Dazi USA: quando la politica si incarta, ci pensano gli imprenditori

In evidenza

Il 14 novembre 2025 arriva finalmente un po’ di calma nei rapporti tra Stati Uniti e Svizzera. Dopo mesi di nervosismo sui dazi, le due parti hanno trovato un accordo: Washington taglia i dazi sulle esportazioni svizzere dal 39% al 15%. Una sforbiciata che non risolve tutto, ma riporta un po’ d’ordine in una relazione che negli ultimi tempi era diventata tesa.

Ovviamente l’accordo non è piovuto dal cielo. La Svizzera ha accettato di togliere i dazi su alcuni prodotti americani e di introdurre quote preferenziali su carne di manzo, bisonte e pollame. Uno scambio abbastanza classico: continuare a commerciare proteggendo settori “delicati” dei due paesi.

A conferma che serviva muoversi in fretta, proprio ieri Swissmem ha reso noto un nuovo calo nelle esportazioni dell’industria tecnologica, con metalli e meccanica sotto pressione. Un messaggio abbastanza chiaro: il settore non aveva più margine per aspettare.

E qui va detto chiaramente: l’accordo non è merito solo delle diplomazie. Il 5 novembre diversi imprenditori svizzeri, quelli che negli USA investono, esportano e rischiano in prima persona, sono andati a trattare sul posto. Hanno spiegato cosa stava succedendo alle aziende, ai lavoratori e alle catene di fornitura. Hanno portato numeri e casi concreti, e hanno dato una spinta decisiva al negoziato. Non è la prima volta che il settore privato aggiusta dove la politica tentenna.

Sul fronte degli investimenti c’è poi un impegno importante: circa 200 miliardi di dollari (160 miliardi CHF) di aziende private negli Stati Uniti entro il 2028, con focus su innovazione, tecnologia e formazione. Non è solo una cifra scenografica. È il segnale di due economie (anche se con potere diverso) che sanno di essere più forti se collaborano.

Risultato: per le imprese svizzere si apre una fase un po’ più stabile e un po’ meno costosa. Buona notizia. Ma servirà attenzione, perché il contesto globale resta turbolento, con tensioni economiche e geopolitiche che rendono il franco svizzero ancora più forte.

E questo, se troppo forte, diventa l’ennesimo problema per l’industria di esportazione. 

Trump, i dazi e la realtà: le Cassandre hanno sbagliato di nuovo

In evidenza

Il 2 aprile del 2025, quando il presidente Donald Trump ha annunciato al mondo l’entrata in vigore di nuovi dazi, in molti hanno decretato la fine degli Stati Uniti. Gli esperti non si sono risparmiati: inflazione alle stelle, disoccupazione a livelli record, delocalizzazione delle aziende nel resto del mondo, ricercatori e accademici che sarebbero fuggiti da lì a breve, isolamento internazionale.

Quasi nessuno si era preso la briga di leggere i rapporti che spiegavano quali fossero le logiche economiche che sottintendevano questa misura e quali gli obiettivi che si volevano raggiungere. Tra questi ricordiamo che l’amministrazione americana ambiva ad aumentare il gettito fiscale per contribuire al risanamento del deficit, a riportare sul proprio territorio aziende internazionali dalle quali importava merci per milioni di dollari, a ridurre il valore della moneta americana per rendere più attrattive le esportazioni, ad abolire alcune regolamentazioni degli altri paesi che limitavano le esportazioni americane. E ancora, a fare in modo di esercitare pressione sui paesi affinché acquistassero titoli del debito pubblico americano a basso tasso di interesse e a lunghissima scadenza.

Dopo quel 2 aprile, abbiamo assistito a un andirivieni di ministri e di governi che si sono recati negli Stati Uniti per cercare accordi con il presidente americano. L’unico paese che non ha ritenuto necessario mandare uno dei suoi consiglieri federali negli Stati Uniti è stata la Svizzera. Risultato: tutti i paesi hanno ottenuto dazi sopportabili, la Svizzera è stata punita con un tasso del 39%.

E arriviamo alla notizia odierna. Trump ha annunciato che introdurrà tariffe del 100% alle importazioni di farmaci, tranne per quelle aziende che hanno già stabilimenti produttivi negli Stati Uniti oppure che dimostreranno di volerlo fare con ingenti investimenti locali.

Probabilmente qualcuno degli esperti che ha ignorato finora ciò che stava accadendo (non per malafede, ma per quel bias cognitivo che ci porta a selezionare le informazioni che confermano le nostre tesi), sarà rimasto stupito nel leggere che le farmaceutiche svizzere dichiarano di non essere preoccupate di questa nuova imposizione.

