I disoccupati che non si vedono e non si contano

Lo sappiamo. Ogni volta che la Segreteria di Stato dell’Economia (SECO) pubblica i dati sulla disoccupazione il nostro stupore aumenta.

Non si tratta di distorsione della realtà oppure di percezione sbagliata da parte del pubblico, come qualche “esperto” vuole farci credere. Lo diciamo da parecchio tempo: la statistica ufficiale della SECO conteggia esclusivamente il numero di persone iscritte presso gli uffici regionali di collocamento. E questo non è un buon indicatore dello stato di salute del mercato del lavoro in Ticino. Perlomeno non è un indicatore sufficiente a trarre conclusioni tanto ottimistiche.

Naturalmente la SECO non ha nessuna intenzione di nascondere i fatti, né intende dipingere una realtà più rosea del vero. Questo indicatore, ossia il numero di persone iscritte agli URC, dà le informazioni che contiene e che gli sono richieste: cioè esso enumera esclusivamente le persone in cerca di lavoro che sono anche iscritte a un ufficio di collocamento. È un indicatore, quindi, reale ma parziale, anzi parzialissimo.

La domanda che dovrebbero farsi commentatori e analisti che spesso utilizzano questi indicatori a scatola chiusa è un’altra: sono davvero rappresentativi della situazione ticinese?

La risposta breve è no.

E non bisogna essere luminari o specialisti per dare questa risposta, basta vivere e conoscere il territorio. Ambienti di diversa estrazione amano diffondere narrazioni appaganti, gratificanti o anche soltanto analgesiche. Non solo siamo in presenza di una quasi completa occupazione. Addirittura, in Ticino, avremmo un mercato e un’economia che non trova i profili altamente qualificati che cerca. E, ahinoi, non li trova nonostante la fatica e l’impegno che mettiamo nella formazione giovanile (per non parlare della fatica e dell’impegno di quei giovani medesimi).

Ma questa è appunto una narrazione, non la realtà del Canton Ticino. I nostri giovani qualificati, capaci e competenti si armano di bagagli e di biglietto del treno per andare a lavorare oltre Gottardo dove sono visti per quello che sono: giovani in gamba, con le qualifiche necessarie e la necessaria competenza.

Qui da noi, i nostri cinquantenni che perdono il posto di lavoro e cercano un impiego che ne riconosca esperienza e capacità, trovano solo porte chiuse. La situazione sta diventando talmente invivibile in questo cantone che persino alla fine della vita professionale con quanto messo da parte negli anni e con quanto percepito dai sistemi previdenziali non si riesce più a vivere in questo territorio. Centinaia di persone prossime al pensionamento stanno pianificando la loro partenza.

Di fronte a questa situazione cosa fa la politica? Poco, o niente. Si narrano la storia di un cantone innovativo, competitivo, culla del progresso tecnologico e all’avanguardia in Svizzera se non addirittura in Europa. Peccato che tutti i giorni quando ci alziamo, la maggioranza di noi, fa i conti non con le storie ma con la realtà.

E la realtà è ben diversa. Ma attenzione questo non significa che tutto sia perduto, anzi. Abbiamo tutte le possibilità e le potenzialità per cambiare, dobbiamo solo volerlo. Ma dobbiamo avere la volontà, come prima cosa, di vedere la realtà e smetterla di credere alle favole. Non siamo nel paese del Bengodi, non siamo la Silicon Valley. Siamo un cantone periferico, meno competitivo di quanto potrebbe e dovrebbe essere e le cui classi dirigenti faticano a rendersene conto. Oppure, non vogliono farlo.

