Sotto l’albero? Le previsioni del KOF

Anche quest’anno il KOF ci fa il suo regalo e mette sotto l’albero di Natale le previsioni economiche. Il KOF, che è il centro di ricerche congiunturali del politecnico federale di Zurigo, ci presenta i dati per il 2023 e per il 2024.

In generale constatiamo che a livello mondiale il Prodotto Interno Lordo (PIL), che ricordiamo è un indicatore del valore della produzione di beni e servizi e in un certo senso anche del benessere economico, mostra segni di rallentamento rispetto alla crescita del 2021 (anno post-Covid) e del 2022.
In effetti, il PIL mondiale nel 2023 aumenterà dello 0.5%, quello dell’Unione Europea e degli Stati Uniti dello 0.3% e quello cinese del 4.5%. Il PIL in Svizzera invece crescerà dell’1% (senza conteggiare l’effetto degli avvenimenti sportivi internazionali). La crescita dipenderà anche l’anno prossimo dal consumo privato (+2%), dagli investimenti (+1.3%) e dalle esportazioni (+2.1%). La spesa pubblica, come era prevedibile dopo anni di grandi interventi, si ridurrà del 2.9%. Detto questo però dobbiamo fare alcune considerazioni. Primo: le previsioni dicono che il settore delle costruzioni soffrirà (-0.7%), mentre terranno gli investimenti in macchinari e beni strumentali (2.3%). Siamo dispiaciuti per il settore delle costruzioni, ma la situazione poteva essere più preoccupante se a mostrare un andamento negativo fosse stato il settore dei macchinari. In effetti, questo settore indica il sentimento degli imprenditori. Se si aspettano un andamento positivo e quindi di aumentare le vendite, aumenteranno le spese in macchinari necessari per produrre. Se invece hanno un sentimento negativo, non sostituiranno nemmeno i macchinari che diventano vecchi oppure che si rompono. Secondo: anche il settore del commercio estero non ci fa dormire sonni troppo tranquilli. In effetti, la crescita sia dei beni che dei servizi venduti all’estero appare piuttosto ridotta rispetto agli anni passati. Questo dipende dalla situazione economica degli altri Paesi: se ci sono difficoltà economiche, non compreranno i nostri prodotti. Ma anche le importazioni sono da monitorare. Ricordiamo che la Svizzera non ha grandi materie prime per cui per produrre necessita di comperare dal resto del mondo materiali e prodotti semilavorati. Per questa ragione se le importazioni rallentano significa che produrremo meno e che quindi esporteremo meno.

Ma perché gli economisti sono ossessionati dall’analisi del prodotto interno lordo? Semplice perché dietro al prodotto interno lordo ci sono i concetti di produzione, occupazione e reddito. Se il PIL non aumenta a sufficienza, vuol dire che non bisogna produrre. Se non bisogna produrre, le aziende non hanno bisogno di dipendenti E questo significa licenziamenti. Senza un lavoro non si ha un reddito. Questo implica per lo Stato due fatti: da una parte aumentano le spese per le assicurazioni sociali (per esempio l’assicurazione disoccupazione), dall’altra parte si riducono le entrate (se si riduce il reddito si pagano meno imposte).
Sappiamo che il PIL deve crescere a un livello tale da compensare l’aumento della forza lavoro e l’aumento del progresso tecnologico. Se questo avviene il tasso di disoccupazione rimane stabile. Guardando i dati del 2023 e del 2024 possiamo dire che fortunatamente l’impatto sul mondo del lavoro sarà contenuto.

Tutte queste previsioni però si avvereranno a patto che si verificheranno le condizioni immaginate dal KOF: un’inflazione contenuta, un approvvigionamento energetico garantito e la fine dei lockdown legati alla pandemia.

Che dire a questo punto? Beh, caro Babbo Natale potresti fare in modo che le previsioni del KOF si avverino?

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Quanto vale fare la mamma o il papà?