E sapete perché? Perché, come spesso capita, l’economia è più veloce della politica. Dal momento che le grandi aziende hanno intuito che il vento in termini di politiche commerciali era cambiato, si sono adoperate per rispondere per tempo alle possibili minacce.

E così, per esempio, Apple aveva sin da subito annunciato investimenti miliardari negli Stati Uniti (l’ultimo in agosto di 100 miliardi di dollari, ca. 86 miliardi CHF). Ma così hanno fatto tante altre. Tra queste non sono mancate le aziende farmaceutiche svizzere, che hanno di fatto anticipato i tempi e dato risposta alle misure sul settore.

Se dovessimo tirare oggi le somme, a distanza di sei mesi dagli annunci di Trump, dovremmo riconoscere che le Cassandre anche questa volta hanno sbagliato. L’inflazione è sotto controllo. Il mercato del lavoro, anche se in rallentamento, tiene. Le entrate fiscali sono aumentate.

Gli Stati Uniti vanno avanti non solo a mantenere, ma probabilmente a rafforzare ancora di più il loro ruolo di potenza mondiale. E infine le aziende stanno investendo negli Stati Uniti ed è lì che creeranno posti di lavoro. Speriamo non sulle spalle di noi svizzeri.

Ascolta

Quando a dettare le regole sono gli altri La travagliata storia dei rapporti Svizzera-USA

In evidenza

Oggi i rapporti tra Stati Uniti e Svizzera sono tra i più tesi di sempre. Ma non è una novità assoluta: i due Paesi condividono valori comuni, certo, ma questo non li ha mai messi al riparo da crisi ricorrenti, anzi. Le tensioni maggiori arrivano sui temi della neutralità, di economia internazionale o sui temi finanziari.
Uno dei primi scontri importanti risale alla Seconda guerra mondiale. La Svizzera applicò una politica di tolleranza zero contro chiunque violasse il suo spazio aereo: che fossero gli Alleati (Gran Bretagna, Stati Uniti, Unione Sovietica) o le potenze dell’Asse (Germania, Italia, Giappone). Questo portò ad abbattere diversi aerei statunitensi e alla morte di circa una quarantina di aviatori alleati. Ma anche gli Stati Uniti colpirono: nell’aprile del 1944 durante il bombardamento di Sciaffusa uccisero tra i 40 e 60 civili svizzeri.
Dopo qualche decennio di calma apparente, le tensioni tornano negli anni 90 quando si scoprì che alcune banche svizzere custodivano molti depositi appartenenti a vittime dell’Olocausto. La pressione diplomatica di Washington e della comunità ebraica fu tale da costringere la Svizzera ad allentare il segreto bancario e creare ingenti fondi di compensazione.
Quel segreto bancario, sopravvissuto a lungo, ricevette il colpo definitivo nel 2009, quando in piena crisi finanziaria, gli Stati Uniti citarono in giudizio UBS ottenendo i dati di quasi 52’000 americani con conti in Svizzera.
Sul fronte commerciale il gelo risale al 2006 quando i negoziati per un accordo di libero scambio naufragarono per divergenze in materia agricola e sugli organismi geneticamente modificati.
E arriviamo al presente: il 7 agosto 2025 l’amministrazione Trump annuncia dazi fino al 39% su molte esportazioni svizzere, in particolare nei settori come orologeria, cioccolato, macchinari di precisione. La tariffa è la più alta mai applicata a un paese sviluppato. L’atto viene percepito come punitivo e il danno potenziale alle esportazioni è significativo. Tanto è stato scritto sull’incapacità diplomatica e politica svizzera e su questa non torneremo.
Come se non bastasse, è di pochi giorni fa un’altra grana: gli Stati Uniti negano di aver mai accettato un prezzo fisso per l’acquisto degli F-35 che Berna riteneva di aver già concordato. Il risultato è che se la Svizzera vorrà gli aerei dovrà accettare un aumento compreso tra i 650 milioni e 1,3 miliardi di franchi rispetto ai 6 miliardi stimati inizialmente.
Questa non è e non sarà la prima né l’ultima volta che Berna e Washington si trovano ai ferri corti. Le tensioni, come in passato, verranno superate. Ma non illudiamoci: la piccola Svizzera non ne uscirà vincitrice. Inutile pensare di essere potenti: in uno scontro così asimmetrico, il campo da gioco, le regole e perfino il pallone appartengono all’avversario.