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Il Natale degli Invisibili

Il periodo di Natale è molto bello e rilassante per chi ha una famiglia vicino e può passarlo con persone care. E per chi non ha preoccupazioni economiche eccessive.
Molti invece vivono male queste feste perché hanno perso qualcuno e mai come a Natale la mancanza si fa sentire.
Altri ancora, e sono tanti, sono confrontati con difficoltà economiche che diventano particolarmente dolorose in questi giorni sfavillanti di luci, con l’abbondanza ostentata nelle vetrine.
Secondo l’Ufficio federale di statistica, oltre 770 mila persone vivono in povertà nel nostro paese. E oltre a loro ci sono quasi altrettante persone che vivono con il minimo indispensabile. Sono quasi un milione e mezzo di persone per cui il Natale è un problema nel problema. E anche in Ticino la situazione è molto difficile. Nel 2020 oltre 50 mila persone erano povere e altrettante a rischio di povertà.
Ancora di recente i media hanno parlato dell’aumento delle mense dei poveri nel nostro cantone. Perché quando si parla di povertà si parla anche “semplicemente” del fatto di riuscire a mettere qualcosa sotto i denti.
Una parte della popolazione pensa di mettersi a dieta subito dopo le feste. Un’altra parte penserà a come mangiare qualcosa questa sera.
Le disuguaglianze ci sono nel nostro paese, eccome. Sono spesso nascoste ai nostri occhi e diventa tabù anche solo il fatto di parlarne.
Sicuramente il modello economico svizzero è un modello di successo ma molte persone sono lasciate indietro, non ce la fanno, vivono ai margini e non sono nemmeno presenti nel dibattito pubblico. Sono a tutti gli effetti invisibili.
Molte altre persone, pur non essendo povere secondo la definizione ufficiale, hanno difficoltà notevoli a far quadrare i conti. Per loro, una spesa inattesa può essere un problema enorme. Vivono, queste persone, in una situazione continua di incertezza: la congiuntura attuale rischia di farne cadere molti sotto la temuta soglia della povertà “ufficiale”.
Sono cittadine e cittadini come noi, che non seguono i dibattiti politici perché hanno smesso di aspettarsi qualsiasi cosa. La politica non si occupa di loro perché spesso non votano da anni, quando ne hanno il diritto. Eppure esistono e diventano più numerosi in periodi di crisi economica e aumenti dei prezzi.
Non facciamoci ingannare dai dati appena pubblicati. Se nel 2021 le persone che hanno chiesto gli aiuti sociali non sono aumentate è solo perché erano in vigore ancore le misure speciali di sostegno a causa della pandemia. Ora che queste misure sono finite vediamo che i fallimenti delle aziende aumentano e con essi i licenziamenti e la povertà.
A Natale qualcuno si sente in obbligo di porgere un pensiero caritatevole. Altri fanno un vero e grande lavoro di assistenza e vicinanza. Ma per il resto dell’anno, di questo iceberg non si vede nemmeno la punta.
E sappiamo quanto siano pericolosi gli iceberg, non solo per le navi ma anche per una società che si racconta come opulenta e soddisfatta ma nasconde sotto la superficie ciò che non corrisponde a questa narrazione.
Occuparsi di questa parte della società è essenziale per chi prende decisioni. Così come cercare di affrontare i meccanismi che producono la povertà, specialmente oggi, alla vigilia di un’epoca economicamente difficile e politicamente instabile.

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Sotto l’albero? Le previsioni del KOF

Anche quest’anno il KOF ci fa il suo regalo e mette sotto l’albero di Natale le previsioni economiche. Il KOF, che è il centro di ricerche congiunturali del politecnico federale di Zurigo, ci presenta i dati per il 2023 e per il 2024.

