70 anni. Giusto invece consentire alle persone di poter lavorare anche dopo l’età “legale” del pensionamento: questa tendenza deve essere aiutata e non penalizzata. Però da qui a farne un obbligo ce ne passa.

Le richieste degli imprenditori si scontrano con quello che appare essere il desiderio proprio della parte più qualificata e, dunque, più ricercata della forza lavoro: lavorare, se possibile, a tempo parziale. Intuitivamente la concorrenza ad accaparrarsi i lavoratori dovrebbe spingere verso un miglioramento delle condizioni che si offrono.

Questo lo hanno capito le grandi aziende, le quali hanno già cominciato a offrire tutta una serie di benefit. Stanno cominciando a cambiare le condizioni quadro dei loro posti di lavoro perché si sono rese conto che effettivamente le persone più qualificate, più competenti, che possono portare un beneficio alle aziende oggi non chiedono a volte il salario più alto, che in quelle posizioni lavorative non è tanto ciò che fa la differenza tra un’azienda e un’altra. Ciò che chiedono è per esempio la possibilità di avere dei congedi parentali, come offrono già alcune grandi banche o le grandi catene di distribuzione. Le stesse grandi imprese stanno introducendo anche per i padri la possibilità di lavorare a tempo parziale, anche in posizioni quadro. Oppure pagano l’abbonamento in palestra, o corsi formativi anche fuori dall’ambito professionale, eccetera… Questa non è una novità, poiché sovente nella storia sono stati addirittura gli imprenditori e gli industriali a migliorare le condizioni del lavoro. Certo per i piccoli e medi imprenditori il discorso è un po’ differente, però anche lì si fanno tentativi. Offrendo modelli come il lavoro a distanza e la settimana corta di quattro giorni.

Riguardo al settore delle piccole-medie imprese si parla un po’, tra gli analisti d’Oltralpe, della persistenza di aziende cosiddette “zombie”, ovvero che sopravvivono un po’ sull’onda lunga degli aiuti dati negli ultimi anni dallo Stato, e che gonfiano così il mercato del lavoro.

Per le piccole e medie imprese credo che il colpo relativo alla crisi Covid sia stato duro e pesante. Adesso le stesse aziende devono confrontarsi con un insieme di costi cresciuti in maniera importante. Sicuramente ci sono state realtà tenute “in piedi” in maniera un po’ artificiale, ma non si poteva fare altrimenti. Oggi vediamo che il numero di aziende che dichiarano fallimento sta lentamente aumentando, quindi c’è indubbiamente uno strascico in questo senso .

Intervista da Il Federalista

L’economia e la scuola

Durante queste settimane nei comunicati delle aziende vediamo dare grande risalto alle fotografie dei ragazzi e delle ragazze che hanno terminato il loro periodo di apprendistato o di formazione professionale. Riconoscerne i meriti è importante sia per i ragazzi che per le aziende.
I nostri giovani che non scelgono di proseguire gli studi nelle scuole medio superiori sono spesso poco valorizzati dalla società e dall’opinione pubblica. Pensiamo a quanto avviene nell’ambito delle discussioni sul superamento dei livelli. Invece che preoccuparsi di valorizzare chi ha talenti, capacità e maniere di apprendere differenti, si parla esclusivamente di consentire a tutti l’accesso agli studi uniformando il percorso formativo. Ma i ragazzi sono diversi e la loro diversità è la nostra ricchezza. Le aziende, quelle che si impegnano nella loro formazione, lo sanno bene. Per un’impresa non è né facile né vantaggioso dedicare risorse, tempo ed energia nella preparazione di questi giovani. Eppure in nome di un grande patto sociale, nel nostro Paese ancora oggi possiamo vantare un sistema duale che ci è invidiato da tutto il mondo.
Affinché questo patrimonio non si disperda e anzi diventi ancora più valorizzante e valorizzato si può fare tanto. Si può innanzitutto riconoscere e premiare talenti e capacità differenti cominciando con scuole che diventino ambienti piacevolmente vivibili e socializzanti, con spazi e infrastrutture dignitose. Senza dimenticare, naturalmente, l’importanza di avere docenti preparati, competenti e motivati che li accompagnino nella formazione. E anche in questo senso possiamo fare molto. Leggiamo che nei prossimi anni in tutta la Svizzera e in tutti i livelli scolastici ci sarà una penuria di insegnanti. Questo dipende anche dalle condizioni di lavoro e dal riconoscimento sociale che queste figure fondamentali per lo sviluppo della nostra società sembrano aver perso negli ultimi decenni. E tra tutti, se possibile, probabilmente i meno valorizzati sono proprio i docenti delle formazioni professionali. Eppure sono loro che fanno da ponte tra i giovani, le famiglie e le aziende.
Aziende che a loro volta dovrebbero essere sostenute, aiutate e coinvolte maggiormente nella formazione degli apprendisti o dei giovani collaboratori. Sì perché formare non significa riempire contratti e rispettare requisiti burocratici. Per formare meglio le aziende necessiterebbero di essere a loro volta formate di più. E per poter svolgere più adeguatamente il loro ruolo le aziende dovrebbero essere coinvolte maggiormente nei percorsi formativi.
Non c’è un mondo dell’economia in contrasto con un mondo della scuola perché ciò che li lega sono proprio i nostri e le nostre apprendiste.
Articolo tratto dal Corriere del Ticino del 19.07.2022