Pubblicato da L’Osservatore, 16.08.2025

Ascolta

Accordo Stati Uniti Cina: buone notizie anche per noi

In evidenza

L’accordo appena siglato tra Stati Uniti e Cina sui dazi è una buona notizia. Non solo per loro, che da anni si contendono il primato globale a colpi di tariffe e ritorsioni, ma per tutti noi. È un segnale di distensione, e quando due potenze di quella taglia si parlano invece di farsi la guerra commerciale, l’aria si fa subito più respirabile. Anche per la Svizzera.

Non si tratta solo di dazi. Si tratta, prima di tutto, di ridurre l’incertezza. E l’incertezza è il peggior nemico dell’economia. Quando le persone hanno paura del futuro, consumano meno. E quando i consumi calano, le imprese producono meno, assumono meno e addirittura licenziano. In aggiunta le aziende prevedono che le cose peggioreranno e quindi investono meno. Questo rallenta l’intera economia. E rallenta ovunque.

Un accordo tra USA e Cina, quindi, ha un primo effetto immediato: riattiva la fiducia. E senza fiducia, l’economia non gira. Le aziende non pianificano, i consumatori non spendono, i governi rinviano. Ma se si ristabilisce un orizzonte stabile, allora si torna a investire, a produrre, a costruire. E la crescita riparte.

Per la Svizzera questo è particolarmente importante. Siamo un Paese esportatore. Ma non solo: i nostri prodotti fanno parte di filiere globali complesse. Pensiamo all’orologeria, alla farmaceutica, alla meccanica di precisione, all’elettronica. Importiamo materie prime e componenti da tutto il mondo, li trasformiamo qui, e poi li rivendiamo. Se le regole del gioco cambiano continuamente, o se due giganti economici si fanno la guerra, noi finiamo nel mezzo. Dobbiamo pagare di più per quello che importiamo e vendere ad un prezzo più alto quello che vendiamo: insomma, il peggiore dei mondi.

Un sistema aperto, stabile e prevedibile è la condizione minima per difendere il nostro modello economico. Più i grandi si parlano, più noi possiamo fare bene quello che sappiamo fare meglio: innovare, produrre qualità, vendere ad alto valore aggiunto.

E c’è un altro punto. Quando i mercati si chiudono, i prodotti in eccesso finiscono da qualche altra parte. Se la Cina non riesce a vendere negli Stati Uniti, quei beni cercheranno sbocchi altrove. Anche in Europa. Anche da noi. E questo significa concorrenza più aggressiva, prezzi più bassi e difficoltà per i nostri settori.

In sintesi: l’accordo tra Stati Uniti e Cina è una buona notizia perché riduce l’incertezza, protegge le catene globali di produzione e aiuta a evitare squilibri nei mercati. Non risolve tutto, ma è un passo nella direzione giusta. E per un’economia aperta come la nostra, è un passo che conta.

Sintesi dell’intervista rilasciata a Radio Ticino, 12.05.2025

Importante: sotto trovate un audio generato con la mia voce clonata dall’Intelligenza Artificiale: impressionante

Ascolta: contenuto generato con voce clonata con l’IA
In evidenza

Il -0,3% del PIL non affonda Trump, ma l’informazione economica

Nel primo trimestre del 2025 il prodotto interno lordo degli Stati Uniti si è contratto dello 0,3%. È bastato questo dato per far partire una raffica di commenti trionfali da parte di chi da tempo prevede (e auspica) il fallimento della politica economica dell’amministrazione Trump. Ma è un errore. Più che un segnale allarmante sull’economia, questo dato è il riflesso distorto di un meccanismo contabile e di alcuni fenomeni transitori. Bastava leggere con attenzione il comunicato del Bureau of Economic Analysis (BEA).

Prima di tutto, il -0,3% è una variazione annualizzata, come d’uso negli Stati Uniti. Significa che il dato indica quanto crescerebbe (o calerebbe) il PIL in un anno se la dinamica del primo trimestre si ripetesse identica nei successivi tre. Il dato non annualizzato, cioè la variazione trimestrale del primo trimestre, mostra una flessione modesta, inferiore allo 0,1%.

Ma la questione non è solo tecnica. Serve un’analisi macroeconomica. Il PIL è composto da quattro elementi: consumi delle famiglie, spesa pubblica, investimenti delle imprese e esportazioni nette (cioè esportazioni meno importazioni). In questo trimestre, la dinamica della bilancia commerciale ha inciso in modo determinante. Le importazioni sono aumentate del 41,3%. Un incremento eccezionale, legato in parte al timore di nuovi dazi: molte imprese hanno anticipato gli acquisti dall’estero, soprattutto nel settore farmaceutico e nei beni capitali (come computer e componenti industriali).

