Salari in Ticino: la sfida è trovare stabilità

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Il divario salariale tra Ticino e Svizzera non si riduce, anzi si amplia: nel 2024 aumenta al 18,7%, contro il 17,6% del 2022. Non è un salto brusco, ma conferma una dinamica sfavorevole. Le ragioni sono strutturali. Storicamente il mercato del lavoro ticinese si è sviluppato senza una vera fase industriale e ha puntato su servizi, commercio e turismo, settori con salari mediamente più bassi e più sensibili all’andamento economico. A ciò si aggiunge la posizione di frontiera: ogni giorno entrano circa 80 mila frontalieri che accentuano la concorrenza sui salari e rendono più difficile garantire impieghi stabili e ben retribuiti ai residenti. La struttura occupazionale rimane fragile, con molti posti a basso valore aggiunto e una quota crescente di lavoratori che non raggiunge un reddito sufficiente, tra salari bassi, part-time non desiderati e forte precarietà.
È però importante precisare che, se consideriamo solo i residenti, il divario con la media svizzera scende al 10,7%. La composizione della forza lavoro conta: un terzo dei lavoratori attivi è frontaliero e occupato in settori dove la pressione competitiva è maggiore.
I dati analizzati riguardano oltre 130’000 posti a tempo pieno, equivalenti a quasi 154’000 salariati. Guardando alla distribuzione salariale, il 10% che guadagna meno percepisce 3’710 franchi, il salario mediano (quello che divide a metà la popolazione) è di 5’393 e il 10% più alto arriva a 9’620. I salari crescono, ma non in modo uniforme: si passa dall’aumento dell’1,5% del salario mediano al 3,6% dei salari più alti.
Accanto a questo quadro, alcuni settori registrano una riduzione dei salari rispetto al 2022. Non è ancora una tendenza, ma sono segnali da seguire con attenzione. La costruzione di edifici (circa 5’800 posti a tempo pieno) mostra un calo generalizzato; nell’industria metalmeccanica di base (3’700 impieghi a tempo pieno) la diminuzione riguarda quasi tutte le fasce. Anche il commercio all’ingrosso, un comparto di 10’000 posti, vede riduzioni nelle retribuzioni più basse e più alte. Un andamento simile emerge nei servizi finanziari non assicurativi (3’500 posti) e nelle attività di ricerca e fornitura di personale, dove il calo è quasi ovunque. L’istruzione (oltre 1’300 impieghi) segna una riduzione diffusa mentre nei servizi sanitari, quasi 7’800 posti, la contrazione tocca soprattutto i salari più elevati.
Nel complesso i salari non crollano, ma alcuni settori arretrano. Per il Ticino la vera sfida è restare agganciato al resto della Svizzera. Per questo serve affrontare le cause strutturali del mercato del lavoro e proteggere ciò che funziona, soprattutto in vista di una possibile nuova fase dei rapporti con l’Europa: il Cantone non può permettersi ulteriori slittamenti. I dati non parlano di emergenza, ma indicano con chiarezza la necessità di una rotta solida.

Pubblicato da L’Osservatore, 06.12.2025

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Segnali di debolezza nel mercato del lavoro ticinese

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Il mercato del lavoro in Ticino inizia a mostrare segni di sofferenza anche nelle statistiche.
Le prime avvisaglie si potevano già intravedere nei dati pubblicati a fine agosto sugli impieghi creati nelle grandi regioni svizzere. A prima vista i dati sembravano positivi; i posti di lavoro creati sono aumentati nel secondo trimestre del 2025 di quasi 1’550 unità rispetto ai tre mesi precedenti. L’incremento è stato addirittura di quasi 2’400 posti di lavoro rispetto allo stesso periodo dell’anno prima. Ma una lettura più approfondita ci portava a essere molto più prudenti. In effetti, il dato relativo ai posti di lavoro a tempo pieno era esattamente opposto: c’è stata una riduzione di oltre 1’500 posti rispetto al trimestre precedente e addirittura di quasi 2’400 rispetto all’anno prima. A crescere, difatti, sono stati principalmente i posti di lavoro di uomini e donne a tempo parziale.
Di per sé questo non è per forza un dato negativo, ma lo diventa quando non c’è una scelta volontaria, ma piuttosto un’esigenza del mercato del lavoro. Nel nostro Cantone sappiamo che i salari sono molto più bassi che nel resto della Svizzera il che porta a dover ricorrere all’aiuto dello Stato o a dover svolgere più di un lavoro. In entrambi i casi, i dati statistici ci confermano la debolezza del Ticino.
A confermare questa tendenza di un mercato del lavoro in sofferenza sono arrivate questa settimana anche le cifre del numero di frontalieri e della disoccupazione.
Nel primo caso, si conferma una certa stabilità attorno alle 80’000 persone. Questa situazione può essere interpretata in due modi: da una parte il mercato ha raggiunto il suo livello di saturazione per la manodopera non residente, dall’altra parte la situazione economica fa sì che la crescita di impieghi sia veramente limitata.
Questa seconda ipotesi troverebbe conferma anche nei dati appena pubblicati dalla Segreteria di Stato dell’Economia (SECO) sulla disoccupazione. Ricordiamo che questa cifra conteggia esclusivamente le persone iscritte presso gli uffici regionali di collocamento (con tutti i limiti del caso). Nonostante ciò, in Ticino c’è stata una crescita rispetto al mese scorso del 4,1% (ora si contano 4’552 persone) e del 4,2% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Il tasso di disoccupazione si situa oggi al 2,7%.
La dinamica va nella direzione indicata anche dalle previsioni economiche: un rallentamento legato da un lato all’instabilità geopolitica, dall’altro al clima di incertezza che pesa sulle economie avanzate. Vedremo se i prossimi mesi confermeranno questa traiettoria o se avremo qualche segnale di inversione. Cosa che naturalmente ci auguriamo.