In generale constatiamo che a livello mondiale il Prodotto Interno Lordo (PIL), che ricordiamo è un indicatore del valore della produzione di beni e servizi e in un certo senso anche del benessere economico, mostra segni di rallentamento rispetto alla crescita del 2021 (anno post-Covid) e del 2022.
In effetti, il PIL mondiale nel 2023 aumenterà dello 0.5%, quello dell’Unione Europea e degli Stati Uniti dello 0.3% e quello cinese del 4.5%. Il PIL in Svizzera invece crescerà dell’1% (senza conteggiare l’effetto degli avvenimenti sportivi internazionali). La crescita dipenderà anche l’anno prossimo dal consumo privato (+2%), dagli investimenti (+1.3%) e dalle esportazioni (+2.1%). La spesa pubblica, come era prevedibile dopo anni di grandi interventi, si ridurrà del 2.9%. Detto questo però dobbiamo fare alcune considerazioni. Primo: le previsioni dicono che il settore delle costruzioni soffrirà (-0.7%), mentre terranno gli investimenti in macchinari e beni strumentali (2.3%). Siamo dispiaciuti per il settore delle costruzioni, ma la situazione poteva essere più preoccupante se a mostrare un andamento negativo fosse stato il settore dei macchinari. In effetti, questo settore indica il sentimento degli imprenditori. Se si aspettano un andamento positivo e quindi di aumentare le vendite, aumenteranno le spese in macchinari necessari per produrre. Se invece hanno un sentimento negativo, non sostituiranno nemmeno i macchinari che diventano vecchi oppure che si rompono. Secondo: anche il settore del commercio estero non ci fa dormire sonni troppo tranquilli. In effetti, la crescita sia dei beni che dei servizi venduti all’estero appare piuttosto ridotta rispetto agli anni passati. Questo dipende dalla situazione economica degli altri Paesi: se ci sono difficoltà economiche, non compreranno i nostri prodotti. Ma anche le importazioni sono da monitorare. Ricordiamo che la Svizzera non ha grandi materie prime per cui per produrre necessita di comperare dal resto del mondo materiali e prodotti semilavorati. Per questa ragione se le importazioni rallentano significa che produrremo meno e che quindi esporteremo meno.

Ma perché gli economisti sono ossessionati dall’analisi del prodotto interno lordo? Semplice perché dietro al prodotto interno lordo ci sono i concetti di produzione, occupazione e reddito. Se il PIL non aumenta a sufficienza, vuol dire che non bisogna produrre. Se non bisogna produrre, le aziende non hanno bisogno di dipendenti E questo significa licenziamenti. Senza un lavoro non si ha un reddito. Questo implica per lo Stato due fatti: da una parte aumentano le spese per le assicurazioni sociali (per esempio l’assicurazione disoccupazione), dall’altra parte si riducono le entrate (se si riduce il reddito si pagano meno imposte).
Sappiamo che il PIL deve crescere a un livello tale da compensare l’aumento della forza lavoro e l’aumento del progresso tecnologico. Se questo avviene il tasso di disoccupazione rimane stabile. Guardando i dati del 2023 e del 2024 possiamo dire che fortunatamente l’impatto sul mondo del lavoro sarà contenuto.

Tutte queste previsioni però si avvereranno a patto che si verificheranno le condizioni immaginate dal KOF: un’inflazione contenuta, un approvvigionamento energetico garantito e la fine dei lockdown legati alla pandemia.

Che dire a questo punto? Beh, caro Babbo Natale potresti fare in modo che le previsioni del KOF si avverino?

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Quanto vale fare la mamma o il papà?

C’è differenza tra lavoro remunerato e lavoro non remunerato? Sicuramente in apparenza sì: le prime attività sono retribuite, mentre nel secondo caso non si guadagna un reddito. Dove non troviamo differenza è nella loro importanza.

La statistica appena pubblicata dall’ufficio federale quantifica le ore di lavoro non remunerato e il loro valore. Se nel 2020 abbiamo lavorato in Svizzera per 7.6 miliardi di ore retribuite, quelle non retribuite sono state 9.8 miliardi, che significa circa 1’350 ore a persona in un anno. Guardando alla composizione in termini di genere emerge che il 60.5% del lavoro non retribuito è svolto dalle donne; percentuale che si capovolge (61.4%) in favore degli uomini quando si guarda a quello remunerato.

Ma che cosa facciamo in tutte queste ore di lavoro non pagate? La maggior parte del tempo, circa il 73%, la dedichiamo ai lavori domestici, mentre il 20% circa è destinato a lavori di assistenza a bambini e adulti della propria economia domestica. L’8% del tempo invece va ad attività di volontariato.

Così scopriamo che trascorriamo la maggior parte del nostro tempo a cucinare, fare le pulizie, giocare con i nostri bambini e lavare i piatti. Fare il bucato e stirare ci occupa per oltre 500 milioni di ore all’anno.  