Questo boom delle importazioni ha causato un disavanzo commerciale record: 162 miliardi di dollari solo nel mese di marzo (circa 134 miliardi di franchi). È un’anomalia che lo stesso BEA ha sottolineato. Inoltre, per semplificare dal punto di vista tecnico, è come se una parte consistente di queste merci importate non sia ancora stata registrata come incremento delle scorte, perché non è fisicamente entrata nei magazzini o è stata contabilizzata in modo differito. Poiché le importazioni sono sottratte dal calcolo del PIL, la loro impennata ha avuto un impatto negativo immediato, ma distorto, sull’indicatore.

Altri fattori da considerare: la spesa pubblica è diminuita, come previsto dai programmi dell’amministrazione Trump. Anche questo ha inciso sulla riduzione del PIL. Ma si tratta di una scelta politica coerente, non di un segnale di debolezza congiunturale.

Infine, va allargato lo sguardo. Un solo dato trimestrale, per quanto importante, non può restituire lo stato di salute di un’economia. Occupazione, consumi, inflazione e creazione di posti di lavoro indicano che non siamo di fronte a una crisi. Il mercato del lavoro è solido, l’inflazione sotto controllo, la domanda interna regge.

Il dato del PIL va quindi interpretato con cautela. Non è una pagella politica. È una fotografia parziale, influenzata da fattori tecnici e congiunturali. Saper leggere questi numeri richiede attenzione e competenza. Altrimenti si finisce per fare propaganda. E l’economia, a differenza della politica, ha bisogno di lucidità.

Ascolta
In evidenza

Dazi sì, dazi no…

Domanda: A suo avviso perché Trump ha fatto retromarcia, congelando per 90 giorni i super dazi per la maggior parte dei paesi? Era una strategia negoziale prevista fin dall’inizio, come sostiene il Governo americano, oppure il presidente si è spaventato per la reazione turbolenta dei mercati, con particolare riferimento ai titoli di Stato americani?
Probabilmente la decisione di rinviare per tre mesi l’applicazione dei super dazi – mantenendoli però nei confronti della Cina – era uno degli scenari già considerati a Washington. A supporto di questa ipotesi si può citare l’intervento del 7 aprile del Consigliere economico della Casa Bianca, Kevin Hassett, che aveva lasciato intendere la possibilità di una sospensione, poi smentita ufficialmente. La moratoria è comunque entrata in vigore il 9 aprile, proprio il giorno in cui le nuove tariffe sarebbero dovute scattare.
L’evoluzione successiva si è sviluppata secondo schemi ben noti all’analisi economica. Primo: la minaccia tariffaria ha avuto l’effetto desiderato, mostrando un alto grado di credibilità e spingendo i partner internazionali a muoversi in direzione di un confronto negoziale. Secondo: il crollo dei mercati azionari a livello globale era un effetto annunciato, così come la reazione immediata delle grandi imprese coinvolte, preoccupate per l’impatto sui margini e sulle catene di fornitura. Terzo: le vendite di titoli di Stato americani e il conseguente aumento dei rendimenti erano del tutto in linea con le aspettative, così come l’indebolimento del dollaro, che potrebbe essere stato anche un obiettivo indiretto dell’operazione. In sintesi, se si decide di generare deliberatamente uno shock – come quello rappresentato da dazi elevatissimi annunciati unilateralmente – le reazioni del sistema sono anticipabili. Ciò che, forse, ha sorpreso è stata la rapidità e l’intensità con cui queste reazioni si sono manifestate. Ed è verosimile che proprio questa risposta anticipata e molto violenta abbia indotto la Casa Bianca a sospendere l’applicazione delle misure, prima ancora che venissero materialmente applicate a un solo paese.