C’è differenza tra lavoro remunerato e lavoro non remunerato? Sicuramente in apparenza sì: le prime attività sono retribuite, mentre nel secondo caso non si guadagna un reddito. Dove non troviamo differenza è nella loro importanza.

La statistica appena pubblicata dall’ufficio federale quantifica le ore di lavoro non remunerato e il loro valore. Se nel 2020 abbiamo lavorato in Svizzera per 7.6 miliardi di ore retribuite, quelle non retribuite sono state 9.8 miliardi, che significa circa 1’350 ore a persona in un anno. Guardando alla composizione in termini di genere emerge che il 60.5% del lavoro non retribuito è svolto dalle donne; percentuale che si capovolge (61.4%) in favore degli uomini quando si guarda a quello remunerato.

Ma che cosa facciamo in tutte queste ore di lavoro non pagate? La maggior parte del tempo, circa il 73%, la dedichiamo ai lavori domestici, mentre il 20% circa è destinato a lavori di assistenza a bambini e adulti della propria economia domestica. L’8% del tempo invece va ad attività di volontariato.

Così scopriamo che trascorriamo la maggior parte del nostro tempo a cucinare, fare le pulizie, giocare con i nostri bambini e lavare i piatti. Fare il bucato e stirare ci occupa per oltre 500 milioni di ore all’anno.  

Ma come fa la statistica a valutare il valore monetario di questo lavoro non retribuito? Semplice, si moltiplicano le ore effettuate per il valore medio sul mercato del lavoro. Concretamente ci si domanda quanto costerebbe assumere una persona per fare quella medesima prestazione.

Allora scopriamo che fare i lavori domestici costerebbe quasi 320 milioni di franchi, preparare i pasti 96, curare gli animali domestici, le piante e il giardino quasi 40. E che dire del fatto che dovremmo pagare oltre 63 milioni di franchi per occuparci dei nostri bambini giocando con loro, facendogli fare i compiti o accompagnandoli nelle loro attività? Senza considerare i 17 milioni per dargli da mangiare, lavarli e metterli a letto. Il volontariato da parte sua costerebbe oltre 33 milioni di franchi. Il totale del valore delle nostre attività non remunerate è di quindi 434 milioni di franchi.

Permettetemi però una considerazione da economista controcorrente. Rimango fermamente convinta che ci sono attività che hanno un valore, ma che non hanno un prezzo. E sono proprio quelle attività che fortunatamente, e sottolineo fortunatamente, non passano attraverso il mercato. Il lavoro di un’educatrice o di un educatore che si occupa dei nostri bambini per quanto professionale e amorevole sia, non sarà mai la stessa attività di chi la pratica gratuitamente. In economia questi beni si chiamano beni relazionali, e per quanto il mercato cerchi di creare dei facsimile, la natura stessa e l’essenza legata alla loro gratuità, impediranno di poterli ricreare e venderli ad un prezzo qualunque.

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La Befana si porterà via anche l’inflazione?

L’inflazione ha raggiunto davvero il suo picco? Probabilmente è ancora presto per rispondere, anche se siamo ben contenti di vedere che in molte nazioni europee i prezzi iniziano a rallentare, se non addirittura in alcuni casi a scendere. Così è capitato per esempio in Spagna dove il dato di novembre mostra una riduzione di -0.1% rispetto al mese precedente (+ 6.8% su base annua, ma in riduzione rispetto al 7.3% di ottobre). Lo stesso è successo in Germania dove la riduzione è stata di -0.5% mensile (+10% annuale) e a livello medio nella zona Euro dove i prezzi al consumo dovrebbero essere scesi di -0.1% attestandoti a + 10% su base annua (nel mese di ottobre il dato era del 10.6%). Purtroppo i prezzi appaiono ancora in aumento in Francia (+0.4%) e in Italia (+0.5%).

