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I disoccupati che non si vedono e non si contano

Lo sappiamo. Ogni volta che la Segreteria di Stato dell’Economia (SECO) pubblica i dati sulla disoccupazione il nostro stupore aumenta.

Non si tratta di distorsione della realtà oppure di percezione sbagliata da parte del pubblico, come qualche “esperto” vuole farci credere. Lo diciamo da parecchio tempo: la statistica ufficiale della SECO conteggia esclusivamente il numero di persone iscritte presso gli uffici regionali di collocamento. E questo non è un buon indicatore dello stato di salute del mercato del lavoro in Ticino. Perlomeno non è un indicatore sufficiente a trarre conclusioni tanto ottimistiche.

Naturalmente la SECO non ha nessuna intenzione di nascondere i fatti, né intende dipingere una realtà più rosea del vero. Questo indicatore, ossia il numero di persone iscritte agli URC, dà le informazioni che contiene e che gli sono richieste: cioè esso enumera esclusivamente le persone in cerca di lavoro che sono anche iscritte a un ufficio di collocamento. È un indicatore, quindi, reale ma parziale, anzi parzialissimo.

La domanda che dovrebbero farsi commentatori e analisti che spesso utilizzano questi indicatori a scatola chiusa è un’altra: sono davvero rappresentativi della situazione ticinese?

La risposta breve è no.

E non bisogna essere luminari o specialisti per dare questa risposta, basta vivere e conoscere il territorio. Ambienti di diversa estrazione amano diffondere narrazioni appaganti, gratificanti o anche soltanto analgesiche. Non solo siamo in presenza di una quasi completa occupazione. Addirittura, in Ticino, avremmo un mercato e un’economia che non trova i profili altamente qualificati che cerca. E, ahinoi, non li trova nonostante la fatica e l’impegno che mettiamo nella formazione giovanile (per non parlare della fatica e dell’impegno di quei giovani medesimi).

Ma questa è appunto una narrazione, non la realtà del Canton Ticino. I nostri giovani qualificati, capaci e competenti si armano di bagagli e di biglietto del treno per andare a lavorare oltre Gottardo dove sono visti per quello che sono: giovani in gamba, con le qualifiche necessarie e la necessaria competenza.

Qui da noi, i nostri cinquantenni che perdono il posto di lavoro e cercano un impiego che ne riconosca esperienza e capacità, trovano solo porte chiuse. La situazione sta diventando talmente invivibile in questo cantone che persino alla fine della vita professionale con quanto messo da parte negli anni e con quanto percepito dai sistemi previdenziali non si riesce più a vivere in questo territorio. Centinaia di persone prossime al pensionamento stanno pianificando la loro partenza.

Di fronte a questa situazione cosa fa la politica? Poco, o niente. Si narrano la storia di un cantone innovativo, competitivo, culla del progresso tecnologico e all’avanguardia in Svizzera se non addirittura in Europa. Peccato che tutti i giorni quando ci alziamo, la maggioranza di noi, fa i conti non con le storie ma con la realtà.

E la realtà è ben diversa. Ma attenzione questo non significa che tutto sia perduto, anzi. Abbiamo tutte le possibilità e le potenzialità per cambiare, dobbiamo solo volerlo. Ma dobbiamo avere la volontà, come prima cosa, di vedere la realtà e smetterla di credere alle favole. Non siamo nel paese del Bengodi, non siamo la Silicon Valley. Siamo un cantone periferico, meno competitivo di quanto potrebbe e dovrebbe essere e le cui classi dirigenti faticano a rendersene conto. Oppure, non vogliono farlo.

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Sotto l’albero? Le previsioni del KOF

Anche quest’anno il KOF ci fa il suo regalo e mette sotto l’albero di Natale le previsioni economiche. Il KOF, che è il centro di ricerche congiunturali del politecnico federale di Zurigo, ci presenta i dati per il 2023 e per il 2024.