Domanda: L’escalation con la Cina invece prosegue senza esclusione di colpi. Quali sono le conseguenze per l’economia globale della guerra commerciale in atto tra Pechino e Washington?
La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina – le due principali potenze economiche globali – è destinata ad avere ripercussioni rilevanti sull’economia mondiale. L’imposizione di dazi statunitensi fino al 145%, a cui la Cina ha risposto con contromisure tariffarie (al 125%) e contromisure su tecnologie strategiche e materie prime critiche, come le terre rare, mette sotto pressione le catene globali del valore. Le conseguenze sono già osservabili: l’aumento dei costi per le imprese si traduce in una pressione al rialzo sui prezzi finali per i consumatori. Parliamo di beni ad ampia diffusione come smartphone, abbigliamento o automobili. L’inflazione, da poco sotto controllo, torna quindi a essere un tema centrale nel dibattito economico.
Quanto all’impatto sul commercio internazionale, formulare previsioni precise in questa fase è prematuro. Tuttavia, una contrazione – seppur ancora da quantificare – è un esito plausibile, anche solo per effetto dell’incertezza. E l’incertezza è notoriamente una delle condizioni più penalizzanti per l’economia. Da un lato, può spingere i consumatori a rallentare i consumi; dall’altro, può paralizzare le decisioni strategiche delle imprese, che si trovano in bilico tra investire, delocalizzare o attendere.
Sul fronte delle due superpotenze, la Cina comunica fiducia e stabilità. Ha diversificato i propri mercati di sbocco, rafforzando i legami con l’Asia, l’Africa e l’America Latina. Tuttavia, il ruolo delle esportazioni verso economie ad alto reddito resta determinante per la sua crescita. Gli Stati Uniti, pur apparendo oggi meno affidabili come partner commerciali, mantengono una posizione dominante: restano la prima potenza economica, finanziaria, militare e tecnologica globale.
A fronte di questo scenario, ciò che desta maggiore preoccupazione è la posizione dell’Unione Europea. Pur rappresentando un attore economico di rilievo, l’UE non ha la stessa forza negoziale né la stessa coesione politica delle due potenze in campo. L’assenza di una vera unione politica – con una governance comune e una politica estera condivisa – limita fortemente la capacità dell’Europa di incidere sulle dinamiche globali.
Di fatto, anche in questo contesto, l’UE agisce in modo reattivo. Non detta l’agenda, ma risponde agli stimoli esterni. Questo squilibrio strutturale indebolisce il suo peso nella definizione delle regole del commercio internazionale, rendendola esposta alle decisioni unilaterali di Washington e Pechino.


Domanda: Intanto Europa e Pechino flirtano apertamente, come mai prima d’ora. Il presidente XI JINPING ha lanciato un appello all’UE ad unirsi alla Cina contro il bullismo americano, ricordando tuttavia che nessuno può vincere una guerra commerciale. A preoccupare maggiormente però è la crisi di fiducia nella stabilità del sistema Paese USA che Trump ha provocato con la sua politica tariffale, oltre al clima d’incertezza che angoscia le imprese ti tutto il Mondo, Svizzera compresa. Tra Europa e Cina sarà solo un flirt o si andrà oltre? E dovremo abituarci a una nuova era di precarietà?
L’invito rivolto da Xi Jinping all’Unione Europea a contrastare il cosiddetto “bullismo” americano si inserisce in una strategia chiara da parte della Cina: approfittare dell’instabilità generata dalle politiche tariffarie statunitensi per proporsi come interlocutore affidabile. Per l’Europa, tuttavia, la posizione è delicata. Da un lato, deve preservare l’alleanza con gli Stati Uniti, fondamentale per la sicurezza e la cooperazione geopolitica. Dall’altro, le imprese europee colpite dalle misure protezionistiche americane vedono nella Cina un mercato prioritario e un importante bacino d’investimenti. Al di là delle dichiarazioni fatte anche sull’onda di una certa necessità, non dimentichiamo che pochi mesi fa, nell’ottobre 2024, Bruxelles ha deciso di imporre dazi fino al 35% sulle automobili elettriche cinesi, una mossa per proteggere l’industria automobilistica europea dalla concorrenza a basso costo di marchi come BYD o NIO. Questa decisione riflette il timore dell’UE di perdere terreno in un settore strategico, ma ha anche irritato Pechino che ha risposto con indagini antidumping su prodotti europei come il brandy francese.
Questi sviluppi mostrano come un eventuale riavvicinamento tra UE e Cina sia tutt’altro che semplice e rappresenti un grande rischio per l’Unione Europea. Sul piano economico, una maggiore esposizione commerciale verso la Cina comporta rischi non trascurabili. La dipendenza in settori chiave – come le tecnologie avanzate o le materie prime critiche – potrebbe trasformarsi in una leva di pressione politica. La Cina, in passato, ha già limitato l’esportazione di risorse strategiche come strumento di risposta alle tensioni diplomatiche. A questo si aggiunge il rischio di compromettere i rapporti con gli Stati Uniti su temi come la sicurezza e l’innovazione. Infine, e forse rischio ancora più grande, l’Europa potrebbe trovarsi schiacciata dalla Cina, una superpotenza con un’economia di certo non liberale e che non condivide i valori democratici dell’UE. Aumentare gli scambi senza garanzie di reciprocità potrebbe portare a una competizione sleale, con le imprese europee penalizzate da sussidi cinesi e mancanza di accesso equo al mercato di Pechino.
In un mondo dominato da due superpotenze, l’Europa rischia di rimanere un attore secondario, costretta a navigare tra i due giganti senza poter imporre la propria visione. La Svizzera, fatte le debite proporzioni, al contrario, adotta un approccio più flessibile verso la Cina. È stata il primo paese europeo a firmare un accordo di libero scambio con la Cina, siglato nel 2013 ed entrato in vigore nel 2014. L’intesa ha contribuito a ridurre le barriere tariffarie su settori ad alta specializzazione come la farmaceutica, l’orologeria e la meccanica. È significativo che l’intesa non includesse, per la prima volta, un preambolo esplicito sul rispetto dei diritti umani, riflettendo la priorità svizzera di massimizzare i benefici economici senza farsi scrupoli in questioni ideologiche. Questo orientamento ha permesso alla Svizzera di costruire relazioni commerciali stabili con Pechino, a differenza dell’UE, che continua a oscillare tra la tutela dei principi e la difesa degli interessi. Ne è prova l’Accordo Globale sugli Investimenti (CAI) negoziato per anni e che è stato sospeso nel 2021 dal Parlamento Europeo a seguito di tensioni diplomatiche e divergenze sui diritti umani.