Le buone notizie arrivano anche dai prezzi alla produzione, che lo ricordiamo sono i prezzi dei prodotti nel momento in cui escono dalle fabbriche, quindi senza i costi di trasporto o di logistica. Sempre nell’Eurozona si segnala un contenimento su base annua al +30.8% (il mese precedente il dato era del 41.9%), in riduzione del -2.9% su base mensile. Questa tendenza è confermata anche in Francia e in Italia. Certo non si può ancora dire che il peggio sia passato, ma ai nostri occhi appaiono alquanto particolari le dichiarazioni molto pessimiste della presidente della Banca Centrale Europea (BCE) Christine Lagarde che dice di non vedere segnali di rallentamento. È anche vero che la BCE è stata tra gli ultimi a riconoscere l’esistenza del fenomeno inflattivo e a prendere misure di politica economica…
Per quanto ci concerne da parte nostra segnaliamo nelle ultime settimane la stessa tendenza al ribasso anche nelle materie prime e nelle fonti energetiche. Manteniamo una certa cautela poiché sappiamo che questa decelerazione potrebbe anche essere, purtroppo, il segnale di un’anticipazione del rallentamento economico che tutte le nazioni più avanzate attendono per l’anno prossimo.

Al momento però i dati del prodotto interno lordo (PIL) del terzo trimestre mostrano ancora in generale un tasso di crescita, seppur piccolo, positivo. Anche gli indicatori del mercato del lavoro sembrano ancora mostrare un buon andamento.
Pure la Svizzera non fa eccezione. Questa settimana i dati del prodotto interno lordo dell’ultimo trimestre hanno evidenziato una crescita dello 0.2%, con indicazioni abbastanza positive da quasi tutti i settori economici (si segnalano purtroppo gli andamenti negativi del settore delle costruzioni e di quello finanziario). Sul fronte dei prezzi, buone notizie: per il secondo mese di fila l’inflazione si ferma al 3%. Anche i dati sulla disoccupazione sono positivi.

Per le prossime settimane, quindi, non ci resta che incrociare le dita e pensare a trascorrere un buon Natale sperando che la Befana, insieme alle feste, si porti via anche l’inflazione…

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Aumentano i frontalieri, partono i residenti

La statistica svizzera questa settimana ci dà molte indicazioni su quanto sta accadendo sul mercato del lavoro in Svizzera e in Ticino.
Gli impieghi in Ticino nel III trimestre (luglio-settembre) sono aumentati sia rispetto ai tre mesi precedenti, sia rispetto a un anno fa. Oggi si contano quasi 243 mila posti di lavoro totali; di questi 137 mila sono occupati da uomini e 106 mila da donne. I posti di lavoro a tempo pieno sono la maggioranza e occupati prevalentemente da uomini (158 mila posti, di cui 109 maschili e 49 femminili). Al contrario degli 85 mila posti a tempo parziale, ben 58 mila sono occupati da donne e 28 mila da uomini. I posti di lavoro in equivalenti a tempo pieno sono oggi circa 199 mila (122 maschili e 77 femminili). Ma è guardando ai settori che scopriamo dinamiche differenti: i posti di lavoro nel settore secondario sono rimasti quasi stabili rispetto a un anno fa; l’aumento è stato registrato soprattutto nel terziario (circa 8 mila posti in più su base annuale, 150 su base trimestrale).
Guardando a questi dati saremmo quindi tentati di parlare di ottime notizie. Ma come sempre c’è un ma…
I dati pubblicati la settimana scorsa dalla Rilevazione sulle forze di lavoro in Svizzera (RIFOS) confermano purtroppo dinamiche già evidenziate tempo fa. Primo: in Ticino ci sono 5’700 svizzeri in meno che lavorano a tempo pieno rispetto a un anno fa (una riduzione di oltre il 7%). Di questi 3’800 sono uomini e 1’800 donne. Guardando in totale (tempo pieno e tempo parziale) la situazione non migliora di molto: il saldo negativo è di 500 uomini in meno e ben 2’500 donne svizzere. Al contrario, c’è stato un importante aumento di occupati stranieri: in totale ci sono 3’100 persone in più (con un aumento di 5’600 persone che hanno un impiego a tempo pieno), 2’900 donne e 200 uomini. Le spiegazioni di questi dati possono essere molteplici: tanti svizzeri dell’era dei baby boomer escono dal mondo del lavoro e vanno in pensione, ci sono meno nascite e quindi meno giovani che cominciano a lavorare e in aggiunta i tempi di formazione sono più lunghi.
Detto questo, non possiamo prescindere da un’analisi del frontalierato, soprattutto nel Cantone Ticino. Grazie al lavoro appena pubblicato dall’Ufficio di statistica cantonale possiamo comprendere molte dinamiche. Per inciso, cogliamo l’occasione per elogiare le analisi svolte da questo ufficio e l’eccellente lavoro fatto dai suoi ricercatori e ricercatrici che ci consente di comprendere la nostra realtà. In questo caso, il recente studio mette in evidenza che “nel tempo, aumentano le persone che da residenti diventano frontaliere, mentre diminuiscono quelle che da frontaliere diventano residenti”. Ed è forse proprio questo il punto che tralasciamo troppo spesso nelle azioni di politica economica di questo Cantone. Il problema non sta di certo nel fatto che si ricorra a manodopera estera per rispondere alle mancanze di personale (è sottinteso fintantoché questa scelta non dipende esclusivamente da un salario più basso ed esercita una concorrenza “sleale” che porta i residenti a dover cercare lavoro altrove). Il problema sta nel fatto che una politica di sviluppo cantonale dovrebbe avere come obiettivo che queste persone si insedino nel nostro Cantone e diventino parte attiva della nostra comunità. Certo, le soluzioni non sono facili, ma almeno parlarne apertamente consentirebbe di lavorare tutti nella stessa direzione.

