Svizzera 2026: crescita sì, ma con prudenza

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Anche quest’anno sotto l’albero di Natale degli economisti sono arrivate puntuali le previsioni economiche della Segreteria di Stato dell’economia (SECO) e del KOF, il centro di ricerche congiunturali del Politecnico federale di Zurigo. Per l’anno prossimo i dati per la Svizzera non si discostano di molto nei due casi. Vediamo i principali della SECO.

Il prossimo anno dovrebbe essere caratterizzato da una certa stabilità economica, che ci porterà a una crescita del prodotto interno lordo (PIL) dell’1,1%. A sostenere questa crescita sarà soprattutto la domanda delle famiglie. I consumi privati rappresentano circa il 50% dell’intera produzione annuale e sono quindi una delle componenti principali della nostra economia.

Sul fronte dei consumi pubblici, invece, si dovrebbe registrare sì un aumento, ma contenuto rispetto a quello dell’anno in corso: +0,4% rispetto all’1,3% del 2025.

Buone notizie arrivano anche dagli investimenti, che quest’anno hanno mostrato una riduzione sia nel settore delle costruzioni sia in quello dei beni di equipaggiamento, cioè gli investimenti produttivi. Nel 2026 la tendenza dovrebbe modificarsi, segnando un aumento dell’1,6% nelle costruzioni e dello 0,7% nei beni di equipaggiamento. In questo caso l’indicatore legato agli investimenti produttivi ricopre un ruolo molto importante perché ci permette di comprendere il sentimento degli imprenditori: se i macchinari vengono sostituiti o se se ne acquistano di nuovi, è il segnale che ci si aspetta maggiori vendite e quindi una fase più positiva per l’economia.

Sul fronte del commercio estero è arrivata una buona notizia, anzi ottima: gli accordi sui dazi hanno consentito di ridurli, nel caso degli Stati Uniti, dal 39% al 15%. Questo elemento gioca un ruolo importante per quanto riguarda l’aumento delle esportazioni, stimate per l’anno prossimo all’1,6%. La Svizzera non è un paese con grandi materie prime e, di conseguenza, per esportare beni deve prima importare materie prime e semilavorati, ai quali aggiungere valore in vista dell’esportazione di prodotti finali. In questo contesto si conferma un aumento previsto delle importazioni dell’1,3%.

La somma di tutte le componenti della domanda aggregata, ossia consumi privati, investimenti, spesa pubblica ed esportazioni nette, compone il prodotto interno lordo che, come dicevamo, crescerà dell’1,1%.

La notizia di una crescita è certamente positiva, ma dobbiamo interrogarci sul fatto che sia sufficiente a mantenere un’occupazione stabile. Affinché non aumenti il tasso di disoccupazione, infatti, la vendita di beni e servizi deve crescere a un ritmo tale da compensare sia l’aumento della popolazione attiva sia l’aumento della produttività legato al progresso tecnologico. In questo caso i dati per l’anno prossimo non sono particolarmente confortanti: si prevede una crescita dell’occupazione di appena lo 0,2% e un aumento della disoccupazione dal 2,8% di quest’anno al 3,1%.

Chiudiamo questo viaggio nelle previsioni con un’ultima buona notizia: il livello dei prezzi per l’anno prossimo è stimato praticamente stabile (+0,2%). Questo significa che almeno sul fronte dell’inflazione la battaglia è stata vinta.

Naturalmente, come sappiamo, l’economia è influenzata da moltissimi fattori, spesso difficili da prevedere. Per questo, come sempre, al di là delle previsioni, i conti li faremo con la realtà. E speriamo che sia una bella realtà.