In generale constatiamo che a livello mondiale il Prodotto Interno Lordo (PIL), che ricordiamo è un indicatore del valore della produzione di beni e servizi e in un certo senso anche del benessere economico, mostra segni di rallentamento rispetto alla crescita del 2021 (anno post-Covid) e del 2022.
In effetti, il PIL mondiale nel 2023 aumenterà dello 0.5%, quello dell’Unione Europea e degli Stati Uniti dello 0.3% e quello cinese del 4.5%. Il PIL in Svizzera invece crescerà dell’1% (senza conteggiare l’effetto degli avvenimenti sportivi internazionali). La crescita dipenderà anche l’anno prossimo dal consumo privato (+2%), dagli investimenti (+1.3%) e dalle esportazioni (+2.1%). La spesa pubblica, come era prevedibile dopo anni di grandi interventi, si ridurrà del 2.9%. Detto questo però dobbiamo fare alcune considerazioni. Primo: le previsioni dicono che il settore delle costruzioni soffrirà (-0.7%), mentre terranno gli investimenti in macchinari e beni strumentali (2.3%). Siamo dispiaciuti per il settore delle costruzioni, ma la situazione poteva essere più preoccupante se a mostrare un andamento negativo fosse stato il settore dei macchinari. In effetti, questo settore indica il sentimento degli imprenditori. Se si aspettano un andamento positivo e quindi di aumentare le vendite, aumenteranno le spese in macchinari necessari per produrre. Se invece hanno un sentimento negativo, non sostituiranno nemmeno i macchinari che diventano vecchi oppure che si rompono. Secondo: anche il settore del commercio estero non ci fa dormire sonni troppo tranquilli. In effetti, la crescita sia dei beni che dei servizi venduti all’estero appare piuttosto ridotta rispetto agli anni passati. Questo dipende dalla situazione economica degli altri Paesi: se ci sono difficoltà economiche, non compreranno i nostri prodotti. Ma anche le importazioni sono da monitorare. Ricordiamo che la Svizzera non ha grandi materie prime per cui per produrre necessita di comperare dal resto del mondo materiali e prodotti semilavorati. Per questa ragione se le importazioni rallentano significa che produrremo meno e che quindi esporteremo meno.

Ma perché gli economisti sono ossessionati dall’analisi del prodotto interno lordo? Semplice perché dietro al prodotto interno lordo ci sono i concetti di produzione, occupazione e reddito. Se il PIL non aumenta a sufficienza, vuol dire che non bisogna produrre. Se non bisogna produrre, le aziende non hanno bisogno di dipendenti E questo significa licenziamenti. Senza un lavoro non si ha un reddito. Questo implica per lo Stato due fatti: da una parte aumentano le spese per le assicurazioni sociali (per esempio l’assicurazione disoccupazione), dall’altra parte si riducono le entrate (se si riduce il reddito si pagano meno imposte).
Sappiamo che il PIL deve crescere a un livello tale da compensare l’aumento della forza lavoro e l’aumento del progresso tecnologico. Se questo avviene il tasso di disoccupazione rimane stabile. Guardando i dati del 2023 e del 2024 possiamo dire che fortunatamente l’impatto sul mondo del lavoro sarà contenuto.

Tutte queste previsioni però si avvereranno a patto che si verificheranno le condizioni immaginate dal KOF: un’inflazione contenuta, un approvvigionamento energetico garantito e la fine dei lockdown legati alla pandemia.

Che dire a questo punto? Beh, caro Babbo Natale potresti fare in modo che le previsioni del KOF si avverino?

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La Befana si porterà via anche l’inflazione?

L’inflazione ha raggiunto davvero il suo picco? Probabilmente è ancora presto per rispondere, anche se siamo ben contenti di vedere che in molte nazioni europee i prezzi iniziano a rallentare, se non addirittura in alcuni casi a scendere. Così è capitato per esempio in Spagna dove il dato di novembre mostra una riduzione di -0.1% rispetto al mese precedente (+ 6.8% su base annua, ma in riduzione rispetto al 7.3% di ottobre). Lo stesso è successo in Germania dove la riduzione è stata di -0.5% mensile (+10% annuale) e a livello medio nella zona Euro dove i prezzi al consumo dovrebbero essere scesi di -0.1% attestandoti a + 10% su base annua (nel mese di ottobre il dato era del 10.6%). Purtroppo i prezzi appaiono ancora in aumento in Francia (+0.4%) e in Italia (+0.5%).