Ma come fa la statistica a valutare il valore monetario di questo lavoro non retribuito? Semplice, si moltiplicano le ore effettuate per il valore medio sul mercato del lavoro. Concretamente ci si domanda quanto costerebbe assumere una persona per fare quella medesima prestazione.

Allora scopriamo che fare i lavori domestici costerebbe quasi 320 milioni di franchi, preparare i pasti 96, curare gli animali domestici, le piante e il giardino quasi 40. E che dire del fatto che dovremmo pagare oltre 63 milioni di franchi per occuparci dei nostri bambini giocando con loro, facendogli fare i compiti o accompagnandoli nelle loro attività? Senza considerare i 17 milioni per dargli da mangiare, lavarli e metterli a letto. Il volontariato da parte sua costerebbe oltre 33 milioni di franchi. Il totale del valore delle nostre attività non remunerate è di quindi 434 milioni di franchi.

Permettetemi però una considerazione da economista controcorrente. Rimango fermamente convinta che ci sono attività che hanno un valore, ma che non hanno un prezzo. E sono proprio quelle attività che fortunatamente, e sottolineo fortunatamente, non passano attraverso il mercato. Il lavoro di un’educatrice o di un educatore che si occupa dei nostri bambini per quanto professionale e amorevole sia, non sarà mai la stessa attività di chi la pratica gratuitamente. In economia questi beni si chiamano beni relazionali, e per quanto il mercato cerchi di creare dei facsimile, la natura stessa e l’essenza legata alla loro gratuità, impediranno di poterli ricreare e venderli ad un prezzo qualunque.

La versione audio: Quanto vale fare la mamma o il papà?

La Befana si porterà via anche l’inflazione?

L’inflazione ha raggiunto davvero il suo picco? Probabilmente è ancora presto per rispondere, anche se siamo ben contenti di vedere che in molte nazioni europee i prezzi iniziano a rallentare, se non addirittura in alcuni casi a scendere. Così è capitato per esempio in Spagna dove il dato di novembre mostra una riduzione di -0.1% rispetto al mese precedente (+ 6.8% su base annua, ma in riduzione rispetto al 7.3% di ottobre). Lo stesso è successo in Germania dove la riduzione è stata di -0.5% mensile (+10% annuale) e a livello medio nella zona Euro dove i prezzi al consumo dovrebbero essere scesi di -0.1% attestandoti a + 10% su base annua (nel mese di ottobre il dato era del 10.6%). Purtroppo i prezzi appaiono ancora in aumento in Francia (+0.4%) e in Italia (+0.5%).

Le buone notizie arrivano anche dai prezzi alla produzione, che lo ricordiamo sono i prezzi dei prodotti nel momento in cui escono dalle fabbriche, quindi senza i costi di trasporto o di logistica. Sempre nell’Eurozona si segnala un contenimento su base annua al +30.8% (il mese precedente il dato era del 41.9%), in riduzione del -2.9% su base mensile. Questa tendenza è confermata anche in Francia e in Italia. Certo non si può ancora dire che il peggio sia passato, ma ai nostri occhi appaiono alquanto particolari le dichiarazioni molto pessimiste della presidente della Banca Centrale Europea (BCE) Christine Lagarde che dice di non vedere segnali di rallentamento. È anche vero che la BCE è stata tra gli ultimi a riconoscere l’esistenza del fenomeno inflattivo e a prendere misure di politica economica…
Per quanto ci concerne da parte nostra segnaliamo nelle ultime settimane la stessa tendenza al ribasso anche nelle materie prime e nelle fonti energetiche. Manteniamo una certa cautela poiché sappiamo che questa decelerazione potrebbe anche essere, purtroppo, il segnale di un’anticipazione del rallentamento economico che tutte le nazioni più avanzate attendono per l’anno prossimo.

Al momento però i dati del prodotto interno lordo (PIL) del terzo trimestre mostrano ancora in generale un tasso di crescita, seppur piccolo, positivo. Anche gli indicatori del mercato del lavoro sembrano ancora mostrare un buon andamento.
Pure la Svizzera non fa eccezione. Questa settimana i dati del prodotto interno lordo dell’ultimo trimestre hanno evidenziato una crescita dello 0.2%, con indicazioni abbastanza positive da quasi tutti i settori economici (si segnalano purtroppo gli andamenti negativi del settore delle costruzioni e di quello finanziario). Sul fronte dei prezzi, buone notizie: per il secondo mese di fila l’inflazione si ferma al 3%. Anche i dati sulla disoccupazione sono positivi.