Segnali di debolezza nel mercato del lavoro ticinese

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Il mercato del lavoro in Ticino inizia a mostrare segni di sofferenza anche nelle statistiche.
Le prime avvisaglie si potevano già intravedere nei dati pubblicati a fine agosto sugli impieghi creati nelle grandi regioni svizzere. A prima vista i dati sembravano positivi; i posti di lavoro creati sono aumentati nel secondo trimestre del 2025 di quasi 1’550 unità rispetto ai tre mesi precedenti. L’incremento è stato addirittura di quasi 2’400 posti di lavoro rispetto allo stesso periodo dell’anno prima. Ma una lettura più approfondita ci portava a essere molto più prudenti. In effetti, il dato relativo ai posti di lavoro a tempo pieno era esattamente opposto: c’è stata una riduzione di oltre 1’500 posti rispetto al trimestre precedente e addirittura di quasi 2’400 rispetto all’anno prima. A crescere, difatti, sono stati principalmente i posti di lavoro di uomini e donne a tempo parziale.
Di per sé questo non è per forza un dato negativo, ma lo diventa quando non c’è una scelta volontaria, ma piuttosto un’esigenza del mercato del lavoro. Nel nostro Cantone sappiamo che i salari sono molto più bassi che nel resto della Svizzera il che porta a dover ricorrere all’aiuto dello Stato o a dover svolgere più di un lavoro. In entrambi i casi, i dati statistici ci confermano la debolezza del Ticino.
A confermare questa tendenza di un mercato del lavoro in sofferenza sono arrivate questa settimana anche le cifre del numero di frontalieri e della disoccupazione.
Nel primo caso, si conferma una certa stabilità attorno alle 80’000 persone. Questa situazione può essere interpretata in due modi: da una parte il mercato ha raggiunto il suo livello di saturazione per la manodopera non residente, dall’altra parte la situazione economica fa sì che la crescita di impieghi sia veramente limitata.
Questa seconda ipotesi troverebbe conferma anche nei dati appena pubblicati dalla Segreteria di Stato dell’Economia (SECO) sulla disoccupazione. Ricordiamo che questa cifra conteggia esclusivamente le persone iscritte presso gli uffici regionali di collocamento (con tutti i limiti del caso). Nonostante ciò, in Ticino c’è stata una crescita rispetto al mese scorso del 4,1% (ora si contano 4’552 persone) e del 4,2% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Il tasso di disoccupazione si situa oggi al 2,7%.
La dinamica va nella direzione indicata anche dalle previsioni economiche: un rallentamento legato da un lato all’instabilità geopolitica, dall’altro al clima di incertezza che pesa sulle economie avanzate. Vedremo se i prossimi mesi confermeranno questa traiettoria o se avremo qualche segnale di inversione. Cosa che naturalmente ci auguriamo.

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Svizzera: le notizie che non fanno notizia

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Questa settimana l’economia svizzera ha dato l’impressione di dormire sonni tranquilli. Nessun terremoto, pochi scossoni (per fortuna, aggiungiamo noi). Ma attenzione: anche la calma va letta. Dietro i dati piatti ci sono storie e cambiamenti che meritano uno sguardo più attento.

Il tasso di disoccupazione nazionale calcolato dalla Segreteria di Stato dell’Economia (SECO) a giugno resta fermo al 2,7%, come il mese scorso. A prima vista, tutto regolare. Ma la realtà è più sfumata, soprattutto per il Canton Ticino.

Il dato SECO si basa sulle persone iscritte agli Uffici regionali di collocamento (URC). È utile per monitorare le dinamiche istituzionali, ma non rappresenta l’intera platea dei disoccupati. Se guardiamo invece al tasso armonizzato ILO, che include anche chi cerca lavoro senza passare dagli URC, il Ticino va oltre al 6%. È più del doppio rispetto alla media nazionale SECO ed è un segnale da non sottovalutare.

A questo si aggiunge una dinamica ben nota: la pressione del frontalierato che continua ad avere un impatto importante sul mercato del lavoro ticinese. Il differenziale salariale tra Italia e Svizzera rende il lavoro in Ticino molto attrattivo per i lavoratori frontalieri. Questo fenomeno, in un contesto di concorrenza sul costo del lavoro, può rendere più difficile per i residenti trovare impiego o mantenere salari competitivi, generando frustrazione e, in alcuni casi, un vero e proprio scoraggiamento. È anche uno dei motivi per cui molti disoccupati ticinesi non si registrano agli URC, pur cercando attivamente un lavoro.

Insomma, non tutto il lavoro che manca si vede nei numeri ufficiali. E questo vale in particolare in regioni di frontiera come la nostra.

