Svizzera 2026: crescita sì, ma con prudenza

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Anche quest’anno sotto l’albero di Natale degli economisti sono arrivate puntuali le previsioni economiche della Segreteria di Stato dell’economia (SECO) e del KOF, il centro di ricerche congiunturali del Politecnico federale di Zurigo. Per l’anno prossimo i dati per la Svizzera non si discostano di molto nei due casi. Vediamo i principali della SECO.

Il prossimo anno dovrebbe essere caratterizzato da una certa stabilità economica, che ci porterà a una crescita del prodotto interno lordo (PIL) dell’1,1%. A sostenere questa crescita sarà soprattutto la domanda delle famiglie. I consumi privati rappresentano circa il 50% dell’intera produzione annuale e sono quindi una delle componenti principali della nostra economia.

Sul fronte dei consumi pubblici, invece, si dovrebbe registrare sì un aumento, ma contenuto rispetto a quello dell’anno in corso: +0,4% rispetto all’1,3% del 2025.

Buone notizie arrivano anche dagli investimenti, che quest’anno hanno mostrato una riduzione sia nel settore delle costruzioni sia in quello dei beni di equipaggiamento, cioè gli investimenti produttivi. Nel 2026 la tendenza dovrebbe modificarsi, segnando un aumento dell’1,6% nelle costruzioni e dello 0,7% nei beni di equipaggiamento. In questo caso l’indicatore legato agli investimenti produttivi ricopre un ruolo molto importante perché ci permette di comprendere il sentimento degli imprenditori: se i macchinari vengono sostituiti o se se ne acquistano di nuovi, è il segnale che ci si aspetta maggiori vendite e quindi una fase più positiva per l’economia.

Sul fronte del commercio estero è arrivata una buona notizia, anzi ottima: gli accordi sui dazi hanno consentito di ridurli, nel caso degli Stati Uniti, dal 39% al 15%. Questo elemento gioca un ruolo importante per quanto riguarda l’aumento delle esportazioni, stimate per l’anno prossimo all’1,6%. La Svizzera non è un paese con grandi materie prime e, di conseguenza, per esportare beni deve prima importare materie prime e semilavorati, ai quali aggiungere valore in vista dell’esportazione di prodotti finali. In questo contesto si conferma un aumento previsto delle importazioni dell’1,3%.

La somma di tutte le componenti della domanda aggregata, ossia consumi privati, investimenti, spesa pubblica ed esportazioni nette, compone il prodotto interno lordo che, come dicevamo, crescerà dell’1,1%.

La notizia di una crescita è certamente positiva, ma dobbiamo interrogarci sul fatto che sia sufficiente a mantenere un’occupazione stabile. Affinché non aumenti il tasso di disoccupazione, infatti, la vendita di beni e servizi deve crescere a un ritmo tale da compensare sia l’aumento della popolazione attiva sia l’aumento della produttività legato al progresso tecnologico. In questo caso i dati per l’anno prossimo non sono particolarmente confortanti: si prevede una crescita dell’occupazione di appena lo 0,2% e un aumento della disoccupazione dal 2,8% di quest’anno al 3,1%.

Chiudiamo questo viaggio nelle previsioni con un’ultima buona notizia: il livello dei prezzi per l’anno prossimo è stimato praticamente stabile (+0,2%). Questo significa che almeno sul fronte dell’inflazione la battaglia è stata vinta.

Naturalmente, come sappiamo, l’economia è influenzata da moltissimi fattori, spesso difficili da prevedere. Per questo, come sempre, al di là delle previsioni, i conti li faremo con la realtà. E speriamo che sia una bella realtà.