Le buone notizie arrivano anche dai prezzi alla produzione, che lo ricordiamo sono i prezzi dei prodotti nel momento in cui escono dalle fabbriche, quindi senza i costi di trasporto o di logistica. Sempre nell’Eurozona si segnala un contenimento su base annua al +30.8% (il mese precedente il dato era del 41.9%), in riduzione del -2.9% su base mensile. Questa tendenza è confermata anche in Francia e in Italia. Certo non si può ancora dire che il peggio sia passato, ma ai nostri occhi appaiono alquanto particolari le dichiarazioni molto pessimiste della presidente della Banca Centrale Europea (BCE) Christine Lagarde che dice di non vedere segnali di rallentamento. È anche vero che la BCE è stata tra gli ultimi a riconoscere l’esistenza del fenomeno inflattivo e a prendere misure di politica economica…
Per quanto ci concerne da parte nostra segnaliamo nelle ultime settimane la stessa tendenza al ribasso anche nelle materie prime e nelle fonti energetiche. Manteniamo una certa cautela poiché sappiamo che questa decelerazione potrebbe anche essere, purtroppo, il segnale di un’anticipazione del rallentamento economico che tutte le nazioni più avanzate attendono per l’anno prossimo.

Al momento però i dati del prodotto interno lordo (PIL) del terzo trimestre mostrano ancora in generale un tasso di crescita, seppur piccolo, positivo. Anche gli indicatori del mercato del lavoro sembrano ancora mostrare un buon andamento.
Pure la Svizzera non fa eccezione. Questa settimana i dati del prodotto interno lordo dell’ultimo trimestre hanno evidenziato una crescita dello 0.2%, con indicazioni abbastanza positive da quasi tutti i settori economici (si segnalano purtroppo gli andamenti negativi del settore delle costruzioni e di quello finanziario). Sul fronte dei prezzi, buone notizie: per il secondo mese di fila l’inflazione si ferma al 3%. Anche i dati sulla disoccupazione sono positivi.

Per le prossime settimane, quindi, non ci resta che incrociare le dita e pensare a trascorrere un buon Natale sperando che la Befana, insieme alle feste, si porti via anche l’inflazione…

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Ticino: i frontalieri aumentano ancora

Ancora una volta i dati statistici confermano l’aumento del numero di frontalieri che lavorano in Ticino. Le cifre del terzo trimestre del 2022 ci permettono di fare delle considerazioni importanti.
La percentuale di persone che lavora nel settore secondario è scesa al 32%, circa una persona su tre. Vent’anni fa questo dato era del 55%, più di una persona su due. Se guardiamo all’interno del settore secondario vediamo un’importante riduzione sia nelle attività manifatturiere che passano da circa il 40% al 21%, sia in quello delle costruzioni dal 16% all’11%.
In conseguenza a questa riduzione, vediamo l’importante aumento del settore terziario che passa sempre in vent’anni dall’occupare il 44% dei frontalieri al 67%, due persone su tre. In questo caso è interessante notare come ci sia una certa stabilità per alcuni settori, ad esempio quello del commercio e della riparazione di autoveicoli che si attesta attorno al 15% degli occupati, quello dei servizi dell’alloggio e della ristorazione che rimane fermo a circa il 6% come pure quello delle attività sanitarie e sociali.
Altri settori invece mostrano dei cambiamenti rilevanti. Il settore delle attività professionali, scientifiche e tecniche (per intenderci attività legali e di contabilità, studi di ingegneria e di architettura) passano dal 3% di persone frontaliere occupate in questo settore nel 2002 a circa il 12% di oggi. In termini numerici parliamo di oltre 9’000 professionisti, aumentati in numero di ben 9 volte. Un discorso analogo può essere fatto per le attività amministrative e i servizi di supporto alle aziende come le attività di ricerca, selezione e fornitura del personale: in questo caso la percentuale è passata dal 2% al 10%. Parliamo oggi di oltre 7’700 persone occupate quando nel 2002 si contavano meno di 700 professionisti. L’aumento è stato di 11 volte.
Di per sé questi numeri non sono fonte di preoccupazione in assoluto. Se un’economia cresce e genera nuovi e buoni posti di lavoro non c’è nessun problema che siano occupati anche da persone non residenti. La situazione diventa problematica dal momento che si creano tensioni sul mercato del lavoro tra persone residenti e persone non residenti. Ed è innegabile che questo stia avvenendo da tempo in Ticino.
Lo vediamo se guardiamo alla pressione sui salari di tutta l’economia che non crescono come a livello nazionale. Lo vediamo osservando il divario enorme e in crescita tra salari dei residenti e dei frontalieri che è stato recentemente oggetto di una pubblicazione dell’ufficio cantonale di statistica (e non è così negli altri cantoni). Lo vediamo guardando ai nostri giovani che se ne vanno e a quelli che non tornano.
Bisogna avere il coraggio di parlare apertamente di queste tensioni. E per favore, non diciamo che il problema sta nel fatto che non formiamo sufficienti persone per occupare questi posti di lavoro. I dati parlano chiaro. Abbiamo ingegneri e architetti che vorrebbero eccome lavorare nel loro Cantone. Per non parlare del personale amministrativo nelle aziende. Insomma, i genitori dei ragazzi che mi contattano disperati perché i figli non trovano un lavoro, meritano altre risposte. Come meritano altre risposte i cinquantenni che perso il lavoro dopo trent’anni non riescono nemmeno a ottenere un colloquio. Non pensiamo di poter fare sempre finta che non ci siano problemi. I problemi ci sono, eccome. Bisogna risolverli.

