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Gli Stati Uniti falliranno?

Tempi duri per il Presidente americano Joe Biden che si trova in questi giorni in Giappone dove si sta svolgendo il vertice del G7 dove si incontrano i Paesi economicamente più avanzati del mondo. Rimarrà poco questa volta, perché deve tornare a casa e fare in modo che l’America non fallisca. Avete letto bene, gli Stati Uniti d’America, il paese più potente al mondo, arrischiano il fallimento (o se preferite un termine più di moda il default).

Il debito pubblico è uno strumento importantissimo nelle mani dello Stato per fare le politiche economiche attive in risposta a un periodo congiunturale negativo. In questo caso lo Stato spende di più di quanto incassa e realizza un deficit. La somma di tutti i deficit rappresenta il suo debito pubblico.

Tendenzialmente i paesi non chiedono i prestiti alle banche, ma emettono le obbligazioni (promesse di pagamento) su cui gli Stati pagano i tassi di interesse. Una volta erano i cittadini e le aziende del paese stesso a prestare i soldi al loro governo; oggi in un mondo sempre più interconnesso anche gli altri Stati e le aziende estere comprano “debito pubblico”.

La maggioranza delle nazioni non si dà limiti al debito. Ma non per tutti è così. Ad esempio la Svizzera ha votato il freno all’indebitamento che prevede la possibilità di avere dei deficit nei momenti di bassa congiuntura che però devono essere compensati da eccedenze quando le cose vanno bene.

Gli Stati Uniti invece hanno il tetto massimo al debito. Questo strumento è stato introdotto nel 1917 e prevede che sia il Congresso a votare il limite massimo del debito. Da quando è stato introdotto, il tetto del debito è stato aumentato circa 80 volte portandolo ad oggi a 31’400 miliardi di dollari (28’500 miliardi CHF), equivalente al 120% del prodotto interno lordo americano.

Il 1 giugno si dovrebbe quindi arrivare al limite massimo e questo significa che non ci sono più soldi da spendere. Naturalmente la scelta di aumentarlo è esclusivamente politica. Diventa difficile attuarla quando Camera e Senato (che sono le due istituzioni americane) sono una nelle mani repubblicane e l’altra in quelle democratiche.

I repubblicani chiedono di ridurre notevolmente la spesa pubblica nei prossimi 10 anni, i democratici non hanno intenzione di farlo perché metterebbe a rischio la loro attività politica.

Non è la prima volta che assistiamo a questa prova di forza. E quindi dormiamo pure sonni tranquilli: né repubblicani né democratici vorranno far fallire gli Stati Uniti d’America.

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UBS-CS: Non c’era più tempo ma è stato un duro colpo

Un altro duro colpo è stato inflitto alla reputazione della Svizzera. La fine di Credit Suisse è una batosta per tutti. E ai nostri occhi tornano le immagini degli aerei di Swissair rimasti a terra senza carburante o quelle del 2008 quando lo Stato salvò UBS.
Inutile fare gli sciacalli su questa decisione sofferta quanto obbligata. Inutile puntare il dito e sollevare questioni che nulla hanno a che fare con il sistema finanziario e monetario nazionale e internazionale e con la sua regolamentazione. Non ora, non in questo momento. Adesso quello che dobbiamo augurarci tutti è che l’acquisizione da parte di UBS avvenga causando il minor danno possibile. Ci auguriamo che non sarà necessario ricorrere alla garanzia dello Stato. Come ci auguriamo che a pagare ancora il prezzo di un sistema finanziario che sfugge oramai a qualunque controllo non siano i collaboratori e le collaboratrici di entrambe le banche.
Poteva fare qualcosa di diverso il Consiglio Federale? Certo, avrebbe potuto in passato esercitare pressioni per spingere allo scorporo della parte di Credit Suisse svizzera rispetto alle attività di investimento disastrose a livello internazionale. Sono anni che anche noi evidenziamo gli errori e gli scandali: Wirecard, Archegos Capital Management, Greensill Capital, multe in tantissime nazioni per storie di corruzione e investimenti in aziende che violano i diritti umani, pessime scelte strategiche e operative. Ma non viviamo in regimi totalitari, per fortuna, che possono intervenire sulla proprietà privata. Certo, la politica avrebbe potuto pensare a regolamentazioni più severe per le responsabilità dirigenziali. O ancora avrebbe potuto chiedere maggiori controlli alla FINMA. Ma con i se e con i ma, non si sarebbe data risposta alla crisi di Credit Suisse.
Le strade possibili sul tavolo del Consiglio Federale erano tre: far fallire Credit Suisse, pensare di acquistarla o sostenere caldamente l’acquisizione di UBS.
La prima ipotesi avrebbe causato un durissimo colpo all’economia nazionale e alla stabilità del nostro sistema finanziario: altre banche avrebbero rischiato il fallimento travolgendo aziende e famiglie. La crisi avrebbe toccato tutti noi. E non solo. Altre nazioni, data l’internazionalità di Credit Suisse, avrebbero pagato lo stesso prezzo. Questo ce lo ha insegnato il fallimento di Lehman Brothers.
L’acquisto da parte della Confederazione e quindi la nazionalizzazione avrebbe portato il Consiglio Federale a occuparsi di compiti che non gli competono.
Infine, l’unica via praticabile: sostenere e magari anche forzare l’acquisizione da parte di UBS. Il Consiglio Federale avrebbe potuto invitare all’acquisizione anche altre banche oltre UBS? Forse, ma ci sarebbe voluto tempo, e di tempo, il Credit Suisse, non ne aveva più.

Tratto dal Corriere del Ticino 21.03.2023

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