Segnali di debolezza nel mercato del lavoro ticinese

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Il mercato del lavoro in Ticino inizia a mostrare segni di sofferenza anche nelle statistiche.
Le prime avvisaglie si potevano già intravedere nei dati pubblicati a fine agosto sugli impieghi creati nelle grandi regioni svizzere. A prima vista i dati sembravano positivi; i posti di lavoro creati sono aumentati nel secondo trimestre del 2025 di quasi 1’550 unità rispetto ai tre mesi precedenti. L’incremento è stato addirittura di quasi 2’400 posti di lavoro rispetto allo stesso periodo dell’anno prima. Ma una lettura più approfondita ci portava a essere molto più prudenti. In effetti, il dato relativo ai posti di lavoro a tempo pieno era esattamente opposto: c’è stata una riduzione di oltre 1’500 posti rispetto al trimestre precedente e addirittura di quasi 2’400 rispetto all’anno prima. A crescere, difatti, sono stati principalmente i posti di lavoro di uomini e donne a tempo parziale.
Di per sé questo non è per forza un dato negativo, ma lo diventa quando non c’è una scelta volontaria, ma piuttosto un’esigenza del mercato del lavoro. Nel nostro Cantone sappiamo che i salari sono molto più bassi che nel resto della Svizzera il che porta a dover ricorrere all’aiuto dello Stato o a dover svolgere più di un lavoro. In entrambi i casi, i dati statistici ci confermano la debolezza del Ticino.
A confermare questa tendenza di un mercato del lavoro in sofferenza sono arrivate questa settimana anche le cifre del numero di frontalieri e della disoccupazione.
Nel primo caso, si conferma una certa stabilità attorno alle 80’000 persone. Questa situazione può essere interpretata in due modi: da una parte il mercato ha raggiunto il suo livello di saturazione per la manodopera non residente, dall’altra parte la situazione economica fa sì che la crescita di impieghi sia veramente limitata.
Questa seconda ipotesi troverebbe conferma anche nei dati appena pubblicati dalla Segreteria di Stato dell’Economia (SECO) sulla disoccupazione. Ricordiamo che questa cifra conteggia esclusivamente le persone iscritte presso gli uffici regionali di collocamento (con tutti i limiti del caso). Nonostante ciò, in Ticino c’è stata una crescita rispetto al mese scorso del 4,1% (ora si contano 4’552 persone) e del 4,2% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Il tasso di disoccupazione si situa oggi al 2,7%.
La dinamica va nella direzione indicata anche dalle previsioni economiche: un rallentamento legato da un lato all’instabilità geopolitica, dall’altro al clima di incertezza che pesa sulle economie avanzate. Vedremo se i prossimi mesi confermeranno questa traiettoria o se avremo qualche segnale di inversione. Cosa che naturalmente ci auguriamo.

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Shutdown, governi che cadono… e il Ticino?

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Gli Stati Uniti sono in pieno shutdown (blocco di tutte le attività pubbliche non essenziali) dall’inizio di ottobre 2025. Il Congresso non è riuscito a trovare un accordo sul bilancio e la conseguenza è stata immediata: uffici chiusi, migliaia di dipendenti pubblici sospesi, servizi ridotti al minimo. Non è la prima volta che succede. L’ultima nel 2018–2019. La paralisi durò 35 giorni, con rimborsi fiscali bloccati, aeroporti in tilt e cittadini che avevano perso fiducia nello Stato. Ogni volta la lezione è la stessa: quando le finanze pubbliche traballano, la politica si inceppa e l’economia reale paga subito il conto.

La teoria economica ci dice che la stabilità macroeconomica è una condizione necessaria per crescere. Un Paese non può accumulare debito all’infinito senza rischiare di compromettere la fiducia. Se il tasso di crescita dell’economia è inferiore al tasso d’interesse reale pagato sul debito, la traiettoria non è più sostenibile. A quel punto, non è più lo Stato a guidare la politica economica, ma sono i mercati a dettare le condizioni.

Il meccanismo è semplice: più alto è il debito, più crescono gli interessi che sono il costo per finanziarlo. Ma più risorse vanno agli interessi, meno ne restano per scuola, sanità, ricerca, infrastrutture. Invece di sostenere lo sviluppo, lo Stato si limita a rimborsare il passato. La stabilità macroeconomica non è quindi un lusso o una fissazione di alcuni economisti: è il prerequisito per mantenere competitività, attrarre investimenti e garantire ai cittadini servizi di qualità.

La Francia lo ha sperimentato di recente: deficit elevato, debito fuori controllo, governi caduti uno dopo l’altro perché incapaci di proporre una strategia credibile. Non basta annunciare correzioni, serve coerenza. Senza, il mercato reagisce: alza i tassi, riduce la fiducia e l’instabilità diventa permanente.