La versione audio: L’economia e la scuola
Foto (e complimenti!) degli apprendisti e delle apprendiste che hanno ultimato il tirocinio alla Coop (Svizzera Italiana)

Formazione professionale: una scelta, non un ripiego

Abbiamo sentito parlare tanto di istruzione in queste ultime settimane in Ticino. Abbiamo sentito politici, sindacalisti, associazioni di genitori. Peccato non aver sentito chi la scuola la fa, dalla mattina alla sera, anno dopo anno, allievo dopo allievo. E peccato non aver sfruttato quest’occasione per elogiare il nostro sistema duale. La collaborazione tra imprese e scuole è forse il principale fattore di successo della Svizzera
E invece in queste settimane abbiamo sentito parlare di giovani privati della possibilità di eccellere a causa dei livelli nelle scuole medie; di giovani indirizzati verso scelte di serie B, riferendosi al mondo professionale. Ma spesso queste narrazioni d’impatto, più che narrarci la realtà sono rappresentazioni ideologiche che vedono solo negli studi universitari una forma di successo.
La realtà è un’altra. Ogni anno 1’400-1’500 ragazzi e ragazze che finiscono la quarta media in Ticino scelgono di seguire una formazione professionale di base attraverso una scuola a tempo pieno oppure in parallelo al lavoro in azienda (apprendistato). E di loro si occupano oltre 1’400 docenti e centinaia di aziende attive in tutti i settori economici. Un mondo intero.
Un mondo che ora dovremmo iniziare a valorizzare con maggior convinzione; un mondo a cui dare il giusto merito e riconoscimento. I ragazzi e le ragazze che decidono di entrare nel mondo del lavoro o di scegliere le scuole professionali meritano il nostro sostegno e appoggio. Eppure verso di loro, soprattutto in Ticino, abbiamo un atteggiamento critico. Il resto della Svizzera sembra al contrario sostenere, accompagnare e incoraggiare i suoi giovani “professionisti” anche dopo la fine della formazione. Il mercato del lavoro li cerca, li vuole e li premia. Come deve essere: dietro alla loro formazione c’è studio, fatica e disciplina esattamente come i loro compagni e compagne che hanno scelto formazioni di cultura generale.
Questo purtroppo non sembra accadere in Ticino. Probabilmente la causa principale è la fragilità del mercato del lavoro ticinese. E allora perché non concentrare le nostre risorse e i nostri sforzi in questa direzione? Stipendi bassi, maggiore precarietà, minori opportunità potrebbero spingere i genitori a ricercare nella formazione accademica più certezza per i loro figli.
Ma la certezza, al contrario, dobbiamo dargliela noi offrendo la migliore formazione possibile e le più ampie competenze ottenibili.
Forse dovremmo smettere di interrogarci “su livelli sì, livelli no” e iniziare a parlare di livelli “come”: con quali obiettivi? I risultati sono all’altezza degli obiettivi prefissati? Le risorse sono sufficienti per questi obiettivi?
Se ci avviciniamo a problemi come questi lasciando da parte lo spirito da tifoseria, forse faremo un favore a tutti, soprattutto alla scuola.
Tratto da L’Osservatore del 29.01.2022

La versione audio: Formazione professionale: una scelta, non un ripiego
Fonte: Scuola Universitaria Federale per la Formazione Professionale (SUFFP)