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Shutdown, governi che cadono… e il Ticino?

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Gli Stati Uniti sono in pieno shutdown (blocco di tutte le attività pubbliche non essenziali) dall’inizio di ottobre 2025. Il Congresso non è riuscito a trovare un accordo sul bilancio e la conseguenza è stata immediata: uffici chiusi, migliaia di dipendenti pubblici sospesi, servizi ridotti al minimo. Non è la prima volta che succede. L’ultima nel 2018–2019. La paralisi durò 35 giorni, con rimborsi fiscali bloccati, aeroporti in tilt e cittadini che avevano perso fiducia nello Stato. Ogni volta la lezione è la stessa: quando le finanze pubbliche traballano, la politica si inceppa e l’economia reale paga subito il conto.

La teoria economica ci dice che la stabilità macroeconomica è una condizione necessaria per crescere. Un Paese non può accumulare debito all’infinito senza rischiare di compromettere la fiducia. Se il tasso di crescita dell’economia è inferiore al tasso d’interesse reale pagato sul debito, la traiettoria non è più sostenibile. A quel punto, non è più lo Stato a guidare la politica economica, ma sono i mercati a dettare le condizioni.

Il meccanismo è semplice: più alto è il debito, più crescono gli interessi che sono il costo per finanziarlo. Ma più risorse vanno agli interessi, meno ne restano per scuola, sanità, ricerca, infrastrutture. Invece di sostenere lo sviluppo, lo Stato si limita a rimborsare il passato. La stabilità macroeconomica non è quindi un lusso o una fissazione di alcuni economisti: è il prerequisito per mantenere competitività, attrarre investimenti e garantire ai cittadini servizi di qualità.

La Francia lo ha sperimentato di recente: deficit elevato, debito fuori controllo, governi caduti uno dopo l’altro perché incapaci di proporre una strategia credibile. Non basta annunciare correzioni, serve coerenza. Senza, il mercato reagisce: alza i tassi, riduce la fiducia e l’instabilità diventa permanente.

E se pensiamo che sia un problema solo dei grandi Stati, sbagliamo. Il Cantone Ticino non ha il dollaro come moneta di riserva né il peso politico della Francia. Se scegliesse la scorciatoia del debito facile, si ritroverebbe subito con margini ridotti: meno spazio per investire, meno possibilità di dare risposte concrete ai bisogni dei cittadini. E basta poco perché i costi aumentino.

La conclusione è netta: finanze pubbliche sane non sono moralismo, sono buon senso. Senza stabilità macroeconomica, la politica diventa ostaggio del debito e perde la libertà di scegliere.

Chi crede ancora che i debiti non si paghino può guardare lo spettacolo di Washington. Promesse, accuse incrociate, stipendi sospesi. Una sceneggiatura già vista, con un finale scontato: i debiti non spariscono. Non è magia, è contabilità. E il conto, alla fine, lo pagano sempre i cittadini.

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Cassa malati: tutti alla cassa!

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Quando si parla di politiche pubbliche non si parte dagli slogan, ma da un’analisi seria. Prima si capisce qual è il problema reale: serve davvero un nuovo programma o possiamo intervenire diversamente? Poi bisogna guardare ai fallimenti del mercato che vogliamo correggere: prezzi troppo alti, poca concorrenza, disuguaglianze. Da lì si aprono le alternative, perché non esiste mai una sola soluzione e ogni opzione ha pro e contro.