La Svizzera e la crisi che (forse) verrà

È appena arrivata una buona notizia: l’inflazione negli Stati Uniti in ottobre è aumentata meno del previsto. È vero che si parla ancora di tassi elevatissimi: il 7.7% non è un rialzo che non desta preoccupazioni. Tuttavia gli analisti si aspettavano un dato peggiore. Analisti che ora si interrogano sui prossimi passi della Federal Reserve (Fed), la banca centrale degli Stati Uniti. Finora la Fed ha seguito una politica monetaria aggressiva: è stata tra le prime banche centrali ad aumentare i tassi di interesse di riferimento ed è stata una di quelle che lo ha fatto anche in maniera piuttosto vigorosa. Ancora l’ultimo aumento deciso la settimana scorsa, ed è stato il quarto di fila, è stato di 0.75 punti percentuale. Questo rialzo ha di fatto portato il costo del denaro tra il 3.75% e il 4%. Come tutte le banche centrali anche la Fed ha come obiettivo la stabilità dei prezzi, stabilità che si identifica con un aumento dell’inflazione entro il 2%. Evidentemente in questo momento storico non c’è nessun paese che possa dichiararsi vicino a questo obiettivo.

Nessun paese, tranne la Svizzera. L’ultimo dato pubblicato dall’Ufficio federale di statistica parla di un aumento dei prezzi del 3%. Decisamente ben lontano dal quasi 12% dell’Unione europea. Le ragioni di questa differenza sono molte, tra queste le più importanti sono una moneta forte che consente di comperare beni dall’estero ad un “prezzo inferiore” e il fatto che il nostro carrello della spesa è composto in maniera un po’ differente da quello degli altri Paesi. Nel nostro caso i beni importati rappresentano solo il 25% della spesa; il 75% sono beni e servizi prodotti all’interno della Svizzera. Questo fa sì che, per esempio, il prezzo delle fonti energetiche come petrolio e gas incida in maniera limitata. Nonostante ciò, anche la Svizzera non può chiamarsi fuori dal rallentamento economico che tocca tutte le economie avanzate e che si prospetta piuttosto rilevante nei mesi a venire.

