Svizzera: tra oro alle stelle e consumi in stallo

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Le previsioni sul PIL per quest’anno e il prossimo, sia da parte della Segreteria di Stato dell’economia (SECO) che del Centro di ricerca congiunturale del Politecnico federale di Zurigo (KOF), indicano una crescita ancora positiva, ma in rallentamento rispetto a qualche mese fa. Il contesto internazionale, sempre più incerto, e i nuovi conflitti in corso pesano parecchio sul quadro generale.
A essere onesti, già nei mesi scorsi il termine “fermento economico” sembrava fuori luogo. I dazi commerciali avevano inizialmente sollevato qualche timore, ma a oggi il loro impatto non pare così determinante. Diverso il discorso sul nuovo conflitto tra Israele e Iran: qui gli effetti si sono fatti sentire subito, soprattutto sulle materie prime. L’oro ha toccato livelli record, mentre anche petrolio e gas sono in aumento. Tutto questo rischia di tradursi in un rincaro generale dei beni e, di conseguenza, in una perdita di potere d’acquisto per le famiglie.
Non sorprende quindi che la fiducia dei consumatori resti debole. E se la domanda ristagna, anche le imprese tendono a rimandare gli investimenti. Le previsioni per i prossimi mesi non sono rosee: il mercato del lavoro ne risentirà e si prevede un aumento della disoccupazione, sia quest’anno che nel prossimo.
Anche sul fronte del commercio estero non arrivano buone notizie. I dati di maggio mostrano un rallentamento delle esportazioni, in particolare verso gli Stati Uniti. Era prevedibile: nel primo trimestre c’era stata una corsa agli acquisti in vista dei dazi americani, un effetto che ora si è esaurito.
Un segnale incoraggiante arriva però dalle importazioni nel settore chimico-farmaceutico, in aumento. Questo fa pensare che le imprese del comparto stiano preparando un incremento della produzione: un possibile segnale di ripresa futura.
Infine, una nota sulla politica monetaria. La Banca nazionale svizzera ha deciso di abbassare ancora i tassi d’interesse, portandoli dallo 0.25% allo 0%. Una mossa che riflette il calo dell’inflazione, ormai sotto controllo. L’obiettivo è stimolare consumi e investimenti, anche se gli effetti, con un franco forte e una domanda esterna debole, restano da verificare.
Insomma, nessun disastro all’orizzonte, ma neppure motivi per stappare lo champagne.

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Le auto crollano, l’oro brilla

Questa settimana Donald Trump ha sferrato un altro colpo: ha annunciato che dal 2 aprile saranno applicati dazi del 25% su tutte le automobili importate negli Stati Uniti. In pratica, chi vuole vendere un veicolo in America dovrà pagare molto di più per farlo. L’obiettivo è chiaro: spingere le case automobilistiche americane a produrre di più in patria, e quelle estere a spostare la produzione direttamente negli USA. Ma gli effetti non sono così semplici da prevedere.

Il primo impatto si è visto in borsa. Le azioni delle grandi case automobilistiche, europee e americane, sono crollate. BMW, Mercedes, Volkswagen: tutte giù. General Motors ha perso quasi il 10% a Wall Street in un solo giorno. Perché? Perché i dazi significano costi più alti, vendite più difficili e margini ridotti.

E non parliamo solo di auto straniere. Anche molti veicoli americani vengono assemblati con pezzi importati. Se aumentano i costi di quelle componenti, aumenta anche il prezzo finale. Risultato: auto più care, consumatori scontenti e rischi reali per l’occupazione.

E quando un paese alza i dazi, gli altri non stanno a guardare. Canada, Giappone e Unione Europea hanno già annunciato contromisure. È così che nascono le guerre commerciali: uno colpisce, l’altro risponde, e alla fine tutti tassano tutti.

Nel frattempo, mentre la borsa scende, l’oro sale. Quando i mercati traballano e il futuro diventa incerto, gli investitori si rifugiano nei beni più stabili. E l’oro è il rifugio per eccellenza. Risultato: ha quasi raggiunto i 3’100 dollari l’oncia (che equivale a circa 31,1 grammi), toccando un record storico. È come un termometro: più la situazione si scalda, più l’oro si infiamma. E adesso la febbre è alta.

La domanda vera è: funzionerà? Trump spera di riportare lavoro nelle fabbriche americane, ma il mondo non è più quello degli anni ’80. Le catene produttive sono globali, le aziende sono collegate in tutto il mondo, e nessuno produce tutto da solo. I dazi piacciono a una parte dell’elettorato, ma non è detto che risolvano i problemi. D’altra parte, un po’ di produzione locale in più potrebbe non far male, né all’occupazione né all’ambiente. Come spesso succede, la ragione – e forse anche l’efficacia – sta nel mezzo.

La Guerra è tornata in Europa

La reazione occidentale per ora ruota intorno all’idea di sanzioni economiche che alzino il costo della guerra per la Russia. Sappiamo, e lo abbiamo visto proprio con la fase di preparazione dell’invasione russa, che le sanzioni economiche non dissuadono uno Stato sovrano che ha deciso di attaccarne un altro.
Mi addolora l’insistenza di molti commentatori sulle conseguenze economiche della guerra. Anziché contare su leader politici e grandi strateghi, abbiamo l’impressione di avere a che fare con contabili (con il massimo rispetto per i contabili). La strategia messa in atto finora di minacciare e di attuare sanzioni economiche nei confronti della Russia non ha impedito l’aggressione.
E da quarantott’ore a questa parte la narrazione dei fatti sul terreno è punteggiata di dati economici e finanziari. Certo, le borse mondiali crollano: e ci mancherebbe, i conflitti armati sono quanto di più pericoloso e nocivo per gli individui. Qualche volta sembra che dimentichiamo che il sistema economico è stato creato al servizio degli uomini e delle donne e che non ha nessuna ragione di esistere senza di loro. L’incertezza lo abbiamo sempre detto è il peggior nemico dell’economia e non credo ci sia nulla di più instabile che un periodo in cui si vive una guerra.
E che dire delle stime che ogni paese sta facendo delle sue relazioni commerciali con la Russia? Davvero scopriamo solo ora la stretta interdipendenza globale tra le nazioni?
Leggiamo dell’aumento dei prezzi dei generi alimentari legati al grano e ai cereali, come pure di quelli legati ai prodotti energetici e in particolare al gas e al petrolio. Verissimo, probabilmente le famiglie dei ceti medi bassi vedranno ulteriormente ridursi il loro potere d’acquisto. Come stava già accadendo da mesi, ma ora abbiamo un nemico più facilmente identificabile.
Ci preoccupiamo dell’aumento del valore dei beni rifugio, come l’oro, e nel nostro caso, il franco svizzero. Sicuramente potrebbero esserci conseguenze per le nostre esportazioni, ma non saranno queste le difficoltà peggiori che vivremo se il conflitto va avanti.
Non credo che ci sia un solo esempio nella storia che dimostri l’efficacia delle sanzioni economiche al cospetto della brama di potere. Eppure, le grandi potenze mondiali in questo momento paiono avere solo questa freccia al loro arco. Forse perché le altre frecce utilizzabili implicherebbero un allargamento catastrofico del conflitto. Spero di sbagliarmi, ma ho forti dubbi che le sanzioni servano ad arginare Putin. Temo che mettere in ginocchio l’economia di un Paese e con essa i suoi cittadini non sia lo strumento che possa fermare questa guerra, anzi. Alimenteranno la narrazione vittimistica di Putin dando a posteriori una giustificazione di cui il leader russo non ha nemmeno bisogno.
Tratto da L’Osservatore del 26.02.2022

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