Il passo successivo è il disegno del programma: chi ha diritto, con quali criteri, con quali limiti. Sembra un dettaglio tecnico, ma è il cuore della questione. Subito dopo arriva la parte più scomoda: prevedere come reagiranno i cittadini e le imprese. Perché non restano fermi, cambiano comportamento, e spesso in modo imprevisto.

A quel punto si valutano due cose: l’efficienza – se il programma usa bene le risorse o crea sprechi – e la distribuzione, cioè chi ci guadagna e chi ci perde davvero. Qui si tocca il punto più delicato: i trade-off, i compromessi inevitabili fra equità ed efficienza.

Infine servono due condizioni di fondo: chiarezza sugli obiettivi – cosa vogliamo ottenere e perché – e consapevolezza che tutto passa dal processo politico. Senza consenso e senza fiducia, anche la misura più brillante sulla carta rischia di non funzionare.

In breve, fare una politica pubblica significa attraversare un percorso complesso, non scrivere uno slogan.

E veniamo alle iniziative sulle casse malati. L’intenzione è chiara: limitare il peso dei premi cassa malati ai cittadini. Ma se applichiamo i criteri di analisi appena visti, i conti non reggono. Trattiamo quella del 10%.

Già nel primo anno servirebbero circa 300 milioni. Gli iniziativisti sostengono che non tutti chiederanno l’aiuto e quindi il costo sarà minore. Ma un diritto non si calcola sulla speranza che qualcuno non lo eserciti. Lo Stato deve stimare i costi per il 100% dei cittadini. E non basta: i premi aumentano di anno in anno. Quello che oggi costa 300 milioni, nel 2027 potrebbe già diventare 330, poi 350, e così via. Non ci sono analisi di medio periodo, solo calcoli statici sul primo anno.

Anche sul fronte delle entrate i conti non tornano. Un aumento del 10% delle imposte porterebbe circa 150 milioni, ma ne mancano altri 150. Si prova allora a inserire i 40 milioni dell’aumento del valore di stima degli immobili: peccato che quei soldi sono già a bilancio per finanziare scuole, asili e ambiente e la metà appartiene ai Comuni. Cosa facciamo, glieli togliamo? Ultima idea: aumentare l’imposta sulla sostanza dal 2,5 al 3,5 per mille. Ma così si mettono in discussione accordi già votati con la riforma fisco-sociale, con il rischio che le aziende ritirino i contributi che oggi sostengono asili nido e rette delle famiglie.

C’è poi un effetto meno visibile, ma altrettanto importante: se tanto paga lo Stato, i cittadini non avranno più interesse a cercare una cassa meno cara e le casse malati non avranno più incentivo a offrire premi più bassi. Il risultato? Ancora meno concorrenza e una spesa sanitaria destinata a crescere ancora.

Facendo i conti, il deficit del Cantone salirebbe subito oltre il mezzo miliardo già al primo anno. Perché non dimentichiamolo: noi purtroppo non siamo Zugo e i nostri conti sono già oggi sotto di 100 milioni. Poi arriveranno anche i nuovi oneri federali: la riforma EFAS, che vale da sola 200–300 milioni, gli oneri della Confederazione e altre riforme come il valore locativo o la tassazione individuale, che possono pesare altri 150–200 milioni. Totale: quasi un miliardo di buco.

E quando i soldi non ci sono, le strade sono sempre le stesse: aumentare le imposte a tutti, oppure tagliare beni e servizi. E i tagli, come sempre, colpiranno i più fragili: scuole, anziani, sociale, cultura, ambiente. Nessuno resterà escluso.

Fare politiche pubbliche che rischiano di far deragliare le finanze dello Stato non è un gioco. È un esercizio serio, non uno slogan elettorale. Prima servono analisi solide, poi proposte credibili. E allora la domanda è inevitabile: dove sono queste analisi?

Alla fine la scelta è nostra. Ognuno voterà come crede ed è giusto così. Ma bisogna sapere la verità: il conto non sparisce. Non lo pagheremo più nella fattura della cassa malati, lo pagheremo con le imposte, con le rette degli asili, con i tagli ai servizi. Nessun miliardario verrà a salvarci. Alla fine, a pagare, saremo sempre noi cittadini.