Per le prossime settimane, quindi, non ci resta che incrociare le dita e pensare a trascorrere un buon Natale sperando che la Befana, insieme alle feste, si porti via anche l’inflazione…

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Aumentano i frontalieri, partono i residenti

La statistica svizzera questa settimana ci dà molte indicazioni su quanto sta accadendo sul mercato del lavoro in Svizzera e in Ticino.
Gli impieghi in Ticino nel III trimestre (luglio-settembre) sono aumentati sia rispetto ai tre mesi precedenti, sia rispetto a un anno fa. Oggi si contano quasi 243 mila posti di lavoro totali; di questi 137 mila sono occupati da uomini e 106 mila da donne. I posti di lavoro a tempo pieno sono la maggioranza e occupati prevalentemente da uomini (158 mila posti, di cui 109 maschili e 49 femminili). Al contrario degli 85 mila posti a tempo parziale, ben 58 mila sono occupati da donne e 28 mila da uomini. I posti di lavoro in equivalenti a tempo pieno sono oggi circa 199 mila (122 maschili e 77 femminili). Ma è guardando ai settori che scopriamo dinamiche differenti: i posti di lavoro nel settore secondario sono rimasti quasi stabili rispetto a un anno fa; l’aumento è stato registrato soprattutto nel terziario (circa 8 mila posti in più su base annuale, 150 su base trimestrale).
Guardando a questi dati saremmo quindi tentati di parlare di ottime notizie. Ma come sempre c’è un ma…
I dati pubblicati la settimana scorsa dalla Rilevazione sulle forze di lavoro in Svizzera (RIFOS) confermano purtroppo dinamiche già evidenziate tempo fa. Primo: in Ticino ci sono 5’700 svizzeri in meno che lavorano a tempo pieno rispetto a un anno fa (una riduzione di oltre il 7%). Di questi 3’800 sono uomini e 1’800 donne. Guardando in totale (tempo pieno e tempo parziale) la situazione non migliora di molto: il saldo negativo è di 500 uomini in meno e ben 2’500 donne svizzere. Al contrario, c’è stato un importante aumento di occupati stranieri: in totale ci sono 3’100 persone in più (con un aumento di 5’600 persone che hanno un impiego a tempo pieno), 2’900 donne e 200 uomini. Le spiegazioni di questi dati possono essere molteplici: tanti svizzeri dell’era dei baby boomer escono dal mondo del lavoro e vanno in pensione, ci sono meno nascite e quindi meno giovani che cominciano a lavorare e in aggiunta i tempi di formazione sono più lunghi.
Detto questo, non possiamo prescindere da un’analisi del frontalierato, soprattutto nel Cantone Ticino. Grazie al lavoro appena pubblicato dall’Ufficio di statistica cantonale possiamo comprendere molte dinamiche. Per inciso, cogliamo l’occasione per elogiare le analisi svolte da questo ufficio e l’eccellente lavoro fatto dai suoi ricercatori e ricercatrici che ci consente di comprendere la nostra realtà. In questo caso, il recente studio mette in evidenza che “nel tempo, aumentano le persone che da residenti diventano frontaliere, mentre diminuiscono quelle che da frontaliere diventano residenti”. Ed è forse proprio questo il punto che tralasciamo troppo spesso nelle azioni di politica economica di questo Cantone. Il problema non sta di certo nel fatto che si ricorra a manodopera estera per rispondere alle mancanze di personale (è sottinteso fintantoché questa scelta non dipende esclusivamente da un salario più basso ed esercita una concorrenza “sleale” che porta i residenti a dover cercare lavoro altrove). Il problema sta nel fatto che una politica di sviluppo cantonale dovrebbe avere come obiettivo che queste persone si insedino nel nostro Cantone e diventino parte attiva della nostra comunità. Certo, le soluzioni non sono facili, ma almeno parlarne apertamente consentirebbe di lavorare tutti nella stessa direzione.