I prezzi restano stabili. A giugno, l’indice nazionale dei prezzi al consumo (IPC) è immobile a 107,5 punti. L’inflazione annua è appena +0,1%. In tempi in cui molti Paesi faticano a contenere i prezzi, la Svizzera si conferma un’isola di stabilità.

Non mancano piccole variazioni (sanità e ristorazione un po’ su, energia in lieve calo), ma il quadro generale non desta preoccupazioni. Chiaro: l’inflazione bassa aiuta chi consuma, ma può frenare chi investe o chi spera in una spinta salariale. Anche qui: calma apparente e qualche contraddizione in sottofondo.

Il dato che ha fatto più rumore riguarda i fallimenti aziendali, saliti del 50% rispetto a un anno fa. A giugno si contano a livello nazionale circa 1’400 casi e le proiezioni annuali superano i 14’000.

Ma la causa non è (solo) economica: dal 1° gennaio 2025 è in vigore una riforma della Legge federale sull’esecuzione e sul fallimento (LEF). Ora gli enti pubblici avviano direttamente le procedure fallimentari per i crediti fiscali e contributivi. Prima si tentava il pignoramento. La nuova prassi ha accelerato le procedure, creando un picco statistico che riflette anche vecchie situazioni rimaste in sospeso.

Nel Canton Ticino, la situazione è un po’ diversa: nel primo trimestre 2025 i fallimenti sono aumentati dell’8% (127 casi). È un segnale che, da un lato conferma l’effetto statistico della nuova legge, dall’altro evidenzia una vulnerabilità specifica delle imprese ticinesi. Tuttavia, il numero assoluto resta contenuto e riguarda soprattutto microimprese e artigiani. Anche se non significa che sia da ignorare.

Ad ogni modo, la sostanza? Non è un’ondata di fallimenti legata a una crisi reale, ma un effetto contabile e giuridico. Serve tenerlo a mente per evitare allarmismi troppi grandi.

In economia, a volte il silenzio è più interessante del rumore. Settimane come questa ci invitano a non fermarci ai titoli, ma a scavare un po’ sotto la superficie. È lì che si capisce davvero come sta andando il Paese.

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Parità salariale: una strada ancora in salita, ma non più solitaria

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La parità salariale tra uomini e donne in Svizzera non è stata ancora raggiunta. A confermarlo, anche quest’anno, sono i dati pubblicati dall’Ufficio federale di statistica.
Nel 2024, il salario mediano degli uomini è stato di 90’800 franchi. Quello delle donne si è fermato a 80’000 franchi, ovvero il 12% in meno.
Ma il divario non riguarda solo i salari. Se guardiamo al tasso di attività professionale, cioè la percentuale di persone occupate o in cerca di lavoro, gli uomini superano le donne in tutte le fasce d’età, con uno scarto di circa 10 punti percentuali. Va però detto che la partecipazione femminile è cresciuta molto negli anni e nella fascia tra i 15 e i 24 anni la differenza è oggi minima.
Anche il tasso di disoccupazione resta più alto tra le donne. Una delle ragioni è che le donne sono spesso impiegate in settori meno qualificati e meno protetti che risentono prima delle difficoltà economiche.
Ancora più marcato è il divario nella sottoccupazione, cioè tra chi lavora ma vorrebbe lavorare di più. Nel 2024, il dato era del 2,8% tra gli uomini, ma saliva al 7,3% tra le donne. Il valore più alto si registra nella fascia tra i 25 e i 54 anni, con un picco dell’8%. E quando ci sono figli, le cifre aumentano ulteriormente. Segno che la genitorialità continua a pesare in modo asimmetrico sul percorso lavorativo femminile.
I dati sul lavoro a tempo parziale confermano questa tendenza. La presenza di figli resta una delle principali ragioni per cui le donne scelgono il tempo parziale. Ma c’è anche un segnale incoraggiante: dal 2010 al 2024, la quota di padri che lavorano a tempo parziale è raddoppiata, passando al 15%. Un dato che suggerisce un’evoluzione nel ruolo paterno e una maggiore condivisione delle responsabilità familiari.
Anche tra le coppie si nota un cambiamento: quasi il 9% oggi sceglie un modello in cui entrambi i partner lavorano a tempo parziale, mentre nel 2010 questa scelta era fatta da meno del 4%.
Infine, cresce anche il contributo economico delle donne al reddito familiare. Quando il figlio più piccolo ha tra i 4 e i 12 anni, le madri partecipano in media per il 30% al reddito del nucleo, sette punti percentuali in più rispetto a dieci anni fa. Se però il figlio ha meno di quattro anni, la quota resta stabile al 25%.
In sintesi, il quadro resta segnato da disuguaglianze, ma non mancano i segnali di cambiamento. I modelli lavorativi e familiari si stanno evolvendo. Sempre più padri si assumono una parte attiva nella cura dei figli e cresce la consapevolezza che la famiglia è una responsabilità condivisa. La maternità non dovrebbe più rappresentare un ostacolo, ma rientrare in un equilibrio costruito insieme. La strada verso la parità è ancora lunga, ma oggi, finalmente, non si percorre più da soli.