Testo in parte pubblicato sui portali

La perequazione punisce il Ticino: ecco perché

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Il Ticino riceverà nel 2026 quasi 98 milioni di franchi dalla perequazione finanziaria. Una cifra che può sembrare positiva, ma in realtà è inferiore rispetto ai 106.5 milioni del 2025. E se riceviamo meno non è perché stiamo meglio, ma perché altri Cantoni stanno peggio.
L’indice delle risorse del Ticino sale da 90.4 a 91.2. Un piccolo aumento che però ci costa oltre 8 milioni. Il sistema federale svizzero prevede che i Cantoni economicamente forti, insieme alla Confederazione, sostengano quelli più deboli. La perequazione si basa su tre strumenti principali.
La perequazione delle risorse è l’asse portante del sistema. Confronta il potenziale fiscale dei Cantoni – includendo redditi (anche dei frontalieri), sostanza e utili delle aziende – con la media nazionale. Si calcola su tre anni (2020–2022). Se l’indice è sotto 100, il Cantone ha diritto a ricevere fondi. Con un indice di 91.2, il Ticino riceverà 79.2 milioni (erano 88 nel 2025). Guardando dentro i numeri scopriamo che i redditi delle persone fisiche in Ticino sono cresciuti dell’1.7% (media nazionale 2.1%), quelli dei frontalieri del 2.6% (contro 0.5%). Ma la sostanza si è ridotta dello 0.8% (nazionale +2.5%) e gli utili aziendali sono crollati del 26.7% (nazionale -20.8%).
La compensazione degli oneri geo-topografici riguarda i costi dovuti a condizioni del territorio: comuni in quota, pendenze, bassa densità. Il Ticino riceve 15.7 milioni, di cui circa 10 milioni legati all’altitudine delle zone produttive e 5 alla scarsa densità abitativa.
La compensazione degli oneri sociodemografici copre invece i costi legati a fattori come povertà, invecchiamento e integrazione. Il Ticino otterrà 5.5 milioni, in crescita rispetto al 2025.
Il fondo perequativo complessivo cresce, ma la quota ticinese si riduce. Perché? Perché altri Cantoni – come Giura, Vallese e Grigioni – sono peggiorati di più. Intanto, Cantoni come Ginevra, Zugo e Sciaffusa, grazie agli utili record nel commercio energetico e delle materie prime, versano contributi molto più alti. Questo ridisegna gli equilibri e spinge il Ticino verso il margine.
Il Ticino non può più limitarsi a sommare quanto riceve. Deve chiedersi perché riceve e su quali basi. Il sistema poggia su oltre cento parametri. Per muoversi con cognizione serve uno studio tecnico serio, indipendente, che analizzi il nostro profilo fiscale e permetta di avanzare rivendicazioni solide.
Il punto non è quanto riceviamo. È perché dobbiamo riceverlo.
Uscire da questa dipendenza richiederà tempo. Bisognerà affrontare problemi strutturali: salari bassi, lavoro fragile, settori a basso valore aggiunto. Ma nel frattempo, i meccanismi di calcolo vanno corretti. Non serve andarci col cappello in mano. Serve farlo con basi tecniche forti, numeri precisi e la consapevolezza che la solidità di una richiesta parte dalla qualità dell’analisi.

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In Ticino avere un impiego non garantisce una vita dignitosa

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Negli ultimi giorni, un comunicato dell’Ufficio federale delle assicurazioni sociali (UFAS) ha riportato l’attenzione su una tendenza preoccupante: in Svizzera è aumentato il numero di persone che dipendono dalle prestazioni complementari. Un dato che non riguarda solo le finanze dello Stato, ma riflette un disagio crescente: quello di migliaia di persone che, pur vivendo in uno dei Paesi più ricchi al mondo, faticano a coprire i bisogni essenziali.
Nel 2023, l’8% della popolazione svizzera viveva sotto la soglia ufficiale di povertà: 2’315 franchi al mese per una persona sola, 4’051 per una famiglia con due figli. E se si guarda a chi dispone di meno del 60% del reddito mediano — cioè al “rischio di povertà” — la quota è ancora più elevata. Ma la povertà non è solo questione di reddito. È anche deprivazione. È non riuscire a pagare una bolletta imprevista. È rinunciare a un pasto completo, a una visita medica, a una settimana di vacanza, a un minimo di vita sociale. È vivere con l’ansia costante di non farcela.
Le persone più colpite sono sempre le stesse: gli anziani soli, le famiglie monoparentali, chi ha un lavoro precario, chi ha perso il lavoro dopo i cinquant’anni. E crescono i working poor, persone che lavorano, ma non guadagnano abbastanza per vivere con dignità. Questo dovrebbe farci riflettere sul senso stesso del lavoro oggi: non basta “avere un impiego” se quell’impiego non garantisce una vita dignitosa senza l’aiuto dello Stato.
In Ticino la situazione è ancora più delicata. Il tasso di povertà è superiore alla media nazionale e la deprivazione materiale colpisce con più forza. Salari bassi, precarietà diffusa, giovani che se ne vanno e over 50 esclusi dal mercato del lavoro: è un mix che pesa. Anche la forte presenza di frontalieri influisce sulle dinamiche occupazionali e salariali. Il tasso di disoccupazione secondo la definizione ILO è il più alto della Svizzera.
Il nostro sistema sociale cantonale funziona, ma è sotto pressione. Le prestazioni complementari, i sussidi cassa malati, l’aiuto sociale, gli assegni familiari: tutto questo tiene a galla migliaia di persone. Ma da solo non basta. Servono politiche attive per il lavoro, investimenti nella formazione, un vero sostegno alla riqualifica professionale.
Non possiamo accettare che la povertà diventi una zona d’ombra normale nel nostro sistema. Non è normale. È il risultato di scelte politiche o della mancanza di scelte. Ogni persona lasciata indietro è una sconfitta collettiva. È nostro dovere, come istituzioni, ma anche come cittadini, far sì che nessuno debba scegliere tra pagare l’affitto o andare dal medico, tra accendere il riscaldamento o fare la spesa.
Guardare in faccia la povertà non basta. Serve il coraggio di intervenire. Serve volontà politica. E serve adesso.