Ticino: i frontalieri aumentano ancora
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La povertà in Ticino c’è, eccome

“La povertà è definita come un’insufficienza di risorse (materiali, culturali e sociali) che preclude alle persone il tenore di vita minimo considerato accettabile nel paese in cui vivono” (UST). Nelle poche righe dell’ufficio federale di statistica comprendiamo la multidimensionalità della povertà. E per questo siamo soliti calcolare tre indicatori.
Primo, la povertà in senso assoluto che indica le persone o i nuclei familiari che vivono al di sotto di una soglia monetaria definita come minimo vitale. Nel 2020 era fissata in 2’279 CHF per una persona sola e in 3’963 per una famiglia di due adulti e due bambini.
Secondo, per ritenere l’importanza che il tessuto sociale ha nella vita degli individui si misura anche il rischio di povertà che è un concetto relativo che si basa sull’idea che se la disuguaglianza è troppo grande rispetto al resto della società difficilmente si potrà condurre una vita integrata. Così si è poveri se si guadagna meno del 60% (o del 50%) del reddito mediano.
Infine da qualche anno si parla anche di deprivazione materiale che misura l’impossibilità di acquistare alcuni beni o di svolgere determinate attività, come andare in vacanza una settimana all’anno o comprare un’automobile o un computer o ancora non poter far fronte a una spesa imprevista di 2’500 CHF.
La povertà non tocca tutti alla stessa maniera. Ci sono alcune categorie di persone maggiormente toccate. Per esempio la povertà sembra riguardare maggiormente le persone con più di 65 anni, la popolazione straniera, le persone che hanno una formazione limitata alla scuola dell’obbligo, i disoccupati, i genitori soli con figli, gli inquilini e coloro che guadagnano meno di 33’350 CHF all’anno.
Ora se rapportiamo queste caratteristiche alla popolazione del Cantone Ticino vediamo subito la sovra rappresentanza di alcune categorie. E non a caso, scopriamo che il tasso di rischio di povertà nel nostro cantone e di quasi il 25% contro una media nazionale del 15%. In Ticino una persona su quattro guadagna meno del 60% del reddito mediano.
Certo sono tante le cause, ma forse la principale rimane la fragilità del nostro mercato del lavoro. Fragilità che sempre più conduce i nostri giovani ad armarsi di tanto coraggio e tanta voglia di fare per cercare fortuna oltre Gottardo; che sempre più spinge le persone a dover fare più di un lavoro alla volta; che sempre più porta gli individui a ricorrere agli aiuti dello Stato.
Le soluzioni sono di tipo strutturale e richiedono tempo. Ma non possiamo girarci dall’altra parte e far finta di niente. Per questo ringraziamo le associazioni benefiche che cercano di dare sollievo alle persone meno fortunate che vivono nel nostro Cantone. Tra queste, ringrazio il Soccorso d’inverno Ticino per il suo lavoro e per avermi permesso di portare queste riflessioni nella loro assemblea annuale.