La Svizzera e la crisi che (forse) verrà

È appena arrivata una buona notizia: l’inflazione negli Stati Uniti in ottobre è aumentata meno del previsto. È vero che si parla ancora di tassi elevatissimi: il 7.7% non è un rialzo che non desta preoccupazioni. Tuttavia gli analisti si aspettavano un dato peggiore. Analisti che ora si interrogano sui prossimi passi della Federal Reserve (Fed), la banca centrale degli Stati Uniti. Finora la Fed ha seguito una politica monetaria aggressiva: è stata tra le prime banche centrali ad aumentare i tassi di interesse di riferimento ed è stata una di quelle che lo ha fatto anche in maniera piuttosto vigorosa. Ancora l’ultimo aumento deciso la settimana scorsa, ed è stato il quarto di fila, è stato di 0.75 punti percentuale. Questo rialzo ha di fatto portato il costo del denaro tra il 3.75% e il 4%. Come tutte le banche centrali anche la Fed ha come obiettivo la stabilità dei prezzi, stabilità che si identifica con un aumento dell’inflazione entro il 2%. Evidentemente in questo momento storico non c’è nessun paese che possa dichiararsi vicino a questo obiettivo.

Nessun paese, tranne la Svizzera. L’ultimo dato pubblicato dall’Ufficio federale di statistica parla di un aumento dei prezzi del 3%. Decisamente ben lontano dal quasi 12% dell’Unione europea. Le ragioni di questa differenza sono molte, tra queste le più importanti sono una moneta forte che consente di comperare beni dall’estero ad un “prezzo inferiore” e il fatto che il nostro carrello della spesa è composto in maniera un po’ differente da quello degli altri Paesi. Nel nostro caso i beni importati rappresentano solo il 25% della spesa; il 75% sono beni e servizi prodotti all’interno della Svizzera. Questo fa sì che, per esempio, il prezzo delle fonti energetiche come petrolio e gas incida in maniera limitata. Nonostante ciò, anche la Svizzera non può chiamarsi fuori dal rallentamento economico che tocca tutte le economie avanzate e che si prospetta piuttosto rilevante nei mesi a venire.

In effetti, gli ultimi indicatori mostrano ad esempio che la fiducia dei consumatori elvetici è crollata a livelli bassissimi. Bisogna tornare ai primi dati pubblicati nel 1972 per vedere segnali di sfiducia così grandi. Ma non è solo questo a preoccuparci. Le economie moderne sono fortemente connesse tra loro. Se alle preoccupazioni interne aggiungiamo le difficoltà di approvvigionamento sui mercati, le problematiche relative alle fonti energetiche, il clima di sfiducia generale, la situazione deve farci riflettere.

Attenzione però alle scelte affrettate e agli appelli di intervento dello Stato. Prima di tutto dobbiamo comprendere se questa crisi ci sarà, quanto durerà e quali saranno i settori che necessiteranno di sostegno. Solo dopo, potremo intervenire, se necessario e in misura mirata.

Tratto da L’Osservatore, 12.11.2022

L’inflazione corre o sta rallentando?

L’inflazione continua a correre. Ma non per tutti alla stessa velocità. I dati appena pubblicati dalla Germania indicano che nel mese di ottobre i prezzi sono aumentati raggiungendo il livello storico del 10.4%; mai così alto dal 1951. Il mese scorso gli aumenti erano stati, sempre su base annuale, del 10%. E le cose non vanno bene nemmeno nel resto dell’Unione Europea, dove ormai il tasso di inflazione ha raggiunto mediamente quasi il 12%. Purtroppo quello che si registra nei paesi è oramai un aumento generalizzato e non più solo limitato al settore energetico. Anche fare la spesa, comprare frutta, verdura e pasta, sembra essere diventata un’attività di lusso. Questo può diventare un grandissimo problema per i cittadini che faticano ad arrivare alla fine del mese, e nel tempo stesso un grave problema per l’economia. La pura frena i consumi che frenano la produzione. Il vento di recessione soffia forte sull’Europa. A conferma i dati appena pubblicati della Gran Bretagna che mostrano un tasso di decrescita del prodotto interno lordo nell’ultimo trimestre -0.2%.