Articolo pubblicato da L’Osservatore, 24.05.2025

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Qui trovate il link di una conferenza “La povertà in Svizzera e in Ticino” tenuta a Coldrerio il 22.05.2025

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Apprendistato, basta chiacchiere!

Da anni si ripete che la formazione professionale è un pilastro del nostro sistema, che l’apprendistato è un’eccellenza svizzera, e giorno per giorno si dichiara di voler combattere la disoccupazione giovanile. Ma poi? Fatti?

 Nel 2022, il Ticino era in fondo alla classifica dei Cantoni che formano apprendisti: penultimo a livello svizzero. L’amministrazione cantonale ticinese, nel 2023, era al 4.3%, ben sotto il famoso 5% fissato come obiettivo… un obiettivo stabilito già nel 2017. Nel frattempo, le aziende che formano apprendisti continuano a diminuire, i nuovi contratti non crescono come previsto, e il progetto “Obiettivo 95%” (diploma secondario II per il 95% dei giovani) è inchiodato al 90.3%.

Eppure, le basi ci sarebbero. Il Cantone può formare in 41 professioni, ha 218 formatori attivi e ospita già quasi 200 apprendisti. Non servono grandi sforzi: basterebbe creare una trentina di nuovi posti nei prossimi due anni, come proposto nella mozione che sarà discussa il 20 maggio in Gran Consiglio. Il costo? Circa 350’000 franchi all’anno per dare un lavoro ai nostri figli. Su un bilancio da oltre 4,5 miliardi di franchi, è una spesa marginale ma un investimento strategico.

Ogni giovane formato è un potenziale lavoratore qualificato in meno da cercare all’estero. Ogni posto di apprendistato in più è un passo contro la disoccupazione, un argine alla fuga di cervelli, un’occasione di crescita per un’impresa o per un ente pubblico. E, aggiungo, un atto di coerenza: se governo e parlamento chiedono ai privati di formare, il minimo che si possa pretendere è che diano l’esempio. Ne va della credibilità della politica.

C’è poi un punto che non possiamo più ignorare: l’equilibrio di genere nelle professioni. Le ragazze continuano a orientarsi verso settori “tradizionali”, spesso con meno prospettive. Promuovere attivamente la loro presenza nelle professioni tecniche non è solo giusto, è necessario. E non basta mettere l’asterisco nei bandi: servono politiche mirate, incentivi, visibilità.

L’apprendistato fatto bene è un ascensore sociale. Ma bisogna alimentarlo, farlo funzionare, crederci davvero. Continuare con la politica dei piccoli passi simbolici, mentre il sistema scricchiola, non è più accettabile. Se vogliamo una forza lavoro preparata, integrata, radicata, dobbiamo iniziare dal principio: offrire più opportunità ai nostri giovani. Non a parole. Nei fatti.

E magari, la prossima volta che i partiti si riempiranno la bocca di “giovani”, “formazione” e “opportunità” in campagna elettorale, ricordiamoci chi ha davvero fatto qualcosa… e chi ha fatto solo chiacchiere.

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Pubblicato da Tio e Ticinonews

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La disoccupazione cresce: non facciamo gli struzzi!