Intervista pubblicata da Liberatv, 12.04.2025

In evidenza

Trump ha fatto la prima mossa. Ma non controlla tutto il tavolo

Tanto tuonò che piovve. E alla fine, i dazi annunciati dal Presidente Trump sono arrivati. Non più minaccia, ma provvedimento. E come prevedibile, l’impatto immediato è stato più politico-mediatico che economico (se escludiamo quello sui mercati azionari). In poche ore, si sono moltiplicate dichiarazioni confuse, talvolta contraddittorie, da parte di leader politici, ministri, esperti e commentatori. Un vero eccesso comunicativo.
Una delle poche eccezioni, la presidente Karin Keller-Sutter, che, in stile tipicamente svizzero, ha preferito il silenzio fino alla conferenza stampa di giovedì quando ha comunicato che la Svizzera non attuerà misure di ritorsione.
L’introduzione di dazi selettivi ha un impatto economico che va letto con attenzione. E non basta dire che “il protezionismo porta solo disastri”. È una posizione ideologica, non un’analisi.
Ricordiamolo: i dazi sono imposte sull’importazione. Fanno salire i prezzi dei beni esteri, riducono la concorrenza, spingono la produzione interna. Ma l’impatto è asimmetrico e settoriale. Alcuni settori beneficiano, altri soffrono. Qualcuno guadagna, qualcuno perde. Se proteggi l’acciaio, rischi di penalizzare l’industria dell’auto. Se aiuti il manifatturiero, alzi i prezzi al consumo.
Vero, i dazi di Trump non sono frutto di un’elaborazione tecnica condivisa o di un modello economico trasparente. Sono decisioni politiche, spesso annunciate via social prima ancora che siano definite nelle modalità applicative. Il calcolo dei costi e benefici? Ai nostri occhi, opaco. La selezione dei settori colpiti? Sembra elettorale, ma forse è più mirata di quanto appare. In apparenza, non siamo davanti a una politica industriale organica.
Eppure, non tutto è irrazionale. Alcune imprese, anche svizzere non escludono di rilocalizzare negli Stati Uniti. Questo perché, a differenza dei cittadini, le imprese non hanno identità territoriali. Hanno vincoli competitivi. E se il costo-opportunità cambia, cambiano anche loro.
Pensare che il libero mercato sia sempre la scelta migliore, in ogni condizione, è un dogma. La globalizzazione ha prodotto vantaggi enormi, ma anche squilibri che oggi nessuno può ignorare. Trump, nel suo modo disordinato, intercetta una parte di questo problema. Anche se lo fa con strumenti discutibili.
Quello che serve ora non è la condanna morale o l’applauso ideologico. Serve tempo.
Il pallino, in questo momento, è nelle mani di Trump. Ma sarebbe un errore pensare che il gioco sia solo suo. Le reazioni dei partner commerciali, le dinamiche delle filiere globali, le decisioni delle imprese e il comportamento dei consumatori contribuiranno a ridisegnare la partita. Trump può muovere per primo, ma non controlla tutto il tavolo. E i dazi, per quanto rumorosi, sono solo una delle pedine.

Ascolta

Articolo pubblicato da L’Osservatore, 5.04.2025

In evidenza

Le auto crollano, l’oro brilla

Questa settimana Donald Trump ha sferrato un altro colpo: ha annunciato che dal 2 aprile saranno applicati dazi del 25% su tutte le automobili importate negli Stati Uniti. In pratica, chi vuole vendere un veicolo in America dovrà pagare molto di più per farlo. L’obiettivo è chiaro: spingere le case automobilistiche americane a produrre di più in patria, e quelle estere a spostare la produzione direttamente negli USA. Ma gli effetti non sono così semplici da prevedere.