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Il lavoro che soffre

Il mercato del lavoro in Ticino soffre. I dati pubblicati dall’Ufficio federale di statistica per il primo trimestre del 2022 sugli occupati e sugli addetti confermano tendenze già emerse nei mesi scorsi. Negli ultimi 10 anni gli occupati in Ticino sono aumentati di circa 20 mila persone. Un dato che sembra molto incoraggiante se non per il fatto che si è verificata una riduzione di 5 mila persone svizzere a fronte di un aumento di 20 mila frontalieri. Nessun problema se i due attori non entrano in concorrenza e conflitto.

Sappiamo che bisogna essere prudenti nel trarre le conclusioni, tuttavia possiamo mettere in evidenza alcuni elementi. Nel periodo gennaio-dicembre 2022 rispetto al trimestre precedente in Ticino abbiamo perso quasi 8.500 persone occupate residenti; il numero scende a 6.700 se includiamo anche i frontalieri. Questa differenza conferma nuovamente l’aumento di persone non residenti nel mercato del lavoro ticinese.

Non siamo ancora in grado di dire con certezza perché le persone occupate residenti nel cantone sono diminuite in misura così grande (l’11% dell’intero dato nazionale), ma possiamo supporre per esempio che ci sia stato un incremento dei pensionamenti anticipati oppure degli spostamenti verso altri cantoni o nazioni. Solo le analisi specifiche potranno confermare queste ipotesi.

Ancora più preoccupante è stata la variazione annuale rispetto a quanto successo mediamente in Svizzera. A livello nazionale c’è stata una crescita di occupati pari a quasi 50 mila residenti, mentre a livello cantonale anche in questo caso si registra una perdita (-2 mila persone). Analizzando i dati in dettaglio scopriamo altre tendenze. Nell’ultimo anno sono stati principalmente gli uomini a uscire dal mercato del lavoro, mentre le donne sono aumentate. Anche in termini di nazionalità si confermano i dati passati che vedono una riduzione degli svizzeri a vantaggio degli stranieri. Infine, appare rilevante anche il tempo di lavoro: le persone che lavorano a tempo pieno diminuiscono e quelle a tempo parziale aumentano.

Infine se paragoniamo questi dati con quelli degli addetti (posti di lavoro) sembriamo trovare una conferma: dato che il numero di posti di lavoro aumenta e le persone diminuiscono, allora sembrerebbe che le persone occupate svolgano più di un lavoro.

Al momento non siamo in grado di dire molto di più, anche se speriamo di sbagliarci nella nostra ipotesi. Non vorremmo proprio che nel nostro cantone sia in atto una sostituzione di persone residenti che lavorano a tempo pieno con salari medio-alti e che anticipano il pensionamento con persone non residenti che svolgono più attività a tempo parziale e con salari più bassi.

Speriamo proprio che i prossimi dati ci diranno che ci sbagliamo.

Tratto dal Corriere del Ticino, 04.06.2022

La versione audio: Il lavoro che soffre

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Nubi di stagflazione sul fronte occidentale