Nessuno ama parlare di disoccupazione, sottoccupazione e povertà, tanto meno chi governa il Paese.
“Lassù” si preferiscono narrazioni rasserenanti. Si racconta di un Cantone Ticino innovativo e all’avanguardia dove poli di eccellenza nascono come funghi. Una piccola Silicon Valley pronta a partire alla conquista del mondo.
Sfortunatamente, la realtà è ben diversa. Proprio ieri mattina sono arrivati i dati della disoccupazione nel Cantone Ticino calcolata secondo il metodo dell’organizzazione internazionale del lavoro (ILO).
Questa stima poggia su basi statistiche: include le persone che non hanno un lavoro e lo stanno ancora cercando. Differisce dalla disoccupazione “ufficiale” della Segreteria di Stato dell’economia (SECO) che si limita a contare gli iscritti presso gli Uffici Regionali di Collocamento (URC).
Non tutti i disoccupati sono iscritti, come sapete bene.
Le nostre autorità preferiscono la statistica SECO anche perché permette di raccontare una storia tranquillizzante: il canton Ticino avrebbe un tasso di disoccupazione bassissimo, 2.4%: “solo” 4’000 disoccupati.
Eppure, la nostra realtà, quella che vediamo attorno a noi, appare molto diversa: chiunque di noi conosce vicini che non trovano lavoro, hanno figli o figlie che faticano a inserirsi, lavoratori esperti licenziati che non riescono a ricollocarsi. Autorità ed esperti dicono che si tratti di una percezione. Ma non lo è.
I dati ILO confermano che quello che le persone sentono sulla loro pelle corrisponde alla realtà. Queste cifre ci dicono che in Ticino le persone disoccupate in cerca di un lavoro e disposte a lavorare sono oltre 13’200. Il tasso di disoccupazione è al 7.3%, ben tre volte il dato della SECO. Per trovare un numero così alto di persone disoccupate, dobbiamo tornare al periodo Covid. Solo chi è in mala fede può sorprendersene: basterebbe guardare ai dolorosi licenziamenti e ristrutturazioni in atto nelle aziende ticinesi.
Non sono numeri: queste sono persone e intere famiglie in difficoltà la cui situazione non fa altro che aggravarsi di mese in mese con il peso degli aumenti: cassa malati, affitti ed energia, ecc. Queste persone meriterebbero di non essere considerate “una percezione”.
Fino a qualche anno fa si poteva contare sull’appoggio delle generazioni più anziane; ora anche questo inizia a scricchiolare: non riescono ad aiutare se stesse, figuriamoci figli e nipoti. E che dire delle nuove generazioni che seguono con impegno il consiglio dei governi e dei partiti di formarsi il più possibile e che poi, una volta arrivato il diploma, devono emigrare oltre Gottardo?
Per parafrasare lo sfortunato slogan del periodo pandemico: non andrà tutto bene, tutt’altro. Se si finge di non vedere il problema, se lo si ignora o addirittura lo si nega, le cose non potranno che peggiorare. Le soluzioni non sono facili, certo. Ma qua non le si sta nemmeno cercando. E se si insiste a dire che tutto va bene, sicuramente non le troveremo. È un esercizio di negazione di massa la cui responsabilità ricade pienamente su chi dovrebbe avere in mano le redini del cantone e sceglie, invece, di tenere la testa ostinatamente nascosta sotto la sabbia.