E se pensiamo che sia un problema solo dei grandi Stati, sbagliamo. Il Cantone Ticino non ha il dollaro come moneta di riserva né il peso politico della Francia. Se scegliesse la scorciatoia del debito facile, si ritroverebbe subito con margini ridotti: meno spazio per investire, meno possibilità di dare risposte concrete ai bisogni dei cittadini. E basta poco perché i costi aumentino.

La conclusione è netta: finanze pubbliche sane non sono moralismo, sono buon senso. Senza stabilità macroeconomica, la politica diventa ostaggio del debito e perde la libertà di scegliere.

Chi crede ancora che i debiti non si paghino può guardare lo spettacolo di Washington. Promesse, accuse incrociate, stipendi sospesi. Una sceneggiatura già vista, con un finale scontato: i debiti non spariscono. Non è magia, è contabilità. E il conto, alla fine, lo pagano sempre i cittadini.

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Cassa malati: tutti alla cassa!

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Quando si parla di politiche pubbliche non si parte dagli slogan, ma da un’analisi seria. Prima si capisce qual è il problema reale: serve davvero un nuovo programma o possiamo intervenire diversamente? Poi bisogna guardare ai fallimenti del mercato che vogliamo correggere: prezzi troppo alti, poca concorrenza, disuguaglianze. Da lì si aprono le alternative, perché non esiste mai una sola soluzione e ogni opzione ha pro e contro.

Il passo successivo è il disegno del programma: chi ha diritto, con quali criteri, con quali limiti. Sembra un dettaglio tecnico, ma è il cuore della questione. Subito dopo arriva la parte più scomoda: prevedere come reagiranno i cittadini e le imprese. Perché non restano fermi, cambiano comportamento, e spesso in modo imprevisto.

A quel punto si valutano due cose: l’efficienza – se il programma usa bene le risorse o crea sprechi – e la distribuzione, cioè chi ci guadagna e chi ci perde davvero. Qui si tocca il punto più delicato: i trade-off, i compromessi inevitabili fra equità ed efficienza.

Infine servono due condizioni di fondo: chiarezza sugli obiettivi – cosa vogliamo ottenere e perché – e consapevolezza che tutto passa dal processo politico. Senza consenso e senza fiducia, anche la misura più brillante sulla carta rischia di non funzionare.

In breve, fare una politica pubblica significa attraversare un percorso complesso, non scrivere uno slogan.

E veniamo alle iniziative sulle casse malati. L’intenzione è chiara: limitare il peso dei premi cassa malati ai cittadini. Ma se applichiamo i criteri di analisi appena visti, i conti non reggono. Trattiamo quella del 10%.

Già nel primo anno servirebbero circa 300 milioni. Gli iniziativisti sostengono che non tutti chiederanno l’aiuto e quindi il costo sarà minore. Ma un diritto non si calcola sulla speranza che qualcuno non lo eserciti. Lo Stato deve stimare i costi per il 100% dei cittadini. E non basta: i premi aumentano di anno in anno. Quello che oggi costa 300 milioni, nel 2027 potrebbe già diventare 330, poi 350, e così via. Non ci sono analisi di medio periodo, solo calcoli statici sul primo anno.

Anche sul fronte delle entrate i conti non tornano. Un aumento del 10% delle imposte porterebbe circa 150 milioni, ma ne mancano altri 150. Si prova allora a inserire i 40 milioni dell’aumento del valore di stima degli immobili: peccato che quei soldi sono già a bilancio per finanziare scuole, asili e ambiente e la metà appartiene ai Comuni. Cosa facciamo, glieli togliamo? Ultima idea: aumentare l’imposta sulla sostanza dal 2,5 al 3,5 per mille. Ma così si mettono in discussione accordi già votati con la riforma fisco-sociale, con il rischio che le aziende ritirino i contributi che oggi sostengono asili nido e rette delle famiglie.

C’è poi un effetto meno visibile, ma altrettanto importante: se tanto paga lo Stato, i cittadini non avranno più interesse a cercare una cassa meno cara e le casse malati non avranno più incentivo a offrire premi più bassi. Il risultato? Ancora meno concorrenza e una spesa sanitaria destinata a crescere ancora.