L’inflazione c’è e si vede. Anche in Svizzera. I prezzi in aprile sono aumentati del 2.5% rispetto a un anno fa. I rincari più importanti riguardano i beni importati e nel dettaglio le fonti energetiche come il gas e il petrolio. Questo si riflette sulle spese di tutti i giorni, in particolare nei trasporti e nei costi legati all’abitazione. Certo se guardiamo agli altri Paesi, ancora non possiamo lamentarci. Proprio questa settimana i dati hanno confermato aumenti dei prezzi dell’8.3% negli Stati Uniti (mai così alti negli ultimi 40 anni), del 7.4% in Germania e ancora dell’8.3% in Spagna.
Purtroppo nemmeno le prospettive sono rosee. Se guardiamo all’indice dei prezzi alla produzione le cose non andranno tanto meglio nei prossimi mesi. Questo indicatore mostra l’evoluzione dei prezzi dei prodotti industriali appena usciti dalla fabbrica. Anche in questo caso gli aumenti sembrano inarrestabili. In Cina si parla di un rincaro nel mese di aprile rispetto all’anno prima dell’8% e negli Stati Uniti addirittura dell’11%. Persino la Svizzera non rimane indenne: +6.7%. Ma perché questo dato ci impensierisce? Per ottenere il prezzo dei beni che comperiamo, dobbiamo aggiungere al già elevato prezzo di produzione anche i costi di trasporto, logistica e quelli sostenuti direttamente dai commercianti per le loro attività. Tutto questo significa che i prezzi che troveremo sui nostri scaffali nei prossimi mesi dovranno per forza aumentare. E questo ha un impatto sul comportamento dei consumatori la cui fiducia crolla.
Naturalmente le autorità non stanno a guardare. Così nelle ultime settimane la banca centrale americana e anche quella inglese hanno deciso di aumentare i tassi di interesse. Questa strategia, chiamata tecnicamente politica monetaria restrittiva, può generare due effetti. Primo: rende più caro l’indebitamento scoraggiando gli investimenti delle imprese e i consumi a credito delle famiglie. Secondo: invoglia al risparmio. Questo dovrebbe ridurre la domanda allentando la pressione sui prezzi.
In realtà, purtroppo l’inflazione che stiamo vivendo ha origini e cause ben più lontane che non sono solo riconducibili a questa maledetta guerra. Ciò significa che le conseguenze negative di una politica monetaria restrittiva, ossia la riduzione della produzione e l’aumento della disoccupazione, potrebbero avvenire. In più la maggioranza degli Stati non ha più grandi margini di manovra nella spesa pubblica poiché è già intervenuta in maniera massiccia per rispondere alla crisi legata alla pandemia.
E pensare che fino a qualche mese fa quando si parlava di presenza contemporanea di inflazione e disoccupazione (stagflazione) l’unico esempio che potevamo fare era la crisi petrolifera degli anni 70…
Tratto da L’Osservatore del 14.05.2022

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Il traballante mercato del lavoro ticinese – II parte

Riprendiamo il tema del mercato del lavoro ticinese, come da articolo pubblicato il 10 settembre da tvsvizzera.it che ringrazio.