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Ticinesi? Sempre più poveri

I ticinesi sono sempre più poveri. I dati di Eurostat appena pubblicati non lasciano, purtroppo, alcun dubbio: il Canton Ticino è oggi una delle regioni europee a maggior rischio di povertà o esclusione sociale. Nella graduatoria, la nostra regione si trova in condizioni peggiori rispetto alla maggior parte delle aree di Grecia, Romania, Ungheria, Croazia, Polonia, Italia e Spagna.
A livello nazionale, la Svizzera si attesta intorno alla media dell’Unione Europea, con il 19.5% della popolazione a rischio povertà o esclusione sociale (contro una media UE del 21,4%). Parliamo di una persona su cinque.
Nei Paesi Bassi, Finlandia, Norvegia, Austria, Danimarca e Svezia, la situazione è migliore di quella nazionale svizzera e già questo dovrebbe farci riflettere. Ma il quadro diventa ancora più drammatico quando si osservano i dati regionali: in Ticino, nel 2023, oltre il 35% della popolazione vive a rischio povertà o esclusione sociale. Un dato spaventoso: più di una persona su tre non guadagna abbastanza per vivere al livello del resto della sua comunità di appartenenza. In questa classifica, il Ticino è tristemente posizionato al 225º posto su 243 regioni analizzate, in sostanza solo diciotto fanno peggio di noi in tutta Europa.
Naturalmente, confrontare regioni diverse tra loro senza riferirsi a grandezze assolute può avere dei limiti. Per esempio, l’Emilia-Romagna, la seconda regione italiana per benessere, ha “solo” il 7% di persone a rischio povertà, ma conta una popolazione di 4,5 milioni di persone contro le 350 mila del Ticino. O ancora, il livello assoluto di benessere può essere molto diverso tra le nazioni. E allora, se il confronto statistico tra regioni ci sembra avere dei limiti, analizziamo invece lo sviluppo della situazione ticinese nel tempo. Nel 2020, il rischio di povertà toccava meno di una persona su quattro (24.2%). In soli tre anni, siamo saliti al 35.1%. Una persona su tre. Purtroppo, come si vede, la situazione in Ticino è peggiorata drasticamente.
E se le cose non cambiano, la situazione è destinata a peggiorare. Sono decenni che ricordiamo che i salari ticinesi sono il 20% più bassi della media svizzera, con differenze che toccano persino il 35-40% rispetto a regioni come Zurigo. A questa mancanza di reddito si aggiunge la beffa: i costi di molte voci essenziali nel nostro Cantone sono più elevati che nel resto della Svizzera. I premi cassa malati, per esempio, possono arrivare a essere il doppio rispetto ad altri cantoni. Sì, il doppio, avete letto bene. Anche le imposte di circolazione, le tariffe dell’energia elettrica, le tasse sul registro fondiario, le imposte immobiliari, e persino la benzina possono costare di più. I dati non mentono.
I dati però sono aridi. Quando si parla con le persone, si tocca il lato umano di questa catastrofe sociale in via di compimento. Questa mattina, una gentile signora che faceva la spesa mi ha detto “Sa, signora Mirante, dobbiamo proprio fare tutti “economia” in questo momento. Per comprare un pezzo di formaggio ho confrontato il prezzo al chilo di tre marche diverse. Se le cose non cambiano, noi ticinesi siamo messi davvero male”.
Sì, cara signora lei ha ragione. Anzi, già ora noi ticinesi siamo messi molto male…

Articolo pubblicato dai portali Ticinonline, Ticinonews, Liberatv,…

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I cervelli ticinesi se la danno a gambe

Estratto dell’intervista di Marija Milanovic, tvsvizzera.it – pubblicata il 02.07.2024

È recentemente uscita una notizia che all’apparenza non ha nulla di sorprendente: la natalità è calata nel canton Ticino. Una tendenza che riflette non solo quella elvetica, ma anche quella globale. Oltre alle ragioni più note (fattori economici e maternità sempre più tardive in primis), nel cantone italofono, secondo una recente analisi, la denatalità è influenzata anche dalla fuga di cervelli, anch’essa sempre più marcata.
Il Ticino, insomma, sembra averle tutte: i salari sono i più bassi della Confederazione, gli aumenti di premi di cassa malati i più alti e molti studenti e studentesse che si recano in altri cantoni per studiare all’università, poi restano anche a viverci.
La ragione spesso è che le condizioni lavorative sono migliori, sia a livello salariale che per quanto riguarda le opportunità professionali, come ci spiega anche Amalia Mirante, docente di economia politica, etica economica e storia del pensiero economico presso la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (SUPSI) e l’Università della Svizzera italiana (USI): “Purtroppo il Ticino è in una situazione per cui molte e molti giovani – che non per forza sono solo quelli che hanno titoli accademici – sono costretti a cercare lavoro altrove”. Il fatto che il fenomeno della fuga di cervelli non interessi più soltanto chi ha una formazione di livello terziario, ma anche professionale, accentua le difficoltà del mercato del lavoro ticinese. “Si tratta di campanelli di allarme molto importanti”, aggiunge Mirante.
A dimostrarlo anche l’esempio della giovane chef Dalila Zambelli. Con il titolo di miglior apprendista cuoca della Svizzera, la giovane si è vista rifiutare da decine di ristoranti del suo cantone natale e ha dovuto così optare per la Svizzera interna. Spiegava, lo scorso mese di dicembre, in un’intervista rilasciata al Corriere del Ticino, che, nonostante il settore della ristorazione ticinese denunci da anni carenze di personale, ha ricevuto solo risposte negative alle sue candidature. Situazione che l’ha spinta a traslocare a Zurigo: “È chiaro che mi sarebbe piaciuto trovare qualcosa in Ticino, ma ho bisogno di fare esperienza e per questo, quando mi si è presentata l’opportunità di andare [nella città sulla Limmat], non ho esitato (…) Sto imparando e crescendo, non solo professionalmente ma anche come persona”. Parola di una ragazza che, negli Stati Uniti, ha cucinato anche per Bill Clinton.