Facendo i conti, il deficit del Cantone salirebbe subito oltre il mezzo miliardo già al primo anno. Perché non dimentichiamolo: noi purtroppo non siamo Zugo e i nostri conti sono già oggi sotto di 100 milioni. Poi arriveranno anche i nuovi oneri federali: la riforma EFAS, che vale da sola 200–300 milioni, gli oneri della Confederazione e altre riforme come il valore locativo o la tassazione individuale, che possono pesare altri 150–200 milioni. Totale: quasi un miliardo di buco.

E quando i soldi non ci sono, le strade sono sempre le stesse: aumentare le imposte a tutti, oppure tagliare beni e servizi. E i tagli, come sempre, colpiranno i più fragili: scuole, anziani, sociale, cultura, ambiente. Nessuno resterà escluso.

Fare politiche pubbliche che rischiano di far deragliare le finanze dello Stato non è un gioco. È un esercizio serio, non uno slogan elettorale. Prima servono analisi solide, poi proposte credibili. E allora la domanda è inevitabile: dove sono queste analisi?

Alla fine la scelta è nostra. Ognuno voterà come crede ed è giusto così. Ma bisogna sapere la verità: il conto non sparisce. Non lo pagheremo più nella fattura della cassa malati, lo pagheremo con le imposte, con le rette degli asili, con i tagli ai servizi. Nessun miliardario verrà a salvarci. Alla fine, a pagare, saremo sempre noi cittadini.

Testo in parte pubblicato sui portali

Svizzera: le notizie che non fanno notizia

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Questa settimana l’economia svizzera ha dato l’impressione di dormire sonni tranquilli. Nessun terremoto, pochi scossoni (per fortuna, aggiungiamo noi). Ma attenzione: anche la calma va letta. Dietro i dati piatti ci sono storie e cambiamenti che meritano uno sguardo più attento.

Il tasso di disoccupazione nazionale calcolato dalla Segreteria di Stato dell’Economia (SECO) a giugno resta fermo al 2,7%, come il mese scorso. A prima vista, tutto regolare. Ma la realtà è più sfumata, soprattutto per il Canton Ticino.

Il dato SECO si basa sulle persone iscritte agli Uffici regionali di collocamento (URC). È utile per monitorare le dinamiche istituzionali, ma non rappresenta l’intera platea dei disoccupati. Se guardiamo invece al tasso armonizzato ILO, che include anche chi cerca lavoro senza passare dagli URC, il Ticino va oltre al 6%. È più del doppio rispetto alla media nazionale SECO ed è un segnale da non sottovalutare.

A questo si aggiunge una dinamica ben nota: la pressione del frontalierato che continua ad avere un impatto importante sul mercato del lavoro ticinese. Il differenziale salariale tra Italia e Svizzera rende il lavoro in Ticino molto attrattivo per i lavoratori frontalieri. Questo fenomeno, in un contesto di concorrenza sul costo del lavoro, può rendere più difficile per i residenti trovare impiego o mantenere salari competitivi, generando frustrazione e, in alcuni casi, un vero e proprio scoraggiamento. È anche uno dei motivi per cui molti disoccupati ticinesi non si registrano agli URC, pur cercando attivamente un lavoro.

Insomma, non tutto il lavoro che manca si vede nei numeri ufficiali. E questo vale in particolare in regioni di frontiera come la nostra.

I prezzi restano stabili. A giugno, l’indice nazionale dei prezzi al consumo (IPC) è immobile a 107,5 punti. L’inflazione annua è appena +0,1%. In tempi in cui molti Paesi faticano a contenere i prezzi, la Svizzera si conferma un’isola di stabilità.

Non mancano piccole variazioni (sanità e ristorazione un po’ su, energia in lieve calo), ma il quadro generale non desta preoccupazioni. Chiaro: l’inflazione bassa aiuta chi consuma, ma può frenare chi investe o chi spera in una spinta salariale. Anche qui: calma apparente e qualche contraddizione in sottofondo.

Il dato che ha fatto più rumore riguarda i fallimenti aziendali, saliti del 50% rispetto a un anno fa. A giugno si contano a livello nazionale circa 1’400 casi e le proiezioni annuali superano i 14’000.