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Il -0,3% del PIL non affonda Trump, ma l’informazione economica

Nel primo trimestre del 2025 il prodotto interno lordo degli Stati Uniti si è contratto dello 0,3%. È bastato questo dato per far partire una raffica di commenti trionfali da parte di chi da tempo prevede (e auspica) il fallimento della politica economica dell’amministrazione Trump. Ma è un errore. Più che un segnale allarmante sull’economia, questo dato è il riflesso distorto di un meccanismo contabile e di alcuni fenomeni transitori. Bastava leggere con attenzione il comunicato del Bureau of Economic Analysis (BEA).

Prima di tutto, il -0,3% è una variazione annualizzata, come d’uso negli Stati Uniti. Significa che il dato indica quanto crescerebbe (o calerebbe) il PIL in un anno se la dinamica del primo trimestre si ripetesse identica nei successivi tre. Il dato non annualizzato, cioè la variazione trimestrale del primo trimestre, mostra una flessione modesta, inferiore allo 0,1%.

Ma la questione non è solo tecnica. Serve un’analisi macroeconomica. Il PIL è composto da quattro elementi: consumi delle famiglie, spesa pubblica, investimenti delle imprese e esportazioni nette (cioè esportazioni meno importazioni). In questo trimestre, la dinamica della bilancia commerciale ha inciso in modo determinante. Le importazioni sono aumentate del 41,3%. Un incremento eccezionale, legato in parte al timore di nuovi dazi: molte imprese hanno anticipato gli acquisti dall’estero, soprattutto nel settore farmaceutico e nei beni capitali (come computer e componenti industriali).

Questo boom delle importazioni ha causato un disavanzo commerciale record: 162 miliardi di dollari solo nel mese di marzo (circa 134 miliardi di franchi). È un’anomalia che lo stesso BEA ha sottolineato. Inoltre, per semplificare dal punto di vista tecnico, è come se una parte consistente di queste merci importate non sia ancora stata registrata come incremento delle scorte, perché non è fisicamente entrata nei magazzini o è stata contabilizzata in modo differito. Poiché le importazioni sono sottratte dal calcolo del PIL, la loro impennata ha avuto un impatto negativo immediato, ma distorto, sull’indicatore.

Altri fattori da considerare: la spesa pubblica è diminuita, come previsto dai programmi dell’amministrazione Trump. Anche questo ha inciso sulla riduzione del PIL. Ma si tratta di una scelta politica coerente, non di un segnale di debolezza congiunturale.

Infine, va allargato lo sguardo. Un solo dato trimestrale, per quanto importante, non può restituire lo stato di salute di un’economia. Occupazione, consumi, inflazione e creazione di posti di lavoro indicano che non siamo di fronte a una crisi. Il mercato del lavoro è solido, l’inflazione sotto controllo, la domanda interna regge.

Il dato del PIL va quindi interpretato con cautela. Non è una pagella politica. È una fotografia parziale, influenzata da fattori tecnici e congiunturali. Saper leggere questi numeri richiede attenzione e competenza. Altrimenti si finisce per fare propaganda. E l’economia, a differenza della politica, ha bisogno di lucidità.