Carenza statistica
I cervelli fuggono, si sa. Ma quanti? E dove? Per quanto tempo? Non è chiaro. “Le poche cifre che abbiamo a disposizione su questo fenomeno sono poco precise”, dichiara Mirante. “Non considerano per esempio i giovani che rimangono a lavorare fuori cantone dopo la formazione ma mantengono il domicilio in Ticino. Non viene nemmeno presa in considerazione una nuova forma di lavoro che sta prendendo piede [in particolare dopo la pandemia di Covid-19, ndr]: le persone lavorano una parte della settimana in Ticino e l’altra in un altro cantone”. Tendenze ed evoluzioni che fanno sì che il fenomeno sia molto più ampio di quello che emerge dalle statistiche.
[…]

Salari ticinesi fanalino di coda del mercato del lavoro svizzero
Da anni i salari ticinesi risultano essere i più bassi del Paese e con il tempo il divario aumenta sempre di più. Nel 2022 il salario mediano1 elvetico per un posto a tempo pieno era di 6’788 franchi lordi al mese. Una remunerazione che varia fortemente a seconda delle regioni, della formazione, del ramo economico e del sesso. Il Ticino è risultato nuovamente essere il cantone dove si guadagna meno, con un salario mediano di 5’590 franchi.

Il fenomeno zurighese (ma non solo) dell’economia di aggregazione
In effetti, a parte alcune eccezioni, i grandi nomi si trovano nella Svizzera interna e in quella francese, dove l’economia di agglomerazione è molto più radicata. IBM, Google, Nestlé, Microsoft hanno sedi nei grandi centri urbani elvetici.
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Caro frontalierato… ma quanto mi costi?
Uno dei fattori che influenzano maggiormente questa fuga di cervelli è quello del frontalierato. Stando alle ultime statistiche, le frontaliere e i frontalieri italiani che lavoravano in Ticino nel primo trimestre del 2024 erano 78’645, a fronte di una popolazione attiva residente pari a 176’000 persone. In altre parole, quasi un lavoratore su tre (31,6%) proviene da oltre confine.
Perché questo è un problema? Perché molto spesso, a parità di funzione, un frontaliere o una frontaliera accettano condizioni salariali più vantaggiose per il datore di lavoro rispetto a lavoratrici e lavoratori indigeni. “La differenza tra i salari di residenti ticinesi e quelli frontalieri è del 20%. Una percentuale che può arrivare al 40% per le professioni meglio retribuite”, spiega Amalia Mirante.
Si migra allora verso nord, alla ricerca di condizioni più favorevoli. Le e i ticinesi a nord del Gottardo, le e gli italiani a nord della frontiera. Prosegue Amalia Mirante: “Quello che succede è che l’Italia finanzia la formazione di persone qualificate, competenti e assolutamente capaci che poi vanno a lavorare in un’altra nazione”. Un problema che però riguarda anche il loro Paese di origine, che perde professionisti qualificati, proprio dopo aver investito del denaro per formarli.
“La Germania qualche anno fa pensava di introdurre una tassa da far pagare ai medici tedeschi che andavano a lavorare in Svizzera”, ricorda la studiosa. Formare un medico, infatti, comporta un grande costo per un Paese. L’Italia si trova confrontata con lo stesso problema e proprio recentemente il ministro della Salute Orazio Schillaci ha proposto l’adozione di un piano d’incentivi fiscali per cercare di convincere professioniste e professionisti medici di rimanere in patria.
Nella stessa direzione va anche la tanto discussa tassa sulla salute che prevede che i vecchi frontalieri paghino al sistema sanitario italiano tra il 3 e il 6% del loro stipendio netto. Contributi volti a finanziare i bonus per il personale sanitario italiano e limitare l’esodo di lavoratrici e lavoratori dalle regioni di frontiera.

Quali soluzioni?
Non ci sono soluzioni immediate e sicure per cercare di arginare il fenomeno. Una sarebbe sicuramente quella di rendere più attrattivo il mercato del lavoro ticinese.
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Non si è arrivati, insomma, a un punto di non ritorno, rassicura dal canto suo Amalia Mirante: “È tutto risolvibile. C’è potenziale per essere un cantone svizzero a tutti gli effetti”.

1 Per salario mediano s’intende che la metà degli stipendi è sopra la cifra indicata, l’altra metà è sotto. Non è quindi una media, su cui incidono maggiormente i singoli importi molto alti o molto bassi.