In effetti, gli ultimi indicatori mostrano ad esempio che la fiducia dei consumatori elvetici è crollata a livelli bassissimi. Bisogna tornare ai primi dati pubblicati nel 1972 per vedere segnali di sfiducia così grandi. Ma non è solo questo a preoccuparci. Le economie moderne sono fortemente connesse tra loro. Se alle preoccupazioni interne aggiungiamo le difficoltà di approvvigionamento sui mercati, le problematiche relative alle fonti energetiche, il clima di sfiducia generale, la situazione deve farci riflettere.

Attenzione però alle scelte affrettate e agli appelli di intervento dello Stato. Prima di tutto dobbiamo comprendere se questa crisi ci sarà, quanto durerà e quali saranno i settori che necessiteranno di sostegno. Solo dopo, potremo intervenire, se necessario e in misura mirata.

Tratto da L’Osservatore, 12.11.2022

L’inflazione corre o sta rallentando?

L’inflazione continua a correre. Ma non per tutti alla stessa velocità. I dati appena pubblicati dalla Germania indicano che nel mese di ottobre i prezzi sono aumentati raggiungendo il livello storico del 10.4%; mai così alto dal 1951. Il mese scorso gli aumenti erano stati, sempre su base annuale, del 10%. E le cose non vanno bene nemmeno nel resto dell’Unione Europea, dove ormai il tasso di inflazione ha raggiunto mediamente quasi il 12%. Purtroppo quello che si registra nei paesi è oramai un aumento generalizzato e non più solo limitato al settore energetico. Anche fare la spesa, comprare frutta, verdura e pasta, sembra essere diventata un’attività di lusso. Questo può diventare un grandissimo problema per i cittadini che faticano ad arrivare alla fine del mese, e nel tempo stesso un grave problema per l’economia. La pura frena i consumi che frenano la produzione. Il vento di recessione soffia forte sull’Europa. A conferma i dati appena pubblicati della Gran Bretagna che mostrano un tasso di decrescita del prodotto interno lordo nell’ultimo trimestre -0.2%.

E le prospettive rimangono preoccupanti anche per le altre nazioni. Non a caso tutte le organizzazioni e le istituzioni internazionali vedono continuamente al ribasso le previsioni di crescita. Ma la crescita non è un concetto astratto o una fissazione degli economisti. La crescita, dettata da un aumento della domanda, al momento è l’unico fattore in grado di garantire occupazione e quindi posti di lavoro.

Ma il vento non sembra soffiare dappertutto alla stessa maniera. I dati appena pubblicati negli stati Uniti parlano di un aumento dei prezzi del 7.7%. Certo parliamo sempre di un rialzo importante, ma che mostra un calo rispetto al mese precedente quando l’inflazione segnava +8%.

È ancora presto per attribuire questo rallentamento alle politiche monetarie fortemente restrittive volute dalla Federal Reserve (Banca centrale degli Stati Uniti) che prima di tutte le altre banche centrali ha deciso importanti aumenti dei tassi di interesse per contrastare il fenomeno dell’inflazione. Certo è che al momento i dati sembrano dare ragione a quelle nazioni che per prime hanno avuto il coraggio di affrontare questa crisi. Esattamente come la Svizzera che nell’ultimo mese ha segnato una stabilità dei prezzi con un’inflazione ferma al 3%.

Speriamo che la corsa stia effettivamente arrivando al termine.