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L’anno che sta arrivando, tra un anno passerà…

L’anno sta volgendo al termine e quindi non potevamo proprio evitare di parlare… dell’oroscopo! Ma naturalmente intendiamo quello economico, quindi delle previsioni per il prossimo anno. 

In realtà, purtroppo già i dati di avvicinamento alla fine dell’anno non sono di buon auspicio: abbiamo letto, per esempio, che le esportazioni svizzere nel mese di novembre sono rallentate fortemente. Abbiamo anche visto che molti istituti prevedono per quest’anno che le famiglie spenderanno meno nel periodo natalizio e questo vuol dire che ci sarà un aumento dei consumi, ma meno forte rispetto a quello dell’anno scorso. Anche sul fronte dei salari, gli aumenti prospettati per l’anno prossimo non per forza compenseranno l’aumento dei prezzi, anche se fortunatamente questo dovrebbe essere contenuto (+0.3%). 

Anche alla luce di questi fatti, la Segreteria di Stato dell’economia (SECO) ha rivisto al ribasso il tasso di crescita del prodotto interno lordo (PIL) sia per questo 2024 (dall’1.2% allo 0.9%) che per il prossimo anno (dall’1.6% all’1.5%). Tra i fattori di maggiore incertezza, il gruppo di esperti cita la situazione del commercio internazionale che potrebbe subire rallentamenti importanti a seguito dell’elezione di Donald Trump vista la sua politica piuttosto protezionista tesa a tutelare il mercato americano. Ma anche i conflitti in Medio Oriente e in Ucraina aumentano l’instabilità economica.

In Svizzera sarà ancora il consumo delle famiglie (+1.6%) a trainare la crescita del PIL, mentre la spesa pubblica crescerà sì dell’1.2%, ma meno di quest’anno (1.8%). Il settore delle costruzioni dovrebbe proseguire il suo trend positivo (+2.3%), mentre il rallentamento economico è confermato anche da una crescita piuttosto modesta degli investimenti in beni di equipaggiamento, quindi in macchinari e strumenti per la produzione (+1.0%). Sul fronte delle esportazioni alle possibili politiche protezioniste si aggiunge la modesta crescita dell’economia europea e in particolare di quella tedesca. A tal proposito, proprio poche ore fa la Volkswagen è riuscita a trovare un accordo con i sindacati per la riduzione di 35’000 posti di lavoro.

Tutto questo clima di incertezza farà sì che l’economia elvetica non crescerà abbastanza per mantenere stabile il tasso di disoccupazione che aumenterà per l’anno prossimo al 2.7%. Vediamo quindi che pur non essendo in una situazione di crisi economica, la fase di crescita rimane piuttosto contenuta. E come sempre succede in questi casi, la preoccupazione degli economisti non sta tanto nella fissazione sulla crescita del PIL, quanto sulle conseguenze in termini di posti di lavoro e di salari versati. La nostra economia si fonda ancora principalmente per la maggioranza delle persone sul reddito da lavoro e se viene a mancare questo, vengono a mancare le condizioni per una vita dignitosa.

Detto ciò, il Natale è un periodo di speranza, per cui il nostro augurio è che in questo caso gli esperti della SECO prendano una bella cantonata e che il PIL torni a crescere in maniera soddisfacente. 

Tantissimi auguroni di buon Natale!

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L’economia nel nuovo anno fra ottimismo e prudenza

Come stanno le principali economie industrializzate? Ci sarà qualche bel regalo sotto l’albero di Natale o i pacchi resteranno vuoti?

I dati sull’inflazione, nonostante un leggero aumento a novembre, restano rassicuranti. Negli Stati Uniti l’indice dei prezzi al consumo su base annua è salito al 2.7%, nell’Eurozona al 2.3%, mentre in Svizzera si attesta allo 0.7%. Questi ultimi sono ben lontani dai picchi del 3.5% dell’agosto 2022 o del 3.4% di febbraio 2023.