Ma la causa non è (solo) economica: dal 1° gennaio 2025 è in vigore una riforma della Legge federale sull’esecuzione e sul fallimento (LEF). Ora gli enti pubblici avviano direttamente le procedure fallimentari per i crediti fiscali e contributivi. Prima si tentava il pignoramento. La nuova prassi ha accelerato le procedure, creando un picco statistico che riflette anche vecchie situazioni rimaste in sospeso.

Nel Canton Ticino, la situazione è un po’ diversa: nel primo trimestre 2025 i fallimenti sono aumentati dell’8% (127 casi). È un segnale che, da un lato conferma l’effetto statistico della nuova legge, dall’altro evidenzia una vulnerabilità specifica delle imprese ticinesi. Tuttavia, il numero assoluto resta contenuto e riguarda soprattutto microimprese e artigiani. Anche se non significa che sia da ignorare.

Ad ogni modo, la sostanza? Non è un’ondata di fallimenti legata a una crisi reale, ma un effetto contabile e giuridico. Serve tenerlo a mente per evitare allarmismi troppi grandi.

In economia, a volte il silenzio è più interessante del rumore. Settimane come questa ci invitano a non fermarci ai titoli, ma a scavare un po’ sotto la superficie. È lì che si capisce davvero come sta andando il Paese.

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Economia svizzera: segnali contrastanti tra attese e realtà

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C’è un’immagine che descrive bene l’economia svizzera in questo inizio estate: una bilancia in equilibrio instabile. Da una parte segnali che fanno sperare, dall’altra numeri che invitano alla prudenza. A maggio 2025, l’indicatore anticipatore del KOF Konjunkturbarometer è salito a 98.5 punti, dopo il crollo di aprile (97.1). Un miglioramento, sì, ma ancora non abbastanza: siamo sotto la soglia dei 100 punti che indica una congiuntura sopra la media. Il barometro del KOF misura ogni mese le aspettative sull’economia svizzera a 3-6 mesi, aggregando vari dati (produzione, ordini, export…).
A trainare questa timida ripresa è soprattutto il settore manifatturiero: le imprese della chimica, dell’agroalimentare, del legno e della carta riportano attese più favorevoli. Anche la percezione sulla competitività e sulle esportazioni migliora. Ma la domanda, sia interna che estera, resta debole.
E questo trova conferma nei dati reali sul commercio estero pubblicati dall’Ufficio federale della dogana: aprile 2025 è stato un mese difficile. Le esportazioni svizzere, corrette dagli effetti stagionali, sono scese del 9,2% rispetto a marzo; le importazioni addirittura del 15,6%, peggior dato mensile dal 2020. Ma attenzione: si tratta di dati nominali, cioè non corretti per l’andamento dei prezzi. A prezzi costanti, il calo è più contenuto: –3,3% per le esportazioni e –10% per le importazioni. Inoltre, marzo aveva mostrato una crescita eccezionale e anomala delle esportazioni.
A provocare questi sbalzi è, ancora una volta, il settore chimico-farmaceutico. Solo i medicinali hanno perso quasi 3 miliardi in un mese, –44%. Anche le importazioni di questi prodotti si sono ridotte di un terzo. Quando un settore pesa così tanto, trascina con sé tutto il commercio.
Ci sono però eccezioni positive: l’orologeria svizzera ha toccato un massimo storico con 2,6 miliardi (+16%). Anche strumenti di precisione e macchine industriali tengono. E se l’export verso gli USA è crollato del 36%, quello verso l’Asia è cresciuto del 4,4%, soprattutto grazie a Cina (+15,2%) e Giappone (+5%).
Curiosamente, il crollo delle importazioni ha portato a un avanzo commerciale record: 6,3 miliardi di franchi. Ma non è un segnale di forza: se importiamo meno, rischiamo di produrre e quindi esportare meno. E in un’economia povera di materie prime, importare è spesso il primo passo per poter vendere all’estero.
In sintesi: qualche segnale positivo c’è, ma servono conferme. Le imprese sperano in una ripresa, ma per ora i numeri veri la rimandano. Serve calma, capacità di leggere il quadro d’insieme e resistere tanto al panico quanto all’euforia.