Ticino: i frontalieri aumentano ancora

Ancora una volta i dati statistici confermano l’aumento del numero di frontalieri che lavorano in Ticino. Le cifre del terzo trimestre del 2022 ci permettono di fare delle considerazioni importanti.
La percentuale di persone che lavora nel settore secondario è scesa al 32%, circa una persona su tre. Vent’anni fa questo dato era del 55%, più di una persona su due. Se guardiamo all’interno del settore secondario vediamo un’importante riduzione sia nelle attività manifatturiere che passano da circa il 40% al 21%, sia in quello delle costruzioni dal 16% all’11%.
In conseguenza a questa riduzione, vediamo l’importante aumento del settore terziario che passa sempre in vent’anni dall’occupare il 44% dei frontalieri al 67%, due persone su tre. In questo caso è interessante notare come ci sia una certa stabilità per alcuni settori, ad esempio quello del commercio e della riparazione di autoveicoli che si attesta attorno al 15% degli occupati, quello dei servizi dell’alloggio e della ristorazione che rimane fermo a circa il 6% come pure quello delle attività sanitarie e sociali.
Altri settori invece mostrano dei cambiamenti rilevanti. Il settore delle attività professionali, scientifiche e tecniche (per intenderci attività legali e di contabilità, studi di ingegneria e di architettura) passano dal 3% di persone frontaliere occupate in questo settore nel 2002 a circa il 12% di oggi. In termini numerici parliamo di oltre 9’000 professionisti, aumentati in numero di ben 9 volte. Un discorso analogo può essere fatto per le attività amministrative e i servizi di supporto alle aziende come le attività di ricerca, selezione e fornitura del personale: in questo caso la percentuale è passata dal 2% al 10%. Parliamo oggi di oltre 7’700 persone occupate quando nel 2002 si contavano meno di 700 professionisti. L’aumento è stato di 11 volte.
Di per sé questi numeri non sono fonte di preoccupazione in assoluto. Se un’economia cresce e genera nuovi e buoni posti di lavoro non c’è nessun problema che siano occupati anche da persone non residenti. La situazione diventa problematica dal momento che si creano tensioni sul mercato del lavoro tra persone residenti e persone non residenti. Ed è innegabile che questo stia avvenendo da tempo in Ticino.
Lo vediamo se guardiamo alla pressione sui salari di tutta l’economia che non crescono come a livello nazionale. Lo vediamo osservando il divario enorme e in crescita tra salari dei residenti e dei frontalieri che è stato recentemente oggetto di una pubblicazione dell’ufficio cantonale di statistica (e non è così negli altri cantoni). Lo vediamo guardando ai nostri giovani che se ne vanno e a quelli che non tornano.
Bisogna avere il coraggio di parlare apertamente di queste tensioni. E per favore, non diciamo che il problema sta nel fatto che non formiamo sufficienti persone per occupare questi posti di lavoro. I dati parlano chiaro. Abbiamo ingegneri e architetti che vorrebbero eccome lavorare nel loro Cantone. Per non parlare del personale amministrativo nelle aziende. Insomma, i genitori dei ragazzi che mi contattano disperati perché i figli non trovano un lavoro, meritano altre risposte. Come meritano altre risposte i cinquantenni che perso il lavoro dopo trent’anni non riescono nemmeno a ottenere un colloquio. Non pensiamo di poter fare sempre finta che non ci siano problemi. I problemi ci sono, eccome. Bisogna risolverli.

Ticino: i frontalieri aumentano ancora

Come si inventano le teorie economiche?

Come nascono le teorie economiche? Si potrebbe pensare che gli economisti si siedano alla loro scrivania e comincino a pensare. Pensa, che ti pensa, che ti ripensa arriva qualche idea geniale. Un po’ come facevo io immaginando i filosofi quando li studiavo al liceo. Invece quello che fanno gli economisti o meglio che tentano di fare gli economisti è guardare la realtà che vivono e trovare delle teorie che la sappiano spiegare.

Così i bullionisti che sono stati i primi rappresentanti di una corrente economica, individuavano nella quantità di oro la possibilità per una nazione di aumentare la sua ricchezza. Questa riflessione nasceva dal fatto che allora i territori si conquistavano con la guerra e la guerra la facevano i mercenari che dovevano essere pagati in monete di oro. Avete visto com’è facile?

Arrivano poi i mercantilistica che aprendo la loro finestra vedono la ripresa dei commerci internazionali, la scoperta di nuove terre, la rinascita dei mercati e individuano nel comportamento dei mercanti la maniera di far progredire una nazione. Esattamente come loro il guadagno crescerà se vendiamo più di quello che compriamo; così la politica economica diventerà una politica a sostegno delle esportazioni e molto protezionista verso le importazioni.