L’ottimismo sui prezzi ha spinto la Banca Nazionale Svizzera (BNS) e la Banca Centrale Europea (BCE) a ridurre i tassi di interesse di riferimento. La BCE ha tagliato di 0.25 punti percentuali, portandoli tra il 3% e il 3.4%. La BNS ha invece sorpreso con una diminuzione di 0.5 punti, fissando il tasso allo 0.5%. Questa mossa potrebbe anche mirare a frenare la forza del franco svizzero, ancora troppo elevata per non penalizzare le esportazioni e il turismo. Alcuni analisti non escludono un ritorno ai tassi negativi entro la fine del prossimo anno, anche se è bene rimanere prudenti, considerata la volatilità del contesto economico globale. Anche la Federal Reserve, attesa alla sua prossima riunione, potrebbe seguire questa tendenza di ribasso.

Se i cittadini possono beneficiare dei tassi più bassi, i dati sulla crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL) lasciano meno spazio alla soddisfazione. Negli Stati Uniti, il PIL del terzo trimestre ha registrato un solido +2.8%, confermando la ripresa dell’economia americana. L’Eurozona e la Svizzera, invece, arrancano: il PIL europeo è aumentato di appena lo 0.4%, mentre quello svizzero si ferma a un modesto +0.2%.

Per il 2025, le previsioni non sono molto migliori: l’Unione Europea dovrebbe crescere attorno all’1.1%, mentre la crescita Svizzera è attesa tra l’1.1% e l’1.5%. Il quadro resta fragile, influenzato da fattori come i conflitti in Ucraina e in Medio Oriente, i rincari energetici e le tensioni commerciali, che continuano a gravare sulle economie occidentali.

Sul fronte occupazionale, il terzo trimestre mostra una certa stabilità. L’occupazione europea è cresciuta dello 0.2% su base trimestrale, mentre in Svizzera l’aumento su base annua è stato dello 0.3%. Tuttavia, non mancano segnali di allarme: il tasso di disoccupazione è tornato a salire sia negli Stati Uniti sia in Svizzera nell’ultimo mese.

Tirando le somme, cosa possiamo augurarci per questo periodo natalizio? In uno scenario ideale, i consumatori potrebbero ritrovare fiducia, contribuendo a sostenere i consumi. Ma è evidente come l’incertezza economica e il costo della vita spingano molti a una maggiore prudenza. Auguriamoci che il 2025 porti una ventata di ottimismo e un ritorno a condizioni economiche più favorevoli. Del resto, il periodo delle festività dovrebbe essere un’occasione per guardare al futuro con un pizzico di speranza.

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Pubblicato da L’Osservatore – 14.12.2024

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La disoccupazione cresce: non facciamo gli struzzi!

Nessuno ama parlare di disoccupazione, sottoccupazione e povertà, tanto meno chi governa il Paese.
“Lassù” si preferiscono narrazioni rasserenanti. Si racconta di un Cantone Ticino innovativo e all’avanguardia dove poli di eccellenza nascono come funghi. Una piccola Silicon Valley pronta a partire alla conquista del mondo.
Sfortunatamente, la realtà è ben diversa. Proprio ieri mattina sono arrivati i dati della disoccupazione nel Cantone Ticino calcolata secondo il metodo dell’organizzazione internazionale del lavoro (ILO).
Questa stima poggia su basi statistiche: include le persone che non hanno un lavoro e lo stanno ancora cercando. Differisce dalla disoccupazione “ufficiale” della Segreteria di Stato dell’economia (SECO) che si limita a contare gli iscritti presso gli Uffici Regionali di Collocamento (URC).
Non tutti i disoccupati sono iscritti, come sapete bene.
Le nostre autorità preferiscono la statistica SECO anche perché permette di raccontare una storia tranquillizzante: il canton Ticino avrebbe un tasso di disoccupazione bassissimo, 2.4%: “solo” 4’000 disoccupati.
Eppure, la nostra realtà, quella che vediamo attorno a noi, appare molto diversa: chiunque di noi conosce vicini che non trovano lavoro, hanno figli o figlie che faticano a inserirsi, lavoratori esperti licenziati che non riescono a ricollocarsi. Autorità ed esperti dicono che si tratti di una percezione. Ma non lo è.
I dati ILO confermano che quello che le persone sentono sulla loro pelle corrisponde alla realtà. Queste cifre ci dicono che in Ticino le persone disoccupate in cerca di un lavoro e disposte a lavorare sono oltre 13’200. Il tasso di disoccupazione è al 7.3%, ben tre volte il dato della SECO. Per trovare un numero così alto di persone disoccupate, dobbiamo tornare al periodo Covid. Solo chi è in mala fede può sorprendersene: basterebbe guardare ai dolorosi licenziamenti e ristrutturazioni in atto nelle aziende ticinesi.
Non sono numeri: queste sono persone e intere famiglie in difficoltà la cui situazione non fa altro che aggravarsi di mese in mese con il peso degli aumenti: cassa malati, affitti ed energia, ecc. Queste persone meriterebbero di non essere considerate “una percezione”.
Fino a qualche anno fa si poteva contare sull’appoggio delle generazioni più anziane; ora anche questo inizia a scricchiolare: non riescono ad aiutare se stesse, figuriamoci figli e nipoti. E che dire delle nuove generazioni che seguono con impegno il consiglio dei governi e dei partiti di formarsi il più possibile e che poi, una volta arrivato il diploma, devono emigrare oltre Gottardo?
Per parafrasare lo sfortunato slogan del periodo pandemico: non andrà tutto bene, tutt’altro. Se si finge di non vedere il problema, se lo si ignora o addirittura lo si nega, le cose non potranno che peggiorare. Le soluzioni non sono facili, certo. Ma qua non le si sta nemmeno cercando. E se si insiste a dire che tutto va bene, sicuramente non le troveremo. È un esercizio di negazione di massa la cui responsabilità ricade pienamente su chi dovrebbe avere in mano le redini del cantone e sceglie, invece, di tenere la testa ostinatamente nascosta sotto la sabbia.