Il primo impatto si è visto in borsa. Le azioni delle grandi case automobilistiche, europee e americane, sono crollate. BMW, Mercedes, Volkswagen: tutte giù. General Motors ha perso quasi il 10% a Wall Street in un solo giorno. Perché? Perché i dazi significano costi più alti, vendite più difficili e margini ridotti.

E non parliamo solo di auto straniere. Anche molti veicoli americani vengono assemblati con pezzi importati. Se aumentano i costi di quelle componenti, aumenta anche il prezzo finale. Risultato: auto più care, consumatori scontenti e rischi reali per l’occupazione.

E quando un paese alza i dazi, gli altri non stanno a guardare. Canada, Giappone e Unione Europea hanno già annunciato contromisure. È così che nascono le guerre commerciali: uno colpisce, l’altro risponde, e alla fine tutti tassano tutti.

Nel frattempo, mentre la borsa scende, l’oro sale. Quando i mercati traballano e il futuro diventa incerto, gli investitori si rifugiano nei beni più stabili. E l’oro è il rifugio per eccellenza. Risultato: ha quasi raggiunto i 3’100 dollari l’oncia (che equivale a circa 31,1 grammi), toccando un record storico. È come un termometro: più la situazione si scalda, più l’oro si infiamma. E adesso la febbre è alta.

La domanda vera è: funzionerà? Trump spera di riportare lavoro nelle fabbriche americane, ma il mondo non è più quello degli anni ’80. Le catene produttive sono globali, le aziende sono collegate in tutto il mondo, e nessuno produce tutto da solo. I dazi piacciono a una parte dell’elettorato, ma non è detto che risolvano i problemi. D’altra parte, un po’ di produzione locale in più potrebbe non far male, né all’occupazione né all’ambiente. Come spesso succede, la ragione – e forse anche l’efficacia – sta nel mezzo.

L’Unione Europea pensa mentre la Cina fa

Il viaggio di Xi Jiping in Europa è finito. E ancora una volta è l’Unione Europea a mostrare la sua debolezza. Sì perché il presidente cinese in questa visita ha rafforzato i rapporti commerciali con Francia, Serbia e Ungheria. Questo nonostante le parole molto dure e anche stizzite della presidente uscente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen. In effetti, durante il colloquio aveva dichiarato “abbiamo discusso delle questioni economiche e di commercio; ci sono degli squilibri, che suscitano gravi preoccupazioni e siamo pronti a difendere la nostra economia, se serve”.  Continuava poi muovendo dure critiche alla Cina per quanto riguarda i sussidi di Stato nelle produzioni come le auto elettriche, l’acciaio o i dispositivi medicali che evidentemente, a causa dei prezzi più bassi, guadagnano importantissime quote di mercato in Europa nuocendo alle imprese locali. Questa non è una novità, poiché  sono mesi oramai che l’Unione Europea apre indagini contro la Cina. In aggiunta, la presidente Von der Leyen ha invitato caldamente Pechino a intervenire nel conflitto ucraino facendo pressioni sulla Russia per quanto riguarda la minaccia nucleare e a non fornirle più alcun equipaggiamento militare. Crediamo che questi auspici cadranno nel vuoto, tant’è vero che da parte del presidente cinese non vi è stata nessuna dichiarazione in merito.

Ma non finisce qui. Xi Jiping in questo viaggio è riuscito a rafforzare ulteriormente le sue relazioni con Francia, Serbia e Ungheria.  Se nel caso francese i rapporti sono stati un po’ più complessi, con la Serbia e l’Ungheria si sono rafforzate ulteriormente alleanze già solide. In effetti, il presidente cinese definisce il rapporto con la Serbia un’ “ amicizia d’acciaio” e non a caso sono stati siglati ben 28 atti, tra accordi bilaterali e protocolli di intesa, per aumentare la cooperazione. Nel caso ungherese il presidente cinese si è mostrato ancora più vicino a questa nazione: oltre a parlare di “posizioni e visioni simili”, ha elogiato l’indipendenza del governo del premier Orban rispetto alla politica estera europea. Non per niente di recente il produttore cinese di auto elettriche BYD ha aperto la prima fabbrica europea proprio in Ungheria, paese che già ospita diversi produttori di batterie al litio. Anche in questo caso i due paesi hanno sottoscritto 18 nuovi accordi per aumentare la cooperazione economica e culturale. D’altronde non è una novità che l’Ungheria e il suo premier siano una spina nel fianco per l’Unione Europea.