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Trump ha fatto la prima mossa. Ma non controlla tutto il tavolo

Tanto tuonò che piovve. E alla fine, i dazi annunciati dal Presidente Trump sono arrivati. Non più minaccia, ma provvedimento. E come prevedibile, l’impatto immediato è stato più politico-mediatico che economico (se escludiamo quello sui mercati azionari). In poche ore, si sono moltiplicate dichiarazioni confuse, talvolta contraddittorie, da parte di leader politici, ministri, esperti e commentatori. Un vero eccesso comunicativo.
Una delle poche eccezioni, la presidente Karin Keller-Sutter, che, in stile tipicamente svizzero, ha preferito il silenzio fino alla conferenza stampa di giovedì quando ha comunicato che la Svizzera non attuerà misure di ritorsione.
L’introduzione di dazi selettivi ha un impatto economico che va letto con attenzione. E non basta dire che “il protezionismo porta solo disastri”. È una posizione ideologica, non un’analisi.
Ricordiamolo: i dazi sono imposte sull’importazione. Fanno salire i prezzi dei beni esteri, riducono la concorrenza, spingono la produzione interna. Ma l’impatto è asimmetrico e settoriale. Alcuni settori beneficiano, altri soffrono. Qualcuno guadagna, qualcuno perde. Se proteggi l’acciaio, rischi di penalizzare l’industria dell’auto. Se aiuti il manifatturiero, alzi i prezzi al consumo.
Vero, i dazi di Trump non sono frutto di un’elaborazione tecnica condivisa o di un modello economico trasparente. Sono decisioni politiche, spesso annunciate via social prima ancora che siano definite nelle modalità applicative. Il calcolo dei costi e benefici? Ai nostri occhi, opaco. La selezione dei settori colpiti? Sembra elettorale, ma forse è più mirata di quanto appare. In apparenza, non siamo davanti a una politica industriale organica.
Eppure, non tutto è irrazionale. Alcune imprese, anche svizzere non escludono di rilocalizzare negli Stati Uniti. Questo perché, a differenza dei cittadini, le imprese non hanno identità territoriali. Hanno vincoli competitivi. E se il costo-opportunità cambia, cambiano anche loro.
Pensare che il libero mercato sia sempre la scelta migliore, in ogni condizione, è un dogma. La globalizzazione ha prodotto vantaggi enormi, ma anche squilibri che oggi nessuno può ignorare. Trump, nel suo modo disordinato, intercetta una parte di questo problema. Anche se lo fa con strumenti discutibili.
Quello che serve ora non è la condanna morale o l’applauso ideologico. Serve tempo.
Il pallino, in questo momento, è nelle mani di Trump. Ma sarebbe un errore pensare che il gioco sia solo suo. Le reazioni dei partner commerciali, le dinamiche delle filiere globali, le decisioni delle imprese e il comportamento dei consumatori contribuiranno a ridisegnare la partita. Trump può muovere per primo, ma non controlla tutto il tavolo. E i dazi, per quanto rumorosi, sono solo una delle pedine.

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Articolo pubblicato da L’Osservatore, 5.04.2025

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L’economia nel nuovo anno fra ottimismo e prudenza

Come stanno le principali economie industrializzate? Ci sarà qualche bel regalo sotto l’albero di Natale o i pacchi resteranno vuoti?

I dati sull’inflazione, nonostante un leggero aumento a novembre, restano rassicuranti. Negli Stati Uniti l’indice dei prezzi al consumo su base annua è salito al 2.7%, nell’Eurozona al 2.3%, mentre in Svizzera si attesta allo 0.7%. Questi ultimi sono ben lontani dai picchi del 3.5% dell’agosto 2022 o del 3.4% di febbraio 2023.

L’ottimismo sui prezzi ha spinto la Banca Nazionale Svizzera (BNS) e la Banca Centrale Europea (BCE) a ridurre i tassi di interesse di riferimento. La BCE ha tagliato di 0.25 punti percentuali, portandoli tra il 3% e il 3.4%. La BNS ha invece sorpreso con una diminuzione di 0.5 punti, fissando il tasso allo 0.5%. Questa mossa potrebbe anche mirare a frenare la forza del franco svizzero, ancora troppo elevata per non penalizzare le esportazioni e il turismo. Alcuni analisti non escludono un ritorno ai tassi negativi entro la fine del prossimo anno, anche se è bene rimanere prudenti, considerata la volatilità del contesto economico globale. Anche la Federal Reserve, attesa alla sua prossima riunione, potrebbe seguire questa tendenza di ribasso.