La formazione professionale nella rivoluzione 4.0


Da sempre gli individui si interrogano sulla sostenibilità dell’innovazione tecnologica. Sin dalla prima rivoluzione industriale il progresso fu accolto con sospetto. Non mancarono neppure veri e propri atti di distruzione. Basti pensare che il termine sabotaggio deriverebbe proprio dal gesto degli operai francesi di mettere negli ingranaggi dei macchinari gli zoccoli di legno, i “sabots”.
Da sempre però la storia mostra anche che i Paesi più benestanti sono quelli in cui il progresso tecnologico e l’innovazione la fanno da padroni. Dobbiamo quindi affrontare la rivoluzione 4.0 con questo spirito ottimista accompagnato dalla consapevolezza che anche in questo caso ci saranno vincitori e perdenti. Ma oggi rispetto al passato possiamo rendere sostenibile questo processo. L’automazione, la digitalizzazione e la robotizzazione dovrebbero in realtà liberare l’individuo dalle attività più faticose.
Lo strumento principale di cui disponiamo oggi è proprio la formazione. L’aumento delle competenze consente di sfruttare a proprio vantaggio il progresso anziché diventarne vittime. E in questo processo la formazione professionale non deve limitarsi ai giovani. Al contrario. È sulle persone che già dispongono di qualifiche specifiche che la formazione continua può portare importanti benefici in questa fase di transizione. L’invecchiamento demografico, la denatalità, l’aumento dell’aspettativa di vita, fanno sì che diventi prioritario investire anche sugli adulti. Così senza parlare di vera e propria riqualifica professionale quando non è strettamente necessaria, si possono creare percorsi di accompagnamento e di avvicinamento ai nuovi sistemi produttivi. Nessuno scontro tra algoritmi e persone, nessuna battaglia tra robot e individui. Al contrario, un progresso tecnologico al servizio dell’essere umano che potrebbe avverare la profezia dell’economista John Maynard Keynes che prevedeva per l’individuo un massimo di 15 ore lavorative alla settimana. E chissà che non sia proprio la formazione professionale la chiave di svolta.

Contributo alla Rivista Skilled – Scuola Universitaria federale per la formazione professionale (SUFFP) -27.09.2021

La versione audio: La formazione professionale nella rivoluzione 4.0
La non neutralità dell'algoritmo - La Città Futura
Fonte immagine: https://www.lastampa.it/rubriche/public-editor/2019/03/05/news/gli-algoritmi-in-redazione-1.3368558

Care e cari apprendisti, grazie di cuore!

Le vacanze sono terminate. Quale modo migliore per ricominciare se non quello di parlare dei nostri e delle nostre apprendiste? Grazie al Corriere del Ticino per la pubblicazione il 22 luglio 2021 di questo articolo.

Auguri e congratulazioni a tutti i ragazzi e le ragazze che hanno finito il loro apprendistato. Alle famiglie che in questi anni li hanno sostenuti. E ai docenti e alle docenti che li hanno accompagnati in questo risultato.
Il sistema duale (in collaborazione tra imprese e scuola) è una grande ricchezza per la Svizzera. Per alcuni è il principale fattore del successo economico elvetico, sia per la formazione che per il mondo del lavoro. In effetti, con la formazione di base in azienda e nelle scuole professionali, i giovani ottengono contemporaneamente una formazione qualificata e un accesso rapido e diretto al mercato del lavoro. Non a caso i dati sulla disoccupazione giovanile nel nostro Paese sono molto incoraggianti.
Eppure, diamo poco spazio e poco riconoscimento a ragazze e ragazzi che hanno ultimato il percorso di apprendistato o si sono diplomati in una scuola professionale. A cominciare dall’attenzione mediatica. Potrei essermi distratta ma non mi sembra di aver letto i nomi dei meccanici, delle assistenti di studio medico, dei cuochi o delle parrucchiere pronte a entrare a pieno titolo nel mondo del lavoro. Mentre i giornali pubblicano i nomi di chi ha ottenuto la maturità liceale, e ne siamo felici. Ma la finalità della formazione è sempre la stessa: imparare. Dotarsi di una cassetta degli attrezzi da utilizzare nel mondo del lavoro. Sperimentare metodi che consentano di risolvere i problemi. Insomma, diventare adulti consapevoli e indipendenti che sappiano contribuire al mondo professionale. Che si scelga il liceo, la commercio o un apprendistato.
In Ticino, a differenza di quanto accade nel resto del Paese, sembriamo ricordarci dei nostri apprendisti solo quando bisogna fare la campagna di reclutamento per i posti di tirocinio. Perché? Perché non diamo il corretto valore e il giusto riconoscimento alle scuole professionali e alle formazioni che offrono? Probabilmente alla base di questa differenza rispetto a quanto succede oltre Gottardo non ci sono ragioni legate allo status sociale, o a un certo strisciante classismo. Piuttosto vi si riflette la paura per il futuro. Il mercato del lavoro ticinese è precario, incerto ed estremamente concorrenziale. Una concorrenza che si gioca sulle competenze, certo, ma ancora di più sui salari. E forse l’idea di consentire ai nostri figli di avere un titolo di studio “scolastico” più alto probabilmente ci rassicura. E quindi, sin dalla nascita cerchiamo di indurli a studiare. Ma anche la formazione professionale è studio, disciplina, fatica. Quindi facciamo le nostre congratulazioni a tutti i ragazzi e le ragazze che hanno finito il loro apprendistato. Con il loro lavoro hanno permesso alla Svizzera di mantenere un benessere tra i più elevati al mondo. E lo faranno ancora in futuro. Bravi, brave, e grazie!

Tratto da Corriere del Ticino, 22.07.2021

La versione audio: Care e cari apprendisti, grazie di cuore!
In futuro anche gli apprendisti avranno il salario minimo – Uniteis e.V.