L’Unione Europea pensa mentre la Cina fa

Il viaggio di Xi Jiping in Europa è finito. E ancora una volta è l’Unione Europea a mostrare la sua debolezza. Sì perché il presidente cinese in questa visita ha rafforzato i rapporti commerciali con Francia, Serbia e Ungheria. Questo nonostante le parole molto dure e anche stizzite della presidente uscente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen. In effetti, durante il colloquio aveva dichiarato “abbiamo discusso delle questioni economiche e di commercio; ci sono degli squilibri, che suscitano gravi preoccupazioni e siamo pronti a difendere la nostra economia, se serve”.  Continuava poi muovendo dure critiche alla Cina per quanto riguarda i sussidi di Stato nelle produzioni come le auto elettriche, l’acciaio o i dispositivi medicali che evidentemente, a causa dei prezzi più bassi, guadagnano importantissime quote di mercato in Europa nuocendo alle imprese locali. Questa non è una novità, poiché  sono mesi oramai che l’Unione Europea apre indagini contro la Cina. In aggiunta, la presidente Von der Leyen ha invitato caldamente Pechino a intervenire nel conflitto ucraino facendo pressioni sulla Russia per quanto riguarda la minaccia nucleare e a non fornirle più alcun equipaggiamento militare. Crediamo che questi auspici cadranno nel vuoto, tant’è vero che da parte del presidente cinese non vi è stata nessuna dichiarazione in merito.

Ma non finisce qui. Xi Jiping in questo viaggio è riuscito a rafforzare ulteriormente le sue relazioni con Francia, Serbia e Ungheria.  Se nel caso francese i rapporti sono stati un po’ più complessi, con la Serbia e l’Ungheria si sono rafforzate ulteriormente alleanze già solide. In effetti, il presidente cinese definisce il rapporto con la Serbia un’ “ amicizia d’acciaio” e non a caso sono stati siglati ben 28 atti, tra accordi bilaterali e protocolli di intesa, per aumentare la cooperazione. Nel caso ungherese il presidente cinese si è mostrato ancora più vicino a questa nazione: oltre a parlare di “posizioni e visioni simili”, ha elogiato l’indipendenza del governo del premier Orban rispetto alla politica estera europea. Non per niente di recente il produttore cinese di auto elettriche BYD ha aperto la prima fabbrica europea proprio in Ungheria, paese che già ospita diversi produttori di batterie al litio. Anche in questo caso i due paesi hanno sottoscritto 18 nuovi accordi per aumentare la cooperazione economica e culturale. D’altronde non è una novità che l’Ungheria e il suo premier siano una spina nel fianco per l’Unione Europea.

È evidente che la Cina ha enormi interessi a penetrare ulteriormente il mercato europeo, d’altronde se la risposta europea è esclusivamente quella di cercare di bloccare l’accesso attraverso inchieste che limitino il commercio, Pechino non avrà grosse difficoltà a vincere.

Da sempre sottolineiamo che la competitività di un paese va ricercata nella formazione, nella ricerca e nello sviluppo di prodotti innovativi, di certo non innalzando barriere. Purtroppo, lo diciamo ancora una volta, l’Unione Europea sembra aver dimenticato che per progredire bisogna prima di tutto fare. E all’orizzonte non paiono esserci grandi progetti di un ritorno alla cara vecchia “industria”. Cosa che al contrario non disdegnano i cinesi, anzi ora vengono anche in Europa a produrre.

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Chi ha paura dell’intelligenza artificiale?