Ma il mondo cambia e aprendo la finestra il nostro Adam Smith vede l’arrivo della rivoluzione industriale. Non basta più solo vendere, bisogna anche produrre di più. E per produrre di più sarà necessario organizzare il lavoro in maniera diversa. Grazie alla divisione del lavoro aumenterà la produzione, ma visto che la produzione aumenterà sarà necessario liberalizzare il commercio affinché si possa vendere anche al di fuori delle proprie nazioni. Smith non mancherà di mettere in evidenza i rischi della suddivisione del lavoro, rischi che condurranno la classe operaia in condizioni sempre peggiori.

Proprio a partire da questo Karl Marx formulerà la sua tesi economica che si fonda sul comunismo, che è il superamento del modello capitalista che fa proprio dell’accumulazione di capitale e della proprietà privata i punti centrali. Agli occhi di Marx le condizioni drammatiche degli operai avrebbero potuto essere superate solo con la fine del capitalismo.

Lo scenario è di quelli da far venire i brividi: lotte, rivolte, rivoluzioni, battaglie, disperazione, povertà saranno i sacrifici da mettere in conto per arrivare al comunismo.

Ma qualcun altro apre la finestra in Europa non vuole vedere questo genere di scontri e così nasce la teoria marginalista che farà dell’analisi individuale (quindi non più delle classi) e dell’ armonia degli interessi i suoi punti centrale. Bastano due curve su un grafico, quella della domanda e quella dell’offerta, per raggiungere il punto di equilibrio in cui tutti sono d’accordo. A quel prezzo e a quella quantità si risolvono i conflitti.

Se apriamo la nostra finestra oggi vediamo un mondo diverso, e proprio per questo dobbiamo invitare gli economisti a creare nuove teorie, tesi e modelli per rendere la nostra economia migliore e ancora più al beneficio delle persone.

La versione audio: Come si inventano le teorie economiche?

La favola del Cantone Ticino…

Ve la ricordate la favoletta che ci hanno raccontato durante la crisi Covid? “Il Canton Ticino, grazie alla sua economia diversificata sta affrontando la situazione meglio degli altri”.
Peccato che i dati appena pubblicati dall’ufficio federale della statistica dicano il contrario. Nel 2020 il prodotto interno lordo svizzero (PIL) si è ridotto del 2.4%; quello del Canton Ticino del 5.2%, 2.2 volte di più. Peggio di noi fanno solo Giura (-8.5%), Neuchâtel (-6.5%) e Glarona (-5.3%).
Naturalmente non neghiamo la violenza e l’eccezionalità della pandemia, né che il piccolo Canton Ticino, con la sua produzione annuale di circa 30 miliardi di franchi di beni e servizi, potesse reggere il colpo senza conseguenze. D’altronde non serve neppure a nessuno andare avanti a negare le problematiche che affliggono il nostro Cantone. Prima fra tutte è la sua struttura economica che vede il settore industriale e quello dei servizi a basso valore aggiunto come dominanti. Questo ci porta a essere sempre negli ultimi posti delle graduatorie sull’attrattività e la competitività nazionale.
Il settore industriale, quello delle costruzioni, quello del commercio al dettaglio, ma anche il settore infermieristico, quello dell’amministrazione pubblica e dei servizi sociali sono attività fondamentali, ma non bastano. Non possiamo ignorare che un cantone al passo coi tempi e che voglia offrire posti di lavoro ai suoi giovani debba spingere anche verso altri settori. La struttura economica del Canton Zurigo, locomotiva svizzera, è decisamente differente: la quota di prodotto interno lordo generata dai servizi finanziari e da quelli assicurativi e dalle attività immobiliari, scientifiche e tecniche rappresenta una fetta importantissima. Non a caso sono questi i settori ad alto valore aggiunto e non a caso è Zurigo il Cantone con i salari più alti.
Non possiamo cambiare la struttura economica del nostro paese dall’oggi al domani, ma possiamo valorizzare quanto abbiamo sul territorio e accompagnare le nostre aziende verso una visione più di medio-lungo termine.
La statistica ancora non misura un fenomeno che preoccupa i sonni di molti e che potrebbe rendere definitivamente questo cantone un cantone dormitorio. Sempre più giovani, e non solo loro, accettano posti di lavoro oltre Gottardo. Qui trascorrono 3 giorni alla settimana per poi rientrare in Ticino e lavorare da casa per gli altri due. È un lusso che non possiamo permetterci. Questi giovani capaci, competenti e qualificati, devono contribuire allo sviluppo di questo Cantone.
Ora siamo a un bivio: possiamo andare avanti a raccontarci la favola che tutto va bene, che siamo un’economia performante, che la diversificazione è la nostra ricchezza, oppure possiamo cominciare a lavorare perché questa favola diventi realtà.