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Previsioni economiche Svizzera: bene, ma non benissimo…

Mentre la Federal Reserve (Fed) decideva di ridurre i tassi di interesse di 50 punti base, portandoli in un intervallo tra il 4.75 e il 5%, in Svizzera venivano pubblicati dei dati non altrettanto rassicuranti.
Nel mese di agosto, le esportazioni e le importazioni di merci in termini reali sono scese rispetto al mese precedente che già registrava una riduzione di entrambe le voci. Per quanto riguarda le vendite all’estero, i settori principalmente toccati sono stati quello dei prodotti chimici e farmaceutici, quello dei metalli come pure i macchinari di precisione. Sul fronte delle importazioni si segnalano le riduzioni importanti di prodotti energetici, di strumenti di precisione e nel settore dell’elettronica. Al contrario, in questo caso si è registrato un aumento dei prodotti chimici e farmaceutici. Quest’ultimo andamento potremmo leggerlo con un po’ di ottimismo pensando che parte di queste importazioni sarà destinata alla produzione dei prossimi mesi e quindi a una possibile crescita del settore chimico farmaceutico.
Nonostante questi dati, le previsioni per la fine dell’anno delle esportazioni restano positive. La Segreteria di Stato dell’economia (SECO) ha stimato per il 2024 una crescita dei beni del 5.1% e dei servizi del 2.3%. L’andamento dei consumi privati rimane positivo (+1.5%) esattamente in linea con quello dei consumi dell’amministrazioni pubbliche. Anche il settore delle costruzioni, che l’anno scorso aveva segnato una riduzione del -2.7%, sembrerebbe confermare il suo momento positivo (+0.5%). Ciò che preoccupa un po’ gli economisti sono gli investimenti in macchinari, la cui previsione si colloca al -2%. Questo, potrebbe significare che gli imprenditori pensano che la domanda non andrà troppo bene e che quindi non sarà necessario aumentare la produzione e di conseguenza gli investimenti. Ma noi sappiamo che le cose possono cambiare e quindi speriamo in bene. In totale, la previsione dell’aumento del prodotto interno lordo (PIL) sarà per il 2024 dell’1.2%.
Questa crescita, seppur positiva, rimane una crescita abbastanza contenuta e, in effetti, il tasso di disoccupazione medio per quest’anno dovrebbe salire dal 2% al 2.4%. Una buona notizia però c’è: l’indice dei prezzi del consumo, ossia l’inflazione, dovrebbe finalmente tornare a livelli stabili. Il tasso previsto per quest’anno sarà dell’1.2%.
Notizie ancora più buone riguardano l’anno prossimo, anno in cui l’aumento dei prezzi dovrebbe limitarsi allo 0.7%. Questo, insieme all’andamento positivo dei consumi privati, della spesa dello Stato, degli investimenti in costruzioni e della ripresa di quelli in beni di equipaggiamento, come pure della crescita delle esportazioni, dovrebbero portare il prodotto interno lordo a crescere nel 2025 dell’1.6%.
Anche per l’anno prossimo, quindi non sarà prevista una crescita esorbitante, ma probabilmente dobbiamo anche abituarci che è finita l’epoca di tassi di crescita superiori al 2%. Questo, non significa per forza che le cose andranno male. Se questo tasso sarà sufficiente a garantire di compensare l’aumento della popolazione e l’impatto del progresso tecnologico, le persone potranno andare avanti ad avere un lavoro e di conseguenza un reddito. Per cui ancora una volta, leggiamo la realtà oltre i dati.