E le prospettive rimangono preoccupanti anche per le altre nazioni. Non a caso tutte le organizzazioni e le istituzioni internazionali vedono continuamente al ribasso le previsioni di crescita. Ma la crescita non è un concetto astratto o una fissazione degli economisti. La crescita, dettata da un aumento della domanda, al momento è l’unico fattore in grado di garantire occupazione e quindi posti di lavoro.

Ma il vento non sembra soffiare dappertutto alla stessa maniera. I dati appena pubblicati negli stati Uniti parlano di un aumento dei prezzi del 7.7%. Certo parliamo sempre di un rialzo importante, ma che mostra un calo rispetto al mese precedente quando l’inflazione segnava +8%.

È ancora presto per attribuire questo rallentamento alle politiche monetarie fortemente restrittive volute dalla Federal Reserve (Banca centrale degli Stati Uniti) che prima di tutte le altre banche centrali ha deciso importanti aumenti dei tassi di interesse per contrastare il fenomeno dell’inflazione. Certo è che al momento i dati sembrano dare ragione a quelle nazioni che per prime hanno avuto il coraggio di affrontare questa crisi. Esattamente come la Svizzera che nell’ultimo mese ha segnato una stabilità dei prezzi con un’inflazione ferma al 3%.

Speriamo che la corsa stia effettivamente arrivando al termine.

Ticino: i frontalieri aumentano ancora

Ancora una volta i dati statistici confermano l’aumento del numero di frontalieri che lavorano in Ticino. Le cifre del terzo trimestre del 2022 ci permettono di fare delle considerazioni importanti.
La percentuale di persone che lavora nel settore secondario è scesa al 32%, circa una persona su tre. Vent’anni fa questo dato era del 55%, più di una persona su due. Se guardiamo all’interno del settore secondario vediamo un’importante riduzione sia nelle attività manifatturiere che passano da circa il 40% al 21%, sia in quello delle costruzioni dal 16% all’11%.
In conseguenza a questa riduzione, vediamo l’importante aumento del settore terziario che passa sempre in vent’anni dall’occupare il 44% dei frontalieri al 67%, due persone su tre. In questo caso è interessante notare come ci sia una certa stabilità per alcuni settori, ad esempio quello del commercio e della riparazione di autoveicoli che si attesta attorno al 15% degli occupati, quello dei servizi dell’alloggio e della ristorazione che rimane fermo a circa il 6% come pure quello delle attività sanitarie e sociali.
Altri settori invece mostrano dei cambiamenti rilevanti. Il settore delle attività professionali, scientifiche e tecniche (per intenderci attività legali e di contabilità, studi di ingegneria e di architettura) passano dal 3% di persone frontaliere occupate in questo settore nel 2002 a circa il 12% di oggi. In termini numerici parliamo di oltre 9’000 professionisti, aumentati in numero di ben 9 volte. Un discorso analogo può essere fatto per le attività amministrative e i servizi di supporto alle aziende come le attività di ricerca, selezione e fornitura del personale: in questo caso la percentuale è passata dal 2% al 10%. Parliamo oggi di oltre 7’700 persone occupate quando nel 2002 si contavano meno di 700 professionisti. L’aumento è stato di 11 volte.
Di per sé questi numeri non sono fonte di preoccupazione in assoluto. Se un’economia cresce e genera nuovi e buoni posti di lavoro non c’è nessun problema che siano occupati anche da persone non residenti. La situazione diventa problematica dal momento che si creano tensioni sul mercato del lavoro tra persone residenti e persone non residenti. Ed è innegabile che questo stia avvenendo da tempo in Ticino.
Lo vediamo se guardiamo alla pressione sui salari di tutta l’economia che non crescono come a livello nazionale. Lo vediamo osservando il divario enorme e in crescita tra salari dei residenti e dei frontalieri che è stato recentemente oggetto di una pubblicazione dell’ufficio cantonale di statistica (e non è così negli altri cantoni). Lo vediamo guardando ai nostri giovani che se ne vanno e a quelli che non tornano.
Bisogna avere il coraggio di parlare apertamente di queste tensioni. E per favore, non diciamo che il problema sta nel fatto che non formiamo sufficienti persone per occupare questi posti di lavoro. I dati parlano chiaro. Abbiamo ingegneri e architetti che vorrebbero eccome lavorare nel loro Cantone. Per non parlare del personale amministrativo nelle aziende. Insomma, i genitori dei ragazzi che mi contattano disperati perché i figli non trovano un lavoro, meritano altre risposte. Come meritano altre risposte i cinquantenni che perso il lavoro dopo trent’anni non riescono nemmeno a ottenere un colloquio. Non pensiamo di poter fare sempre finta che non ci siano problemi. I problemi ci sono, eccome. Bisogna risolverli.