La versione audio: La favola del Cantone Ticino

La povertà in Ticino c’è, eccome

“La povertà è definita come un’insufficienza di risorse (materiali, culturali e sociali) che preclude alle persone il tenore di vita minimo considerato accettabile nel paese in cui vivono” (UST). Nelle poche righe dell’ufficio federale di statistica comprendiamo la multidimensionalità della povertà. E per questo siamo soliti calcolare tre indicatori.
Primo, la povertà in senso assoluto che indica le persone o i nuclei familiari che vivono al di sotto di una soglia monetaria definita come minimo vitale. Nel 2020 era fissata in 2’279 CHF per una persona sola e in 3’963 per una famiglia di due adulti e due bambini.
Secondo, per ritenere l’importanza che il tessuto sociale ha nella vita degli individui si misura anche il rischio di povertà che è un concetto relativo che si basa sull’idea che se la disuguaglianza è troppo grande rispetto al resto della società difficilmente si potrà condurre una vita integrata. Così si è poveri se si guadagna meno del 60% (o del 50%) del reddito mediano.
Infine da qualche anno si parla anche di deprivazione materiale che misura l’impossibilità di acquistare alcuni beni o di svolgere determinate attività, come andare in vacanza una settimana all’anno o comprare un’automobile o un computer o ancora non poter far fronte a una spesa imprevista di 2’500 CHF.
La povertà non tocca tutti alla stessa maniera. Ci sono alcune categorie di persone maggiormente toccate. Per esempio la povertà sembra riguardare maggiormente le persone con più di 65 anni, la popolazione straniera, le persone che hanno una formazione limitata alla scuola dell’obbligo, i disoccupati, i genitori soli con figli, gli inquilini e coloro che guadagnano meno di 33’350 CHF all’anno.
Ora se rapportiamo queste caratteristiche alla popolazione del Cantone Ticino vediamo subito la sovra rappresentanza di alcune categorie. E non a caso, scopriamo che il tasso di rischio di povertà nel nostro cantone e di quasi il 25% contro una media nazionale del 15%. In Ticino una persona su quattro guadagna meno del 60% del reddito mediano.
Certo sono tante le cause, ma forse la principale rimane la fragilità del nostro mercato del lavoro. Fragilità che sempre più conduce i nostri giovani ad armarsi di tanto coraggio e tanta voglia di fare per cercare fortuna oltre Gottardo; che sempre più spinge le persone a dover fare più di un lavoro alla volta; che sempre più porta gli individui a ricorrere agli aiuti dello Stato.
Le soluzioni sono di tipo strutturale e richiedono tempo. Ma non possiamo girarci dall’altra parte e far finta di niente. Per questo ringraziamo le associazioni benefiche che cercano di dare sollievo alle persone meno fortunate che vivono nel nostro Cantone. Tra queste, ringrazio il Soccorso d’inverno Ticino per il suo lavoro e per avermi permesso di portare queste riflessioni nella loro assemblea annuale.

La versione audio: La povertà in Ticino c’è, eccome