È evidente che la Cina ha enormi interessi a penetrare ulteriormente il mercato europeo, d’altronde se la risposta europea è esclusivamente quella di cercare di bloccare l’accesso attraverso inchieste che limitino il commercio, Pechino non avrà grosse difficoltà a vincere.

Da sempre sottolineiamo che la competitività di un paese va ricercata nella formazione, nella ricerca e nello sviluppo di prodotti innovativi, di certo non innalzando barriere. Purtroppo, lo diciamo ancora una volta, l’Unione Europea sembra aver dimenticato che per progredire bisogna prima di tutto fare. E all’orizzonte non paiono esserci grandi progetti di un ritorno alla cara vecchia “industria”. Cosa che al contrario non disdegnano i cinesi, anzi ora vengono anche in Europa a produrre.

Ascolta

Basta un poco di zucchero e la pillola va giù. Anche con i dazi

Lo zucchero svizzero è in pericolo. E noi dobbiamo proteggerlo. Questo in sintesi il messaggio del consiglio nazionale. All’inizio pensavo di scrivere un articolo prendendo spunto da questa notizia per parlarvi della storia del commercio internazionale. Pensavo di viaggiare tra mercantilisti, Colbert, nelle tesi di Ricardo sui vantaggi comparati, nel liberalismo e nella globalizzazione, senza evidentemente trascurare il padre fondatore dell’economia politica, Adam Smith. E invece, documentandomi sullo zucchero mi sono appassionata e ora vi racconto cosa ho scoperto.
In Svizzera produciamo zucchero e lo facciamo da quasi 110 anni con una sola azienda, la Zucchero Svizzero SA (ZUS). Il nome così eloquente probabilmente è il frutto dei tempi di allora. Siamo in presenza di un monopolio (nelle prossime settimane spiegheremo le forme di mercato). La ZUS ha due sedi di produzione, e 155-180 collaboratori di cui 10 apprendisti. La produzione dello zucchero avviene nel periodo chiamato campagna, tra fine settembre e fine dicembre. Le barbabietole vengono trasformate in zucchero cristallino e in succo denso che sarà sottoposto alla cristallizzazione in primavera. Lo zucchero sciolto viene poi immagazzinato in silos e infine imballato e venduto al dettaglio. Nel 2019 la ZUS ha trasformato 1.65 milioni di tonnellate di barbabietole da zucchero in 240 mila tonnellate di zucchero. Per intenderci sono 240 milioni di pacchi di zucchero da un chilo.
In Svizzera abbiamo 4’200 coltivatori di barbabietole da zucchero e seppur sfruttino meglio le economie di scala (coltivare un terreno più grande consente di abbassare il costo della produzione di una barbabietola perché si possono sfruttare maggiormente i macchinari e i processi), la produzione locale non basta. La Zucchero Svizzero SA importa barbabietole, sciroppo di zucchero e zucchero.
Nel 2017 l’Unione Europea ha abolito il sistema di quote che limitava la quantità di produzione di zucchero e questo data la sua continua ricerca del mercato libero. Così facendo è aumentata fortemente la produzione di zucchero e ne è diminuito il prezzo. L’impatto rispetto a quello svizzero è stato ancora maggiore a causa del tasso di cambio. Nel 2006 il prezzo di 100 kg era di 100 franchi, oggi siamo alla metà, 50 franchi. E allora voi potreste dire “meglio per noi consumatori”. Peccato che le cose non siano così semplici. A rischio c’è la produzione nazionale di zucchero, la salvaguardia della catena di valore (dalla barbabietola agli zuccherifici) e i posti di lavoro. E non dimentichiamo il rischio dei produttori di derrate alimentari che per utilizzare l’indicazione di provenienza “Swissness” devono poter utilizzare il 50% di zucchero svizzero.
Insomma, non si può far morire tutto questo. È quindi ragionevole introdurre un dazio minimo di 70 franchi per tonnellata di zucchero importato oltre a sussidi e contributi alle coltivazioni di barbabietole.
Ricordiamo sempre che prezzo basso non significa per forza affare. Quando poi paragoniamo prodotti provenienti da aree geografiche e politiche diverse non possiamo mai prescindere dalla prudenza. È evidente che i costi di produzione come pure i salari in Svizzera non possono essere, fortunatamente aggiungo io, competitivi con l’Unione Europea. Ma non per questo dobbiamo essere noi a ridurre il nostro tenore di vita.

La versione audio: Basta un poco di zucchero e la pillola va giù. Anche con i dazi
Fonte: https://www.ennaora.it/