Ticino: i frontalieri aumentano ancora

Come si inventano le teorie economiche?

Come nascono le teorie economiche? Si potrebbe pensare che gli economisti si siedano alla loro scrivania e comincino a pensare. Pensa, che ti pensa, che ti ripensa arriva qualche idea geniale. Un po’ come facevo io immaginando i filosofi quando li studiavo al liceo. Invece quello che fanno gli economisti o meglio che tentano di fare gli economisti è guardare la realtà che vivono e trovare delle teorie che la sappiano spiegare.

Così i bullionisti che sono stati i primi rappresentanti di una corrente economica, individuavano nella quantità di oro la possibilità per una nazione di aumentare la sua ricchezza. Questa riflessione nasceva dal fatto che allora i territori si conquistavano con la guerra e la guerra la facevano i mercenari che dovevano essere pagati in monete di oro. Avete visto com’è facile?

Arrivano poi i mercantilistica che aprendo la loro finestra vedono la ripresa dei commerci internazionali, la scoperta di nuove terre, la rinascita dei mercati e individuano nel comportamento dei mercanti la maniera di far progredire una nazione. Esattamente come loro il guadagno crescerà se vendiamo più di quello che compriamo; così la politica economica diventerà una politica a sostegno delle esportazioni e molto protezionista verso le importazioni.

Ma il mondo cambia e aprendo la finestra il nostro Adam Smith vede l’arrivo della rivoluzione industriale. Non basta più solo vendere, bisogna anche produrre di più. E per produrre di più sarà necessario organizzare il lavoro in maniera diversa. Grazie alla divisione del lavoro aumenterà la produzione, ma visto che la produzione aumenterà sarà necessario liberalizzare il commercio affinché si possa vendere anche al di fuori delle proprie nazioni. Smith non mancherà di mettere in evidenza i rischi della suddivisione del lavoro, rischi che condurranno la classe operaia in condizioni sempre peggiori.

Proprio a partire da questo Karl Marx formulerà la sua tesi economica che si fonda sul comunismo, che è il superamento del modello capitalista che fa proprio dell’accumulazione di capitale e della proprietà privata i punti centrali. Agli occhi di Marx le condizioni drammatiche degli operai avrebbero potuto essere superate solo con la fine del capitalismo.

Lo scenario è di quelli da far venire i brividi: lotte, rivolte, rivoluzioni, battaglie, disperazione, povertà saranno i sacrifici da mettere in conto per arrivare al comunismo.

Ma qualcun altro apre la finestra in Europa non vuole vedere questo genere di scontri e così nasce la teoria marginalista che farà dell’analisi individuale (quindi non più delle classi) e dell’ armonia degli interessi i suoi punti centrale. Bastano due curve su un grafico, quella della domanda e quella dell’offerta, per raggiungere il punto di equilibrio in cui tutti sono d’accordo. A quel prezzo e a quella quantità si risolvono i conflitti.

Se apriamo la nostra finestra oggi vediamo un mondo diverso, e proprio per questo dobbiamo invitare gli economisti a creare nuove teorie, tesi e modelli per rendere la nostra economia migliore e ancora più al beneficio delle persone.

La versione audio: Come si inventano le teorie economiche?