Se i cittadini possono beneficiare dei tassi più bassi, i dati sulla crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) lasciano meno spazio alla soddisfazione. Negli Stati Uniti, il PIL del terzo trimestre ha registrato un solido +2.8%, confermando la ripresa dell’economia americana. L’Eurozona e la Svizzera, invece, arrancano: il PIL europeo è aumentato di appena lo 0.4%, mentre quello svizzero si ferma a un modesto +0.2%.

Per il 2025, le previsioni non sono molto migliori: l’Unione Europea dovrebbe crescere attorno all’1.1%, mentre la crescita Svizzera è attesa tra l’1.1% e l’1.5%. Il quadro resta fragile, influenzato da fattori come i conflitti in Ucraina e in Medio Oriente, i rincari energetici e le tensioni commerciali, che continuano a gravare sulle economie occidentali.

Sul fronte occupazionale, il terzo trimestre mostra una certa stabilità. L’occupazione europea è cresciuta dello 0.2% su base trimestrale, mentre in Svizzera l’aumento su base annua è stato dello 0.3%. Tuttavia, non mancano segnali di allarme: il tasso di disoccupazione è tornato a salire sia negli Stati Uniti sia in Svizzera nell’ultimo mese.

Tirando le somme, cosa possiamo augurarci per questo periodo natalizio? In uno scenario ideale, i consumatori potrebbero ritrovare fiducia, contribuendo a sostenere i consumi. Ma è evidente come l’incertezza economica e il costo della vita spingano molti a una maggiore prudenza. Auguriamoci che il 2025 porti una ventata di ottimismo e un ritorno a condizioni economiche più favorevoli. Del resto, il periodo delle festività dovrebbe essere un’occasione per guardare al futuro con un pizzico di speranza.

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Pubblicato da L’Osservatore – 14.12.2024

Taylor Swift impedisce la riduzione dei tassi di interesse?

È l’ottobre del 2023 quando Taylor Swift entra nella classifica dei miliardari della rivista Forbes. Non è la prima musicista a farlo, ma è la prima a riuscirci grazie esclusivamente alle sue canzoni. I suoi colleghi “miliardari” devono il loro patrimonio alle attività secondarie, come le collaborazioni con marchi di cosmetica oppure di abbigliamento sportivo.

Gli economisti, tuttavia, non si occupano di Taylor Swift solo per il suo patrimonio personale. Negli ultimi mesi gli studi sull’impatto economico dei suoi concerti si sono moltiplicati. Capiamo che la cantante possa generare importanti introiti nelle località in cui si esibisce, ma ora si parla addirittura di influenzare le scelte delle banche centrali. Vediamo perché.

I fans che seguono Taylor Swift oltre a comperare il biglietto spendono del denaro per i viaggi, per gli alberghi, nei ristoranti, … Uno studio del 2023 su un concerto in Colorado ha stimato una spesa diretta totale media a persona di 1’327 $ (ca. 1’200 CHF). Se da questi si tolgono gli introiti che vanno direttamente alla cantante, l’impatto sul prodotto interno lordo (PIL) di questo Stato americano rimane comunque elevato: 140 milioni di dollari (126 milioni CHF). Stime più recenti fatte sulla tournée nel Regno Unito parlano addirittura di un giro d’affari di un miliardo di sterline (1.15 miliardi CHF).

Sappiamo che eventi che attirano migliaia di persone, come per esempio i mondiali di calcio o le esposizioni universali, generano effetti economici locali. Qui però il fenomeno è ben più grande e potrebbe addirittura influenzare decisioni macroeconomiche internazionali. Parliamo in particolare dei tassi di interesse. In questo senso, i banchieri centrali europei stanno già mettendo le mani avanti dichiarando che nei prossimi mesi bisognerà tenere conto della “Swift economy” (termine coniato dal New York Times).