I dati statistici mostrano un Cantone sofferente su più fronti.
I salari in Ticino sono mediamente molto più bassi di quelli svizzeri, circa del 16-20%. Questo significa che in Ticino si guadagna un quinto in meno dei nostri cugini confederati. Da qualunque parte si guardino i dati, per settori, per ruoli occupati, per mansioni svolte, per età, per genere, i salari pagati dalla nostra economia, privata e pure pubblica, sono più bassi. E notevolmente più bassi sono anche i salari pagati ai frontalieri.
Ma i problemi del mercato del lavoro ticinese non li vediamo solamente nel livello dei salari, purtroppo. Le conseguenze sono tante altre. In Ticino, la percentuale delle persone che lavorano ma che non riescono a vivere del loro salario, i working poor, è tra le più alte a livello nazionale. Lo stesso accade quando guardiamo al numero di persone che deve fare più di un lavoro per vivere. O ancora, quasi paradossalmente, ci troviamo in vetta alle classifiche della sottoccupazione (persone che lavorano a tempo parziale ma vorrebbero lavorare di più). E sul tempo parziale si apre un ulteriore campo di analisi. Negli altri cantoni tendenzialmente i nuclei familiari fanno una scelta in cui entrambi i partner lavorano a tempo parziale perché i salari consentono di dedicarsi alla famiglia. Nel nostro caso purtroppo, invece, l’alto tasso di lavori a tempo parziale è sinonimo di grande precariato.
E che dire delle condizioni di lavoro femminili? Anche in questo caso purtroppo il nostro cantone appare negli ultimi posti della classifica nazionale: tassi di attività femminile tra i più bassi, differenze salariali tra uomini e donne maggiori, piccolissima presenza di donne nei quadri dirigenziali e nei posti di lavoro di responsabilità. Il quadro di certo non appare incoraggiante. Purtroppo non va meglio per i giovani che oggi possono ricevere formazioni eccellenti, sia in ambito scolastico che professionale. Anche a loro, il Paese non sembra dare risposte adeguate. I dati appena pubblicati confermano che sempre più ragazzi e ragazze abbandonano il cantone per trovare fortuna oltre Gottardo. E sicuramente le difficoltà di trovare posti di lavoro adeguati alle qualifiche e con stipendi dignitosi contribuiscono a questa emigrazione. Tanti altri sarebbero i dati che confermano un malessere del mercato del lavoro ticinese, a partire dai cinquantenni che vengono messi alla porta e non trovano più nulla dopo 30 anni di duro lavoro.
Come lo si guardi, questo quadro di indagine necessita di tutte le attenzioni della politica. È necessario intervenire affinché si possa invertire il senso di marcia. Affinché, come deve succedere in un paese sano, i giovani e le giovani non siano obbligate a lasciare la loro terra e i loro affetti. Per questo bisogna avere il coraggio di riconoscere e ammettere i problemi, ma anche le tensioni che oggi viviamo. Non si può più fingere che non ci sia rivalità e competizione tra manodopera locale e manodopera non residente. Lo scopo non è quello di attribuire colpe; lo scopo è quello di offrire opportunità anche alle persone residenti in questo Cantone.

Il Quotidiano, RSI, 17.09.2021
La versione audio: Il traballante mercato del lavoro ticinese – II parte

Il traballante mercato del lavoro ticinese – I parte

Il 10 settembre tvsvizzera.it, che ringrazio, ha pubblicato un mio articolo sul mercato del lavoro ticinese. Lo riprendo qui quest’oggi.

Il numero di frontalieri ha raggiunto cifre da record in Ticino. Oltre 70’000 persone attraversano ogni giorno il confine per lavorare nel Cantone sud-alpino. Se l’economia in parte approfitta della possibilità di fare capo a manodopera qualificata a basso costo, il mercato del lavoro soffre. E non solo a livello salariale.

Il mercato del lavoro del Cantone Ticino è molto differente rispetto a quello degli altri Cantoni svizzeri, inclusi quelli di frontiera. La ragione principale risiede nello sviluppo particolare che ha vissuto il tessuto economico di questo Cantone.

Primo, siamo passati da un’economia primaria a una fortemente finanziaria senza vivere una fase di vero e proprio sviluppo industriale. Probabilmente anche a questo è dovuta la mancanza odierna di una vera e propria cultura imprenditoriale e di centri decisionali sul territorio.

Il secondo fattore che spiega la situazione attuale è la possibilità storica derivante anche dalla posizione geografica di poter sfruttare un ampio bacino di manodopera qualificata a basso costo. Le aziende possono approfittare di due vantaggi competitivi: uno legato alla qualità, l’altro al prezzo. Entrambi comportano delle conseguenze importanti sullo sviluppo del tessuto economico di una regione. In Cantone Ticino la presenza di manodopera qualificata a basso costo ha spinto alla creazione di attività incentrate principalmente sul fattore lavoro e non sul capitale (macchinari). Se nel breve periodo ci sono sicuramente vantaggi, lo stesso non può dirsi per il lungo. Non a caso oggi la nostra economia è composta principalmente da posti di lavoro a valore aggiunto inferiore alla media nazionale. In questo senso siamo sovra-rappresentati nei settori industriali, del commercio, del turismo e della ristorazione. Proprio i settori che sono i primi a soffrire quando c’è una crisi economica; esattamente come accaduto con la crisi del Covid-19. I cantoni che invece si sono concentrati sulla ricerca, progresso tecnologico, innovazione e su un’avanzata organizzazione del lavoro, oggi si ritrovano con una produttività elevata e quindi con salari di gran lunga superiori ai nostri.  