Il 1 novembre a Londra si è tenuto il primo vertice mondiale sull’intelligenza artificiale. A questo incontro hanno partecipato 28 nazioni che hanno raggiunto un accordo per regolamentarne lo sviluppo. La dichiarazione di Betchley (nome del luogo dell’incontro) riconosce l’importanza dell’intelligenza artificiale, ma ne mette in evidenza anche i possibili abusi.
Forse che la nevrosi ci sta un po’ assalendo? Negli scorsi mesi abbiamo visto persino gli attori di Hollywood scioperare invocando il divieto dell’uso dell’intelligenza artificiale. In termini di sicurezza nessuno nega che come tutte le tecnologie anche questa potrebbe essere utilizzata in senso negativo, ma forse l’allarmismo è eccessivo.
E in effetti, in questo ambito non sono mancati altri atti. I paesi del G7 (Canada, Francia, Italia, Giappone, Regno Unito, Germania e Stati Uniti) di recente hanno approvato un codice di condotta denominato Hiroshima e che prevede 11 punti (che qui sotto vi riproponiamo). Leggendoli appare evidente come l’intelligenza artificiale sia agli occhi dei governi un grosso rischio. In nome della sicurezza con questo codice si cerca di avere un controllo sullo sviluppo dei sistemi di intelligenza artificiale e di limitarne gli utilizzi. Ma davvero si può bloccare o incanalare il progresso tecnologico?
La storia che conosciamo fino ad oggi ci ha insegnato che non è possibile fermare il progresso. E per fortuna, aggiungiamo noi. La paura che proviamo di fronte alle repentine scoperte fatte nel campo dell’intelligenza artificiale non deve essere molto diversa da quella provata quando il telaio meccanico o la macchina a vapore hanno iniziato a diffondersi. Certo oggi non mettiamo più i nostri zoccoli di legno dentro negli ingranaggi per distruggere i macchinari che avrebbero portato via i posti di lavoro alle persone, ma l’atteggiamento sembra simile. È lo stesso atteggiamento che abbiamo visto all’inizio di questa rivoluzione 4.0. Ve lo ricordate il catastrofismo iniziale legato all’avvento dell’automazione e della digitalizzazione? Nel 2016 il WEF (World Economic Forum) diceva che avremmo perso 5 milioni di posti di lavoro entro il 2020 e che le nostre condizioni di vita sarebbero peggiorate drasticamente. Per fortuna la storia ha seguito un altro corso.
Ed è sempre lo stesso corso che sembra seguire la storia quando si tratta di progresso. Cerchiamo di opporci, cerchiamo di controllarlo, cerchiamo di contrastarlo. Ma la storia ci dimostra che il nostro livello di benessere è sempre dipeso proprio dalla tecnologia.
E proprio per questo e proprio in un mondo dove l’informazione circola alla velocità della rete che dovremmo cambiare atteggiamento. Non cerchiamo di fermare quello che non può essere fermato. Cerchiamo al contrario di imparare a usare il progresso a nostro vantaggio e a nostra volta insegniamo a non cadere nelle trappole di chi ne vuole fare un cattivo uso. L’intelligenza artificiale significa anche diagnosi di malattie precocemente, nuove scoperte di medicamenti, nuovi metodi di apprendimento. Insistiamo per diffondere questa intelligenza artificiale.

Caffè e vaccini: a cosa servono i brevetti?

Chi l’avrebbe mai detto che la forma della capsula di caffè non è un bene da tutelare come marchio? Sì, la nostra è una provocazione che si riferisce alla recentissima sentenza del tribunale federale che finalmente mette fine a una vertenza economico-giuridica che si trascina da molti anni. Il tribunale ha sancito che una forma, in questo caso di una capsula da caffè, non può essere registrata come marchio se deve per forza essere usata da un concorrente che produce un prodotto simile.
Questa sentenza ci consente di affrontare il tema dell’importanza dei brevetti per l’innovazione e lo sviluppo tecnologico. A differenza di quello che saremmo tentati di pensare la maggior parte della spesa in ricerca e sviluppo viene finanziata dal settore privato. Sono le aziende che spinte dalla necessità di scoprire nuovi prodotti, nuove organizzazioni, nuove tecnologie per garantirsi il successo economico e sopravvivere investono molte risorse nella ricerca. Evidentemente affinché ci sia questa spinta ad essere la prima a scoprire qualcosa, deve esserci una chiara tutela che le altre imprese non possano beneficiarne. In effetti, se gli altri possono copiare il mio prodotto e guadagnare, mentre io ho sostenuto i costi per scoprirlo, nessuno investirà un franco nella ricerca.
Naturalmente questo non significa che anche le università, le aziende e gli istituti pubblici e para-pubblici non facciano attività di ricerca, anzi. Ma è chiaro che lo scopo in questo caso non è quello di massimizzare i profitti o ridurre i costi, bensì collaborare nelle scoperte di interesse pubblico.
Le nazioni hanno la libertà di scegliere quanta tutela dare alle aziende. Ci sono nazioni come la Svizzera che proteggono molto le scoperte. Altre, come per esempio la Cina, hanno basato la loro forza sulla riproduzione di scoperte altrui su larga scala. Questo grazie alla grandissima disponibilità di manodopera a disposizione. Il modello copia e riproduci su larga scala è stato determinante per la loro crescita economica. Attenzione però che oggi la Cina ha fatto passi da gigante nello sviluppo tecnologico e nell’innovazione, tanto da diventare, probabilmente a breve, la prima potenza mondiale.
Tornando ai nostri brevetti, il tema è di estrema attualità. Il dibattito sul fatto che i vaccini non debbano essere tutelati riaccende un tema che non ha mai veramente trovato una quadratura del cerchio: fino a che punto le scoperte nel campo della medicina devono essere brevettabili?
La nostra risposta di pancia è scontata: i farmaci devono essere accessibili a tutti perché esiste un diritto alla salute. Purtroppo, bisogna fare i conti con la realtà: se non ci fosse un interesse e una garanzia della tutela dei guadagni futuri, nessuna azienda investirebbe milioni in spese di ricerca. Ricordiamoci anche che non tutti gli investimenti portano a risultati; molte volte finiscono nel nulla.
Quindi, non sta tanto all’economia quanto piuttosto ai governi fare in modo di garantire l’accessibilità ai farmaci a tutti, tutelando il diritto alla salute.

La versione audio: Caffè e vaccini: a cosa servono i brevetti?
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