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Ci sono i disoccupati in Ticino? Sì, no, forse…

Ancora una volta i dati sulla disoccupazione in Ticino litigano. E lo fanno anche in maniera plateale. Il tasso di disoccupazione del quarto trimestre del 2023 in Ticino calcolato secondo il metodo dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) è stato di ben il 6.2%. Stabile rispetto ai tre mesi precedenti, ma in aumento rispetto allo stesso periodo dell’anno 2022, in cui il tasso era del 5.6%. In termini numerici si parla di quasi 11.000 persone alla ricerca di un posto di lavoro.

I dati invece pubblicati mensilmente dalla Segreteria di Stato dell’economia (SECO) indicavano per lo stesso periodo dell’anno, ossia settembre-dicembre 2023, una media sul trimestre del 2.4% e di circa 4’400 persone.

Insomma, tra i due dati ancora una volta c’è una differenza di ben 2.5 volte. Ma chi ha ragione? Quanti sono davvero i disoccupati in cerca di lavoro in Ticino? Se ci basassimo sulle nostre sensazioni e sul nostro vissuto quotidiano non avremo alcun dubbio nel dire che il dato che maggiormente si avvicina alla realtà è quello calcolato secondo il metodo dell’ILO; anzi, forse anche questo risulta sottostimato. Alla stessa considerazione arriviamo se riflettiamo in termini più scientifici. Vediamo perché.

Il tasso di disoccupazione calcolato dalla SECO è corretto nel senso che conta tutte le persone iscritte presso gli uffici regionali di collocamento (URC) e poi le rapporta alla popolazione attiva. Un metodo decisamente corretto che dà un risultato altrettanto veritiero. Peccato che questo indicatore si riferisca esclusivamente alle persone disoccupate e contemporaneamente iscritte presso gli URC. Nella realtà noi sappiamo che tendenzialmente si iscrivono agli URC solamente le persone che hanno diritto all’indennità di disoccupazione. Anche perché sappiamo che purtroppo questi uffici non sono di grande aiuto nella ricerca effettiva di lavoro. Nella realtà tuttavia, ci sono tantissime persone disoccupate e in cerca di un lavoro che però non sono iscritte in questi uffici. Pensiamo a coloro che hanno finito il diritto alle indennità, agli studenti che hanno appena concluso la loro formazione, alle persone scoraggiate e in generale a tutti coloro che non hanno diritto al versamento dell’indennità.

Per compensare le lacune di questo indicatore, la statistica ha creato uno strumento che potesse quantificare meglio il fenomeno. In effetti, il tasso di disoccupazione calcolato secondo il metodo dell’ILO, si basa non sul conteggio effettivo ma su una stima dei disoccupati che viene fatta attraverso sondaggi telefonici.

È evidente che questo secondo metodo si avvicina meglio al concetto comune di disoccupati. A questo punto ci chiediamo perché non cercare di risolvere questa confusione di pensiero semplicemente specificando meglio che il tasso di disoccupazione calcolato dalla SECO in realtà non rappresenta tanto questo fenomeno quanto esclusivamente i beneficiari dell’indennità. Non sarebbe quindi più corretto semplicemente cambiargli nome, anziché andare avanti a generare un’immagine falsata dello stato di salute del nostro mercato del lavoro?

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