Per contrastare questo ritardo è stato fatto molto nella formazione e nella ricerca creando negli ultimi trent’anni tantissimi centri di eccellenza. Dal Centro di Studi Bancari a Vezia, al Cardiocentro a Lugano; dall’Università della Svizzera italiana (USI), agli Istituti di Biomedicina (IRB) e Oncologico della Svizzera italiana (IOSI); dalla Scuola Universitaria Professionale della Svizzera italiana (SUPSI), al Nuovo Centro Svizzero di Calcolo. E tanto altro ancora è stato fatto e bolle in pentola. Questo ha portato a migliorare notevolmente la formazione dei giovani e quella continua nel nostro Cantone. Peccato che questo non sia stato accompagnato da un altrettanto sviluppo di attività economiche avanzate che avrebbero potuto dar linfa al tessuto produttivo cantonale. Così, oggi i dati statistici mostrano un Cantone sofferente su più fronti.

La versione audio: Il traballante mercato del lavoro ticinese – I parte

I frontalieri aumentano ancora

I frontalieri in Svizzera e in Ticino aumentano. I dati appena pubblicati dall’ufficio federale di statistica non lasciano dubbi, pur ritenendo il fatto che gli stessi autori li definiscano provvisori.
In Ticino è stata superata anche la soglia dei 71 mila permessi di lavoro come frontaliere; precisamente alla fine del II trimestre del 2021, quindi di giungo, se ne registravano 71’586. La maggior parte di questi permessi, quasi 47 mila, era attribuita al settore terziario, quello dei servizi. Il nome non deve trarci in inganno: oltre alle avvocate, ai fiduciari o al personale medico, troviamo anche i commessi, le cameriere e i servizi logistici. Invece il settore secondario, oggi rappresenta solo 1/3 di questi lavoratori, in linea con i cambiamenti avvenuti nella struttura produttiva del nostro Cantone.
Guardando i dati vediamo la relazione stretta tra l’andamento economico generale e l’andamento dei permessi di lavoro: i settori che hanno mostrato una ripresa rispetto alla crisi legata alla pandemia, sono anche quelli caratterizzati da un aumento dei frontalieri. In particolare, il settore secondario, che è quello legato all’industria mostra una certa stabilità, sia paragonando i dati con i tre mesi precedenti del 2021 (gennaio-marzo) sia rispetto all’anno prima. L’unica eccezione in questo caso è il settore delle costruzioni, che mostra un aumento da mettere in relazione con la ripresa economica. Ad oggi lavorano in questo settore quasi 8 mila persone frontaliere.
Anche nel settore terziario, che mostra aumenti trimestrali del 2.5% e addirittura di oltre il 5% rispetto all’anno scorso (+2’300 persone), la relazione con l’andamento economico è evidente. I frontalieri aumentano in quasi tutti i settori, in particolare nei servizi legati alla ristorazione, nelle attività professionali, scientifiche e tecniche e in quelle di servizio alle aziende.
Il boom dei numeri di permessi è nella ristorazione dove si segnala un aumento sia su base trimestrale che annuale di oltre il 15%, arrivando a occupare 3’900 persone. In realtà, non sappiamo quanti di questi posti di lavoro rimarranno anche dopo il periodo estivo.
Discorso differente va fatto per le attività professionali, scientifiche e tecniche come gli studi di architettura, di ingegneria o contabilità che occupano oggi quasi 8’200 persone non residenti, oltre l’11% del totale. Se a queste aggiungiamo le attività amministrative e di supporto alle aziende come i servizi di selezione e ricerca del personale, arriviamo a quasi 15 mila posti di lavoro. Ora, nessun problema se i nostri apprendisti neo-diplomati e le nostre neo-laureate troveranno un posto di lavoro da qui a qualche mese. Discorso differente, se come purtroppo temo, passeranno mesi alla ricerca di un posto di lavoro per poi dover scappare oltre Gottardo.
Se questo accadrà ancora, chi di dovere dovrà smettere di fare orecchie da mercante e dovrà finalmente prendere in mano le redini di questo Cantone.

La versione audio: I frontalieri aumentano ancora