Ma capiamo perché questa cantante può influenzare l’andamento dei tassi di interesse. Nelle date in cui è previsto un concerto si registra un aumento importante dei consumi: camere d’albergo, abbigliamento, gioielli, accessori, ristorazione, trasporti, tutto aumenta. Se la domanda aumenta, aumentano anche i prezzi. E che cosa succede se l’ufficio di statistica nazionale registra i prezzi proprio durante i giorni dei concerti? L’indice dei prezzi al consumo risulterà più alto. Niente di grave penserete voi, ma non è proprio così.  

Quando la banca centrale europea (BCE) si riunirà in settembre e guarderà i dati dei mesi precedenti, scoprirà che l’inflazione è ancora elevata. Questo potrebbe causare il rinvio di una riduzione dei tassi di interesse.

Insomma, se da una parte i concerti portano benessere economico, dall’altra possono generare anche un po’ di confusione nei dati.

Detto questo, siamo certi che i responsabili delle Banche centrali, pur non ascoltando per forza le canzoni della cantante, sappiano isolare gli effetti della “Swift economy” . 

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Previsioni a tinte fosche per l’economia elvetica

L’inflazione rallenta. I prezzi al consumo sia negli Stati Uniti che nelle principali nazioni europee stanno riducendo fortemente la loro corsa. Lo stesso accade anche per i prezzi alla produzione, che lo ricordiamo sono i prezzi dei beni nel momento in cui i prodotti escono dalla “fabbrica”.

Nel dettaglio possiamo segnalare la riduzione dei prezzi al consumo su base mensile nel mese di novembre in Spagna, Francia, Italia, Germania e nella Eurozona in generale. Anche gli aumenti su base annuale sono stati piuttosto contenuti e in alcuni casi persino inferiori ai due punti percentuali ritenuti quale soglia per parlare di stabilità dei prezzi. È questo il caso per esempio dell’Italia. Giova ricordare, tuttavia, che parte di questo effetto positivo è da ricondurre al fatto che proprio nei mesi di ottobre-dicembre dell’anno scorso avevamo vissuto l’impennata dei costi dei prezzi energetici (che nel frattempo fortunatamente si sono ridotti). Per questa ragione dobbiamo attendere ancora qualche mese prima di poter cantare vittoria nella lotta all’inflazione.

Anche il dato svizzero ci ha sorpresi positivamente: l’inflazione nel mese di novembre ha registrato un aumento annuo di “solo” l’1.4%; rispetto al mese precedente addirittura si registra una riduzione dello 0.2%. Ma le notizie buone finiscono qui. I dati appena pubblicati sull’andamento del terzo trimestre (luglio-settembre) del prodotto interno lordo (PIL) mostrano una crescita piuttosto contenuta (+0.3%), dopo che il trimestre precedente si era chiuso addirittura con una crescita negativa del -0.1%. Le voci che più preoccupano sono quelle che influenzeranno anche l’andamento dei prossimi mesi. In particolare, i consumi delle famiglie, gli investimenti in beni strumentali delle aziende oltre alle previsioni non troppo favorevoli delle esportazioni. È evidente che la situazione Svizzera è fortemente influenzata da quella internazionale. Il PIL dei nostri principali partner ha mostrato o una minima crescita, come nel caso dell’Italia (+0.1%) o addirittura una riduzione come nel caso della Francia e della Germania (-0.1%).

Non siamo ancora in grado di dire se questo rallentamento economico è la conseguenza delle politiche monetarie restrittive attuate per contrastare l’inflazione. Quello che è certo è che i conflitti ancora aperti in Ucraina e in Medio Oriente, uniti alle incertezze geopolitiche ed economiche, non sono di buon auspicio per il prossimo futuro. Non a caso le previsioni che gli istituti di ricerca stanno elaborando in queste settimane confermano per l’anno prossimo un tasso di crescita del PIL svizzero piuttosto contenuto che dovrebbe, purtroppo, causare anche degli effetti negativi, seppur fortunatamente contenuti, sul mercato del lavoro.

Speriamo che il Natale ci porti in dono prospettive migliori.

Articolo pubblicato da L’Osservatore, 9.12.2023

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